It.Cultura.Storia.Militare On-Line
Argomento: Storia Militare Romana - Recensione di Gianfranco Cimino (12/02)

Il titolo innanzi tutto (Il guerriero, l'oplita, il legionario - gli eserciti nel mondo classico) non deve trarre in inganno; non siamo di fronte ad un manuale di storia militare dell'antichità classica, bensì, più
modestamente, come afferma l'autore stesso (Giovanni Brizzi, professore di Storia Romana all'Università di Bologna), ad un "breviarium" di storia militare romana, incentrata, aggiungerei io, soprattutto sul periodo delle guerre puniche a cui è dedicato, in proporzione al periodo coperto, che va dalla riforma di Servio Tullio alle campagne partiche di Traiano, lo spazio maggiore.
Dato lo spazio disponibile, il periodo di tempo coperto, e la vastità dell'argomento principale (l'arte militare romana), si può facilmente perdonare all'autore l'aver dedicato poco spazio agli eserciti Greci ed Ellenistici. D'altronde i concetti chiave dell'arte militare ellenistica sono ben enunciati, a partire dall'uso della falange come "incudine" da parte di Alessandro al suo progressivo aumentare di importanza a discapito della cavalleria e delle altre componenti degli eserciti ellenistici, e quindi a discapito della manovra, fino ad arrivare a considerare la falange stessa come un "maglio" che deve sferrare il colpo decisivo; in realtà bisognerà attendere i picchieri svizzeri affinché questo maglio, in tutt'altro contesto, funzioni veramente.
L'analisi dell'evoluzione dell'arte militare ellenistica, che comprende anche le campagne di Pirro in Italia, è quindi accurata, nei limiti dello spazio concesso all'argomento, solo mi piacerebbe che l'autore si fosse soffermato maggiormente sulla riforma Ificratea, che ebbe una profonda influenza sulle riforme di Filippo II di Macedonia, e sul ruolo avuto dalla qualità delle truppe nei vari scontri tra falangiti ellenistici e legionari romani. Infatti, a mio parere, è incompleta una discussione sugli scontri tra falange e legione che non prenda in considerazione un elemento chiave, e cioè che negli scontri decisivi, come Cinoscefale, Magnesia, Pydna, truppe romane di altissima qualità, non inferiori ai professionisti di Mario e Cesare, si batterono contro gli epigoni delle fanterie di Filippo II ed Alessandro Magno, certamente non all'altezza dei loro modelli (dobbiamo qui ricordare le infelici esperienze degli eserciti Ellenistici contro i Galati).
Passando poi all'argomento principale del libro, ci viene introdotta la riforma Serviana, che prende a modello la falange oplitica, e la trasformazione di questo tipo di strumento bellico nella legione manipolare. Senza dubbio, ancora una volta a causa dello spazio, l'autore non introduce i cambiamenti nella tattica di combattimento romana causati dal contatto con le popolazioni celtiche nel IV secolo a. C. (cfr. The early roman army di P. Connolly, in Warfare in the ancient world, London, 1989), giacchè è proprio questo confronto che trasforma il soldato romano da oplita a spadaccino (preferisco qui parlare di tattiche di combattimento che di armamento individuale). Una volta cambiata la tattica di combattimento, ed adottati la spada, lo scutum ed il pilum, durante le Guerre Sannitiche si affermò la legione manipolare descritta da Polibio. Ma tale affermazione fu graduale, probabilmente ancora all'inizio della guerra contro Pirro, solamente gli hastati avevano i pila, che furono distribuiti ai princincipes solo durante questo conflitto (cfr. Dionigi di Alicarnasso, XX, II). E' da notare inoltre che l'interporre tiratori nella falange era un'idea di Alessandro, che Pirro forse riesumò a contatto con i pila dei Romani.
Esaurito il capitolo dedicato ai Sanniti ed a Pirro, il Prof. Brizzi passa ad illustrare le Guerre Puniche. Devo dire subito che l'autore colloca immediatamente nella sua giusta prospettiva Annibale (ed in generale i Barcidi): il condottiero punico è un rappresentante, forse il più grande, dopo Alessandro, del pensiero militare ellenistico. Questo punto (su cui ho molto insistito su questo NG) è fondamentale per capire l'ispirazione del pensiero militare di Annibale, e non sminuisce affatto la sua grandezza, anzi la rende ancora più grande, visto che nè la sua fanteria (tranne forse, alla fine, i suoi famosi veterani), nè tanto meno la sua cavalleria erano all'altezza di quella Macedone dei tempi d'oro.
In quest'ottica vengono quindi narrate le vicende della prima Guerra Punica relative a Santippo ed a A. Regolo, con la battaglia di Tunisi, passando poi alla rivolta dei mercenari ed alla grande vittoria di Amilcare a Bagradas su di essi, e terminando con le campagne di Annibale, degno figlio e continuatore di Amilcare, in Italia.
Il Prof. Brizzi passa poi a discutere la figura di Scipione, e le sue innovazioni tattiche, che danno flessibilità e capacità manovriera finora sconosciute alla legione manipolare, rivoluzionando l'arte romana della guerra; devo dire a questo punto che la scelta di Brizzi di dare tanto spazio all'Africano è giusta: la sua originalità lo colloca una spanna al di sopra degli altri condottieri romani.
Il pezzo forte del capitolo è la descrizione della battaglia di Zama; anche qui la scelta dell'autore è azzeccata, perché ci può mostrare all'opera due geni militari. Devo però dire che, almeno da come ce la descrive il Prof. Brizzi, a Zama, fu la stella dello sconfitto a rifulgere maggiormente, ed effettivamente questa battaglia fu il canto del cigno, ma anche il capolavoro di Annibale. La mia sensazione è che la fanteria romana era comunque un osso troppo duro per la fanteria punica (anche per i veterani di Annibale, figuriamoci per i già una volta sconfitti mercenari e Libo - Punici), e che Polibio e Livio abbiano volutamente un po' esagerato sull'equilibrio dello scontro finale tra le opposte fanterie. Ma la mia è appunto solo una sensazione e può aver ben ragione il Prof. Brizzi, quando sostiene che fu la resistenza dei legionari (e la cavalleria di Massinissa e Lelio) a vincere la battaglia.
Un altro paio di cose non mi convincono nella ricostruzione dellla battaglia di Zama; innanzi tutto sembra che Annibale rinunzi fin da principio ad opporre resistenza con le cavallerie, il cui principale scopo diventa dunque quello di trascinare lontano dall'azione principale la cavalleria romana. In realtà dalle descrizioni di Livio e di Polibio sembra che la cavalleria cartaginese sia stata prima disordinata dalla fuga degli elefanti punici, e, a ragione di ciò, solo successivamente rotta dalla cavalleria avversaria, di questo nella descrizione di Brizzi non vi è traccia, da essa sembra appunto che la cavalleria punica si sia data immediatamente alla fuga.
Analogamente nelle fonti primarie non vi è traccia del fatto che Scipione non abbia ordinato alle sue cavallerie di ritornare subito alle spalle dei Cartaginesi, nel caso esse avessero prevalso sugli avversari: non credo che Scipione fondasse le sue speranze di vittoria esclusivamente sulla manovra avvolgente (che il genio di Annibale comunque gli negò).
Infine un particolare minore: non credo che, una volta ottenuto le armature romane catturate, i Libi abbiano rinunciato alle loro lance da fanteria ed al loro schieramento a falange, analogamente il fatto che la falange di Amilcare a Bagradas sia stata armata di picche è una pura supposizione.
Ma comunque queste osservazioni non tolgono nulla alla validità del capitolo sulle Guerre Puniche.
Il capitolo successivo, il IV, copre invece il periodo di tempo che va dalle guerre con gli stati ellenistici ad Augusto, ed è molto incentrato su due avvenimenti: lo scontro tra gli ordinamenti militari romani e quelli ellenistici, finora imbattuti in guerre esterne, ed il passaggio dalla legione manipolare alla coorte, con il successivo professionalizzarsi delle legioni sotto Mario. Il primo evento è molto ben descritto da Brizzi, e non vi è molto da aggiungere, a parte l'osservazione già prima avanzata sull'importanza del valore qualitativo delle truppe, ed il fatto che non sono affatto convinto che la cavalleria occidentale (Numidi, Iberici e Galli) fosse oramai efficace quanto la cavalleria di Alessandro Magno (ma qui, evidentemente, il discorso è del tutto teorico ed inutile).
Sull'adozione della coorte in campo tattico invece l'analisi del'autore mi convince fino ad un certo punto: sono d'accordo che l'uso tattico della coorte avvenne per la prima volta sul teatro operativo Iberico, e che l'ispiratore sia stato Scipione l'Africano, e sono valide le ragioni per la sua introduzione citate da Brizzi. Quella che più mi lascia perplesso è quella che l'autore ritiene sia stata la causa prima per l'introduzione della coorte: l'opporsi alla feroce carica degli Iberici. Ciò perché non era la prima volta che l'esercito romano si scontrava con popolazioni barbariche contraddistinte dal loro furor in combattimento, ed il primo esempio che mi viene in mente sono i Galli, il contatto con i quali dette l'impulso all'abbandono della vecchia formazione oplitica già nel IV sec. a.C. Non si capisce allora per quale motivo, per affrontare altri barbari, anch'essi almeno in parte Celti, ed altrettanto impetuosi, si ritorni ad un ordinamento simile. Ma in effetti l'autore basa la sua assunzione sul fatto che nelle prime file della coorte gli uomini siano dotati di armi lunghe, ma di ciò non vi è nessuna evidenza; le truppe romane continuarono ad usare i loro pila come arma principalmente da getto (anche se secondariamente il pilum poteva essere usato come una corta lancia, non molto efficace), ed a essere principalmente degli spadaccini.
Proprio l'uso della spada richiede uno spazio maggiore di quello di cui abbisogna un falangita (Polibio asserisce che ne occorre il doppio), e quindi questa assimilazione della coorte alla falange proprio non tiene. Il Prof. Brizzi, per dare forza alla sua asserzione, si riferisce agli ausiliari del primo Impero, ma anche qui la sua argomentazione non tiene: anche gli ausiliari (cfr. The Emoire di B. Dobson, in Warfare in the ancient world, London, 1989), avevano come arma primaria la spada, pur essendo dotati di una corta lancia usata principalmente come arma da getto contro la fanteria; inoltre la loro formazione era ancora più aperta di quella legionaria.
Anche l'episodio, narrato da Polibio, relativo ad una battaglia con gli Insubri (222 a.C.), non convince pienamente, e potrebbe riferirsi all'uso dei pila delle prime file come aste, invece che all'uso delle vere e proprie lance di cui erano armati i triarii (per una maggiore analisi critica dell'episodio cfr. H. Delbruck History of the art of war within the framework of political history, Westport, Conecticut 1975).
L'asserzione dell'autore andrebbe piuttosto meglio riferita alla maggior solidità dello schieramento della legione, dato dal presentare un fronte unito e continuo al nemico, nell'ordinamento coortale rispetto a quello manipolare.
Per altro resto convinto che l'introduzione della coorte fu dovuta più a problemi di grande tattica o legati al particolare teatro operativo Iberico, che puramente tattici. In effetti, e lo stesso Prof. Brizzi lo riconosce, per effettuare le manovre avvolgenti così care a Scipione, la coorte era più adatta dei manipoli, ed inoltre si sentiva il bisogno, in Iberia, di un'unità tattica che fosse un compromesso tra la legione, potente ma troppo grande, ed il manipolo, flessibile ma troppo piccolo. Devo inoltre dire che alcuni storici militari moderni (ad es. M. Rawson) sostengono che la coorte, come unità tattica, fu introdotta solo ai tempi di Mario, ed evidenziano le imprecisioni nella terminologia militare di Livio.
Arriviamo così all'ultimo capitolo, quello dedicato all'esercito romano durante l'alto Impero. Nonostante l'esiguo spazio a disposizione l'autore delinea in maniera convincente le riforme di Augusto e la sua politica di sicurezza: in realtà però la maggior parte del capitolo è dedicata alle campagne militari contro i Parti, e vengono narrate con un minimo di dettaglio le campagne di Crasso e di Traiano.
Personalmente non sono d'accordo con la scelta del Prof. Brizzi di dare così ampio spazio alle guerre contro i Parti a scapito delle guerre coi Germani (ad esempio la sconfitta di Teutoburgo è classificata come un episodio casuale); dopo tutto anche Tacito reputava più pericolosi i Germani dei Parti ed effettivamente, mentre il regno dei parti fu più volte invaso con successo, non altrettanto può dirsi della Germania Magna. Ma la mia è solo un'opinione, avendo poco spazio la scelta di quale teatro operativo privilegiare è senz'altro problematica.
Ciò premesso la successiva descrizione delle campagne di Crasso e Traiano, e della questione Giudaica, mai completamente risolta, è esauriente e convincente, e, finalmente, mette in luce l'importanza del binomio arcieri a cavallo - catafratti nell'esercito parto, e la relativa debolezza in combattimento di questi ultimi. Tra l'altro noto con piacere che anche il Prof. Brizzi arriva alla cifra di 80.000 uomini (da me avanzata su questo NG qualche tempo fa) per la consistenza numerica dell'esercito di Traiano in Mesopotamia.
Due soli particolari non mi convincono.
Il primo è la supposta difficoltà di spiegare i problemi militari dei Romani coi Parti; personalmente reputo strana questa difficoltà di spiegazione. In effetti questi problemi militari sono i soliti che Keegan (cfr. La Grande storia della guerra) attribuisce ad un esercito Occidentale, votato allo scontro decisivo, che affronta i nomadi della steppa, prima della definitiva maturità delle armi da fuoco. Infatti la successiva analisi della battaglia di Carrhae avanzata dal Prof. Brizzi, è pienamente "Keeganiana", anche se Keegan non è citato nella biografia dell'opera.
L'altro particolare è l'importanza data ai fattori puramente tecnologici (introduzione del pilum pesante e della lorica segmentata) rispetto a quelli tattici (maggiore importanza e peso delle truppe di supporto, ed in primis della cavalleria leggera) e di qualità delle truppe (quelle imperiali erano composte da soldati di professione, la maggior parte di quali veterani - quale differenza con le reclute di Crasso), nelle successive vittorie romane (tra cui preminenti quelle di Traiano). In particolare, nelle discettazioni di pilum e lorica segmentata mi è parso di sentire l'eco delle discussioni su APFSDS e corazze composite così tristemente ( :-) ) famose su questo NG; personalmente reputo dare una così grande importanza agli aspetti tecnologici nell'età classica solo un riflesso della nostra mentalità moderna.
Ma, ancora una volta, queste due questioni marginali nulla tolgono alla validità complessiva dell'esposizione dell'autore.
La parte del libro su cui sono meno d'accordo sono le conclusioni, in cui l'autore cerca di condensare in due pagine e mezzo la successiva evoluzione di tre secoli di storia militare romana, con risultati alquanto infelici. Ad esempio l'alleggerimento della corazzatura del soldato di fanteria, se mai c'è stata, viene anticipata dalla fine del IV d.C. secolo all'inizio del III d.C., e viene riproposta la solita visione di una decadenza continua dell'esercito romano dall'inizio del III secolo d.C. fino alla caduta dell'Impero - se non alla caduta di Costantinopoli nel XV secolo !!.
Infine, last but not the least, vorrei sottolineare che, in corrispondenza di ogni capitolo, il Prof. Brizzi si sofferma su concetti, quale fides, metis ecc., propri della civiltà classica, e che influenzano anche l'arte della guerra Greca e Romana; in effetti spesso ci dimentichiamo che gli ordinamenti militari sono figli dei tempi e della cultura che li esprime, da cui non possono essere estraneati. Ed è forse questo il maggior pregio del libro, l'aver cercato di chiarire al lettore il retroterra culturale del pensiero militare nell'età classica, distaccandolo dalla nostra visione moderna, così deformante.
Insomma, Il guerriero, l'oplita, il legionario è sicuramente un'ottima introduzione alla guerra nel mondo classico in generale e romano in particolare (la risposta italiana all'Osprey?), e come tale non deve mancare a coloro che iniziano ad interessarsi del periodo; anzi, se ce ne fosse la possibilità, sarebbe bello vedere due titoli analoghi, dedicati uno alla guerra nel mondo Greco ed Ellenistico, e l'altro alla guerra durante l'Impero Romano.
Gianfranco Cimino
Dato lo spazio disponibile, il periodo di tempo coperto, e la vastità dell'argomento principale (l'arte militare romana), si può facilmente perdonare all'autore l'aver dedicato poco spazio agli eserciti Greci ed Ellenistici. D'altronde i concetti chiave dell'arte militare ellenistica sono ben enunciati, a partire dall'uso della falange come "incudine" da parte di Alessandro al suo progressivo aumentare di importanza a discapito della cavalleria e delle altre componenti degli eserciti ellenistici, e quindi a discapito della manovra, fino ad arrivare a considerare la falange stessa come un "maglio" che deve sferrare il colpo decisivo; in realtà bisognerà attendere i picchieri svizzeri affinché questo maglio, in tutt'altro contesto, funzioni veramente.
L'analisi dell'evoluzione dell'arte militare ellenistica, che comprende anche le campagne di Pirro in Italia, è quindi accurata, nei limiti dello spazio concesso all'argomento, solo mi piacerebbe che l'autore si fosse soffermato maggiormente sulla riforma Ificratea, che ebbe una profonda influenza sulle riforme di Filippo II di Macedonia, e sul ruolo avuto dalla qualità delle truppe nei vari scontri tra falangiti ellenistici e legionari romani. Infatti, a mio parere, è incompleta una discussione sugli scontri tra falange e legione che non prenda in considerazione un elemento chiave, e cioè che negli scontri decisivi, come Cinoscefale, Magnesia, Pydna, truppe romane di altissima qualità, non inferiori ai professionisti di Mario e Cesare, si batterono contro gli epigoni delle fanterie di Filippo II ed Alessandro Magno, certamente non all'altezza dei loro modelli (dobbiamo qui ricordare le infelici esperienze degli eserciti Ellenistici contro i Galati).
Passando poi all'argomento principale del libro, ci viene introdotta la riforma Serviana, che prende a modello la falange oplitica, e la trasformazione di questo tipo di strumento bellico nella legione manipolare. Senza dubbio, ancora una volta a causa dello spazio, l'autore non introduce i cambiamenti nella tattica di combattimento romana causati dal contatto con le popolazioni celtiche nel IV secolo a. C. (cfr. The early roman army di P. Connolly, in Warfare in the ancient world, London, 1989), giacchè è proprio questo confronto che trasforma il soldato romano da oplita a spadaccino (preferisco qui parlare di tattiche di combattimento che di armamento individuale). Una volta cambiata la tattica di combattimento, ed adottati la spada, lo scutum ed il pilum, durante le Guerre Sannitiche si affermò la legione manipolare descritta da Polibio. Ma tale affermazione fu graduale, probabilmente ancora all'inizio della guerra contro Pirro, solamente gli hastati avevano i pila, che furono distribuiti ai princincipes solo durante questo conflitto (cfr. Dionigi di Alicarnasso, XX, II). E' da notare inoltre che l'interporre tiratori nella falange era un'idea di Alessandro, che Pirro forse riesumò a contatto con i pila dei Romani.
Esaurito il capitolo dedicato ai Sanniti ed a Pirro, il Prof. Brizzi passa ad illustrare le Guerre Puniche. Devo dire subito che l'autore colloca immediatamente nella sua giusta prospettiva Annibale (ed in generale i Barcidi): il condottiero punico è un rappresentante, forse il più grande, dopo Alessandro, del pensiero militare ellenistico. Questo punto (su cui ho molto insistito su questo NG) è fondamentale per capire l'ispirazione del pensiero militare di Annibale, e non sminuisce affatto la sua grandezza, anzi la rende ancora più grande, visto che nè la sua fanteria (tranne forse, alla fine, i suoi famosi veterani), nè tanto meno la sua cavalleria erano all'altezza di quella Macedone dei tempi d'oro.
In quest'ottica vengono quindi narrate le vicende della prima Guerra Punica relative a Santippo ed a A. Regolo, con la battaglia di Tunisi, passando poi alla rivolta dei mercenari ed alla grande vittoria di Amilcare a Bagradas su di essi, e terminando con le campagne di Annibale, degno figlio e continuatore di Amilcare, in Italia.
Il Prof. Brizzi passa poi a discutere la figura di Scipione, e le sue innovazioni tattiche, che danno flessibilità e capacità manovriera finora sconosciute alla legione manipolare, rivoluzionando l'arte romana della guerra; devo dire a questo punto che la scelta di Brizzi di dare tanto spazio all'Africano è giusta: la sua originalità lo colloca una spanna al di sopra degli altri condottieri romani.
Il pezzo forte del capitolo è la descrizione della battaglia di Zama; anche qui la scelta dell'autore è azzeccata, perché ci può mostrare all'opera due geni militari. Devo però dire che, almeno da come ce la descrive il Prof. Brizzi, a Zama, fu la stella dello sconfitto a rifulgere maggiormente, ed effettivamente questa battaglia fu il canto del cigno, ma anche il capolavoro di Annibale. La mia sensazione è che la fanteria romana era comunque un osso troppo duro per la fanteria punica (anche per i veterani di Annibale, figuriamoci per i già una volta sconfitti mercenari e Libo - Punici), e che Polibio e Livio abbiano volutamente un po' esagerato sull'equilibrio dello scontro finale tra le opposte fanterie. Ma la mia è appunto solo una sensazione e può aver ben ragione il Prof. Brizzi, quando sostiene che fu la resistenza dei legionari (e la cavalleria di Massinissa e Lelio) a vincere la battaglia.
Un altro paio di cose non mi convincono nella ricostruzione dellla battaglia di Zama; innanzi tutto sembra che Annibale rinunzi fin da principio ad opporre resistenza con le cavallerie, il cui principale scopo diventa dunque quello di trascinare lontano dall'azione principale la cavalleria romana. In realtà dalle descrizioni di Livio e di Polibio sembra che la cavalleria cartaginese sia stata prima disordinata dalla fuga degli elefanti punici, e, a ragione di ciò, solo successivamente rotta dalla cavalleria avversaria, di questo nella descrizione di Brizzi non vi è traccia, da essa sembra appunto che la cavalleria punica si sia data immediatamente alla fuga.
Analogamente nelle fonti primarie non vi è traccia del fatto che Scipione non abbia ordinato alle sue cavallerie di ritornare subito alle spalle dei Cartaginesi, nel caso esse avessero prevalso sugli avversari: non credo che Scipione fondasse le sue speranze di vittoria esclusivamente sulla manovra avvolgente (che il genio di Annibale comunque gli negò).
Infine un particolare minore: non credo che, una volta ottenuto le armature romane catturate, i Libi abbiano rinunciato alle loro lance da fanteria ed al loro schieramento a falange, analogamente il fatto che la falange di Amilcare a Bagradas sia stata armata di picche è una pura supposizione.
Ma comunque queste osservazioni non tolgono nulla alla validità del capitolo sulle Guerre Puniche.
Il capitolo successivo, il IV, copre invece il periodo di tempo che va dalle guerre con gli stati ellenistici ad Augusto, ed è molto incentrato su due avvenimenti: lo scontro tra gli ordinamenti militari romani e quelli ellenistici, finora imbattuti in guerre esterne, ed il passaggio dalla legione manipolare alla coorte, con il successivo professionalizzarsi delle legioni sotto Mario. Il primo evento è molto ben descritto da Brizzi, e non vi è molto da aggiungere, a parte l'osservazione già prima avanzata sull'importanza del valore qualitativo delle truppe, ed il fatto che non sono affatto convinto che la cavalleria occidentale (Numidi, Iberici e Galli) fosse oramai efficace quanto la cavalleria di Alessandro Magno (ma qui, evidentemente, il discorso è del tutto teorico ed inutile).
Sull'adozione della coorte in campo tattico invece l'analisi del'autore mi convince fino ad un certo punto: sono d'accordo che l'uso tattico della coorte avvenne per la prima volta sul teatro operativo Iberico, e che l'ispiratore sia stato Scipione l'Africano, e sono valide le ragioni per la sua introduzione citate da Brizzi. Quella che più mi lascia perplesso è quella che l'autore ritiene sia stata la causa prima per l'introduzione della coorte: l'opporsi alla feroce carica degli Iberici. Ciò perché non era la prima volta che l'esercito romano si scontrava con popolazioni barbariche contraddistinte dal loro furor in combattimento, ed il primo esempio che mi viene in mente sono i Galli, il contatto con i quali dette l'impulso all'abbandono della vecchia formazione oplitica già nel IV sec. a.C. Non si capisce allora per quale motivo, per affrontare altri barbari, anch'essi almeno in parte Celti, ed altrettanto impetuosi, si ritorni ad un ordinamento simile. Ma in effetti l'autore basa la sua assunzione sul fatto che nelle prime file della coorte gli uomini siano dotati di armi lunghe, ma di ciò non vi è nessuna evidenza; le truppe romane continuarono ad usare i loro pila come arma principalmente da getto (anche se secondariamente il pilum poteva essere usato come una corta lancia, non molto efficace), ed a essere principalmente degli spadaccini.
Proprio l'uso della spada richiede uno spazio maggiore di quello di cui abbisogna un falangita (Polibio asserisce che ne occorre il doppio), e quindi questa assimilazione della coorte alla falange proprio non tiene. Il Prof. Brizzi, per dare forza alla sua asserzione, si riferisce agli ausiliari del primo Impero, ma anche qui la sua argomentazione non tiene: anche gli ausiliari (cfr. The Emoire di B. Dobson, in Warfare in the ancient world, London, 1989), avevano come arma primaria la spada, pur essendo dotati di una corta lancia usata principalmente come arma da getto contro la fanteria; inoltre la loro formazione era ancora più aperta di quella legionaria.
Anche l'episodio, narrato da Polibio, relativo ad una battaglia con gli Insubri (222 a.C.), non convince pienamente, e potrebbe riferirsi all'uso dei pila delle prime file come aste, invece che all'uso delle vere e proprie lance di cui erano armati i triarii (per una maggiore analisi critica dell'episodio cfr. H. Delbruck History of the art of war within the framework of political history, Westport, Conecticut 1975).
L'asserzione dell'autore andrebbe piuttosto meglio riferita alla maggior solidità dello schieramento della legione, dato dal presentare un fronte unito e continuo al nemico, nell'ordinamento coortale rispetto a quello manipolare.
Per altro resto convinto che l'introduzione della coorte fu dovuta più a problemi di grande tattica o legati al particolare teatro operativo Iberico, che puramente tattici. In effetti, e lo stesso Prof. Brizzi lo riconosce, per effettuare le manovre avvolgenti così care a Scipione, la coorte era più adatta dei manipoli, ed inoltre si sentiva il bisogno, in Iberia, di un'unità tattica che fosse un compromesso tra la legione, potente ma troppo grande, ed il manipolo, flessibile ma troppo piccolo. Devo inoltre dire che alcuni storici militari moderni (ad es. M. Rawson) sostengono che la coorte, come unità tattica, fu introdotta solo ai tempi di Mario, ed evidenziano le imprecisioni nella terminologia militare di Livio.
Arriviamo così all'ultimo capitolo, quello dedicato all'esercito romano durante l'alto Impero. Nonostante l'esiguo spazio a disposizione l'autore delinea in maniera convincente le riforme di Augusto e la sua politica di sicurezza: in realtà però la maggior parte del capitolo è dedicata alle campagne militari contro i Parti, e vengono narrate con un minimo di dettaglio le campagne di Crasso e di Traiano.
Personalmente non sono d'accordo con la scelta del Prof. Brizzi di dare così ampio spazio alle guerre contro i Parti a scapito delle guerre coi Germani (ad esempio la sconfitta di Teutoburgo è classificata come un episodio casuale); dopo tutto anche Tacito reputava più pericolosi i Germani dei Parti ed effettivamente, mentre il regno dei parti fu più volte invaso con successo, non altrettanto può dirsi della Germania Magna. Ma la mia è solo un'opinione, avendo poco spazio la scelta di quale teatro operativo privilegiare è senz'altro problematica.
Ciò premesso la successiva descrizione delle campagne di Crasso e Traiano, e della questione Giudaica, mai completamente risolta, è esauriente e convincente, e, finalmente, mette in luce l'importanza del binomio arcieri a cavallo - catafratti nell'esercito parto, e la relativa debolezza in combattimento di questi ultimi. Tra l'altro noto con piacere che anche il Prof. Brizzi arriva alla cifra di 80.000 uomini (da me avanzata su questo NG qualche tempo fa) per la consistenza numerica dell'esercito di Traiano in Mesopotamia.
Due soli particolari non mi convincono.
Il primo è la supposta difficoltà di spiegare i problemi militari dei Romani coi Parti; personalmente reputo strana questa difficoltà di spiegazione. In effetti questi problemi militari sono i soliti che Keegan (cfr. La Grande storia della guerra) attribuisce ad un esercito Occidentale, votato allo scontro decisivo, che affronta i nomadi della steppa, prima della definitiva maturità delle armi da fuoco. Infatti la successiva analisi della battaglia di Carrhae avanzata dal Prof. Brizzi, è pienamente "Keeganiana", anche se Keegan non è citato nella biografia dell'opera.
L'altro particolare è l'importanza data ai fattori puramente tecnologici (introduzione del pilum pesante e della lorica segmentata) rispetto a quelli tattici (maggiore importanza e peso delle truppe di supporto, ed in primis della cavalleria leggera) e di qualità delle truppe (quelle imperiali erano composte da soldati di professione, la maggior parte di quali veterani - quale differenza con le reclute di Crasso), nelle successive vittorie romane (tra cui preminenti quelle di Traiano). In particolare, nelle discettazioni di pilum e lorica segmentata mi è parso di sentire l'eco delle discussioni su APFSDS e corazze composite così tristemente ( :-) ) famose su questo NG; personalmente reputo dare una così grande importanza agli aspetti tecnologici nell'età classica solo un riflesso della nostra mentalità moderna.
Ma, ancora una volta, queste due questioni marginali nulla tolgono alla validità complessiva dell'esposizione dell'autore.
La parte del libro su cui sono meno d'accordo sono le conclusioni, in cui l'autore cerca di condensare in due pagine e mezzo la successiva evoluzione di tre secoli di storia militare romana, con risultati alquanto infelici. Ad esempio l'alleggerimento della corazzatura del soldato di fanteria, se mai c'è stata, viene anticipata dalla fine del IV d.C. secolo all'inizio del III d.C., e viene riproposta la solita visione di una decadenza continua dell'esercito romano dall'inizio del III secolo d.C. fino alla caduta dell'Impero - se non alla caduta di Costantinopoli nel XV secolo !!.
Infine, last but not the least, vorrei sottolineare che, in corrispondenza di ogni capitolo, il Prof. Brizzi si sofferma su concetti, quale fides, metis ecc., propri della civiltà classica, e che influenzano anche l'arte della guerra Greca e Romana; in effetti spesso ci dimentichiamo che gli ordinamenti militari sono figli dei tempi e della cultura che li esprime, da cui non possono essere estraneati. Ed è forse questo il maggior pregio del libro, l'aver cercato di chiarire al lettore il retroterra culturale del pensiero militare nell'età classica, distaccandolo dalla nostra visione moderna, così deformante.
Insomma, Il guerriero, l'oplita, il legionario è sicuramente un'ottima introduzione alla guerra nel mondo classico in generale e romano in particolare (la risposta italiana all'Osprey?), e come tale non deve mancare a coloro che iniziano ad interessarsi del periodo; anzi, se ce ne fosse la possibilità, sarebbe bello vedere due titoli analoghi, dedicati uno alla guerra nel mondo Greco ed Ellenistico, e l'altro alla guerra durante l'Impero Romano.
Gianfranco Cimino
RIPRODUZIONE RISERVATA ©