Indice
Introduzione
La data dell'inizio del medioevo fu, per convenzione, scelta nell'agosto del 476, quando Odoacre, dopo aver deposto l'ultimo Imperatore d'Occidente Romolo Augustolo, inviò le insegne imperiali a Bisanzio, rivendicando una sua autonomia politica.
In realtà in Italia l'età buia del medioevo, con la sua disgregazione sociale, politica ed economica, sarebbe cominciata solo molti anni più tardi. Per l'Italia, le guerre Gotiche furono lo spartiacque epocale. Prima d'allora i cittadini italiani continuarono a mantenere le loro abitudini, sostanzialmente simili a quelle dei loro predecessori del basso impero, avendo le invasioni barbariche del V secolo avevano solo intaccato il tessuto sociale della penisola. L'avvento di Teodorico sul trono italico aveva dato, anzi, una nuova stabilità politica con un rinnovato interesse per la letteratura e l'architettura, numerosi i monumenti restaurati e protetti sotto la guida di questo re goto illuminato.
Fu solo il successivo ventennio di guerre spietate ed ininterrotte (dal 535 al 555) sul suolo italico a distruggere ogni ricordo di quello che fu la civiltà romana, lasciando solo rovine, miseria e morte in ogni angolo della penisola.
L'origine di questa guerra si trovava già al momento della formazione dello stato guidato da Teodorico. Fu, infatti, l'Imperatore d'Oriente Zenone ad inviare in Italia il popolo degli Ostrogoti chiamati un tempo anche Greutungi, allora foederati (alleati) dell'Impero Bizantino, per riportare quelle terre sotto il controllo imperiale. I Goti sotto la guida di Teodorico svilupparono invece un governo autonomo da quello di Bisanzio. Teodorico si nominò re dei Germani e dei Romani instaurando un governo dualista con regole e amministrazioni diverse per i Germani e per gli Italiani della penisola.
Ai romani fu preclusa la carriera delle armi, affermando così una tendenza già in atto da alcuni secoli, lasciando ad essi la professione giuridica ed amministrativa.
Questa separazione fu ancor più netta a causa della diversa religione praticata dai due gruppi; se i romani erano cattolici i germani praticavano l'eresia ariana (gli ariani pur credendo che Cristo fosse figlio di Dio ne negavano la natura divina, affermandone solo quella umana). Teodorico riuscì per decenni a far convivere in armonia queste due identità culturali distinte su cui governava traendone grandi benefici per lo stato, tanto da divenire una grande potenza sconfiggendo i Franchi di Clodoveo e i Bizantini dell'imperatore Anastasio, instaurando anche un fitto reticolo di alleanze con altri popoli germanici. Verso la fine del suo regno però le tensioni cominciarono ad emergere con i Romani, che si consideravano ancora sudditi dell'Impero. Una serie di tradimenti nell'amministrazione romana pose le premesse per una persecuzione dei cattolici e solo la morte di Teodorico fece rientrare le tensioni tra le due religioni.
Dal canto loro gli Imperatori d'Oriente non poterono intervenire perché pressati da problemi contingenti ma tutti si rifiutarono di considerare definitiva la perdita delle province Occidentali dell'Impero Romano.
L'avvento al trono imperiale di Giustiniano, dopo la morte di Teodorico, pose le premesse per l'annessione dell'Italia all'Impero. Egli non fu spinto soltanto dalla volontà di ripristinare l'onore dell'Impero, liberando i popoli soggetti alla dominazione dei barbari ma forte fu, anche per lui, la necessità di combattere un'eresia nemica dell'ortodossia. Tutte le guerre da lui intraprese ebbero, infatti, un carattere di guerra religiosa contro i nemici della fede. La rapida vittoria contro i Vandali in Africa lo spinse ad intraprendere una guerra in Italia che ai contemporanei sembrò non avere mai fine. Le guerre Gotiche possono essere divise in tre fasi principali:
I fase) 535-540 Conquista dell'Italia da parte di Belisario. Sconfitta e cattura del re Goto Vitige.
II fase) 540-552 Riconquista dell'Italia da parte del re Goto Totila.
III fase) 552-555 Sconfitta dei Goti e dei Franchi e riconquista italiana di Narsete.
L'ultima fase delle guerre è testimone di due delle più grandi battaglie dell'alto medioevo nell'Europa Occidentale. Queste battaglie non solo segnarono la temporanea vittoria bizantina e l'annientamento del popolo Ostrogoto ma furono anche cariche di conseguenze per la storia d'Italia nei secoli successivi.
Le guerre gotiche
I primi contrasti tra i Bizantini e il regno ostrogoto si ebbero già durante la guerra contro i Vandali per il possesso di Lilibeo (sull'attuale capo Boeo vicino a Marsala); questa città portuale della Sicilia fu data in dote da Teodorico a sua sorella Amalafrida che aveva sposato il re vandalo Trasamundo. Belisario tentò di occupare Lilibeo, posta in posizione strategica che, nel frattempo, era tornata sotto il controllo dei Goti, assediandola senza successo nel 534. Questo fatto creò un incidente diplomatico tra l'impero e i Goti, ripianato solo dai buoni rapporti che vi erano tra Giustiniano e Amalasunta, figlia di Teodorico, allora reggente del regno in nome del suo giovane figlio Atalarico. L'anno prima Amalasunta aveva concesso alla flotta d'invasione bizantina in Africa settentrionale di appoggiarsi ai porti siciliani per i rifornimenti.
La rapida vittoria di Belisario sui Vandali convinse Giustiniano della possibilità di recuperare una parte importante dell'impero romano d'occidente di cui si sentiva l'erede. Inoltre per la riconquista dei territori Vandali che andavano dalla Libia all'Algeria, comprendenti anche le isole di Sardegna, Corsica e le Baleari, erano necessarie basi d'appoggio in Sicilia, per permettere di raggiungere e mantenere sotto controllo territori così lontani. Per di più erano frequenti le scorrerie dei Goti nei territori confinanti dell'impero nella regione dell'Illiria, (allora l'Italia confinava con l'Impero d'Oriente nella penisola Balcanica)..
Giustiniano sapeva anche che, così come a Cartagine, anche in Italia i romani si sentivano vessati da un'occupazione che reputavano straniera, soprattutto per la differente religione tra i germani ariani e i romani ortodossi, questo spingeva ancor più l'imperatore ad un deciso intervento. Ma in principio non ebbe modo di trovare una causa scatenante per un intervento militare, anzi, Amalasunta si era messa sotto la sua protezione. Tuttavia proprio la simpatia per la corte bizantina della regina gota sarà fatale ai germani. Furono, infatti, i contrasti interni tra i nobili Goti che diedero modo a Giustiniano di scatenare l'invasione. Così come era successo per i Vandali, gli intrighi di potere per la successione al trono, permisero a Giustiniano di intervenire nelle faccende italiane.
Era successo che alla morte prematura del re Atalarico, Amalasunata favorì come nuovo sovrano il nobile goto Teodato, suo nipote. Quest'ultimo però invece che essere grato per l'onore concesso, fece arrestare Amalasunta per un vecchio torto che aveva subito e la rinchiuse in un castello sull'isola di Vulsina nel lago di Bolsena. Là venne raggiunta dalla vendetta dei parenti di alcuni capi militari Goti da lei giustiziati, che, prendendola di sorpresa, la annegarono nel suo bagno il 30 settembre del 535. Questo avvenimento diede l'opportunità a Giustiniano di dichiarare una guerra d'annientamento contro gli Ostrogoti.
L'attacco bizantino si svolse in due direttrici; a nord in Dalmazia al comando del generale Mundo e da sud, a partire dalla Sicilia, al comando di Belisario, quest'ultimo comandò l'azione principale. Sbarcato in Sicilia Belisario conquistò Catania nell'ottobre del 535 poi Siracusa due mesi dopo senza incontrare alcuna resistenza, solo a Palermo i Goti tentarono invano di resistergli. Nel maggio del 536, dopo aver occupato tutta la Sicilia, Belisario sbarcò sul continente e raggiunse rapidamente Napoli che espugnò dopo un assedio di 20 giorni, nel novembre dello stesso anno.
Nel frattempo Teodato venne messo a morte dai Goti per la sua incapacità nel condurre il suo popolo. Al suo posto fu scelto Vitige (Witige). Neppure quest'ultimo però riuscì ad impedire a Belisario d'impadronirsi di Roma (9/12/536) i cui abitanti si consegnarono ai Bizantini accogliendoli come liberatori, scacciando la guarnigione di Goti lì presenti. Gli italiani vedevano nei greci dei liberatori che venivano a restaurare l'autorità imperiale, inoltre, essendo anch'essi di religione ortodossa, andavano a distruggere l'eresia ariana dei Goti che per anni li aveva minacciati. In questo clima molte città si consegnano spontaneamente all'autorità imperiale, tra cui Spoleto, Perugia e, la più importante, Milano, il cui vescovo Dazio invocò subito l'aiuto di Belisario.
Vitige nel frattempo decise di cedere la Provenza, allora parte del regno italico, al re dei Franchi, allora alleato ai Bizantini, per garantirsi, se non un'alleanza, almeno una neutralità. Poi finalmente si decise d'intervenire attaccando Roma dove Belisario in inferiorità numerica si era asserragliato. Incominciò così un lungo assedio costellato da violente battaglie nei sobborghi delle città eterna e lungo le sue mura. L'assedio ebbe inizio verso la fine di febbraio del 537 e terminò solo il primo marzo del 538 quando i Goti di Vitige bruciarono i loro accampamenti fortificati e si spostarono verso nord per prevenire la minaccia di un esercito bizantino guidato da Giovanni nipote di Vitaliano, che insidiava direttamente Ravenna. All'esercito di Belisario si aggregò Narsete con rinforzi giunti da Bisanzio, insieme continueranno la campagna malgrado alcuni contrasti sorti tra i due generali.
Mentre le truppe imperiali erano occupate nella conquista del centro Italia, impegnati in lunghi assedi di varie piazzeforti, la città di Milano, nonostante i rinforzi Bizantini, venne espugnata dai Goti di Uraia, comandante dei Goti nella regione Ligure che comprendeva l'Italia nord occidentale. La vecchia capitale imperiale venne rasa al suolo e, se i soldati Bizantini lì presenti vennero risparmiati, tutti i cittadini maschi di ogni età furono passati per le armi, mentre le donne vennero vendute come schiave. Il mancato soccorso alla città per opera dei generali Martino e Uliaris di stanza in Emilia acuirono i contrasti tra Narsete e Belisario. Malgrado questo successo l'esercito di Uraia si portò a Ticino (Pavia) e non osò attaccare le armate bizantine che si trovavano ad assediare l'importante piazzaforte di Ausimo (Osimo nelle Marche), cardine di tutta la difesa gota delle Marche e della Romagna.
Frattanto i Franchi calarono in Italia e, sebbene sia i Goti che i Bizantini li credevano alleati giunti in loro soccorso, attaccarono prima i Goti e poi i Bizantini e li sconfissero. Solo una pestilenza scoppiata tra le truppe franche li costrinse a ripassare le Alpi con il tutto il bottino che avevano carpito. Lo sforzo maggiore dell'esercito di Belisario si incentrò, intanto, contro la città di Ausimo che, dopo un lungo assedio, cadde finalmente nel novembre del 539, senza che Vitige avesse neppure tentato di portarle soccorso. Dopo questa vittoria Belisario marciò su Ravenna, dove si trovava Vitige, e la strinse d'assedio. Le notizie delle sconfitte scossero il morale di molti Goti, in particolari quelli delle Alpi Cozie che decisero di arrendersi a Belisario. Vitige, a questo punto, cercò di usare la carta della diplomazia e offrì a Belisario la corona dell'impero d'occidente. Belisario finse di accettare ed entrò in Ravenna nel dicembre del 539 catturando Vitige e i Goti con lui.
Successivamente a questo evento anche tutte le città del Veneto, esclusa Verona, si arresero alle truppe Imperiali.
Così si concluse la prima fase delle guerre Gotiche con una vittoria per i Bizantini che, senza una vera e propria battaglia campale ma con una serie di duri assedi, riuscirono ad occupare gran parte della penisola. Solo quella che al tempo veniva chiamata Liguria, cioè tutta l'Italia nord occidentale, rimase in mano ai Goti di Uraia. Giustiniano ritenne, a questo punto, che la campagna italiana potesse dirsi conclusa. Inoltre il sospetto, insinuato da alcuni ufficiali bizantini presso la corte imperiale, che Belisario potesse impossessarsi delle recenti conquiste, insinuato da alcuni ufficiali Bizantini presso la corte imperiale, decise Giustiniano di richiamare a Bisanzio il generale vittorioso a cui gli si offrirono grandi trionfi. Insieme a lui giunsero in patria Vitige e i prigionieri Goti. Questi ultimi verranno incorporati nell'esercito bizantino e mandati a combattere sul fronte mediorientale contro i parti, servendo così l'impero insieme ai guerrieri Vandali sconfitti nella guerra precedente. Vitige, invece, fu elevato al rango di patrizio e visse in pace a Costantinopoli fino alla morte.
I Goti sapendo che Belisario era tornato in patria, offrirono la corona ad Uraia, che però suggerì di fare re Ildibado. Quest'ultimo dimostrò subito il suo valore sconfiggendo i Bizantini a Treviso riuscendo a riconquistare il Veneto. Nacque però, per futili motivi, un contrasto tra Uraia e Ildibado che costerà la vita al primo. Questa vicenda creerà del malcontento tra i Goti che non perdoneranno al re questo misfatto, così, poco dopo anche Ildibado venne assassinato, per un futile pretesto, gettando i Goti nello sconforto.
Un nuovo re venne eletto nella persona del rugio Erarico il quale cercò di concludere una pace con l'impero chiedendo, con il consenso dei Goti, l'Italia settentrionale a nord del Po, lasciando il resto ai greci. In realtà Erarico tentò di accordarsi segretamente con Giustiniano per ottenere dei vantaggi personali. I Goti venuti a conoscenza delle sue trame subito lo eliminarono e offrirono nel giugno del 541, la corona al nipote di Ildibado di nome Totila, allora a capo della guarnigione del Treviso.
Frattanto i Bizantini nel resto dell'Italia cercarono di consolidare il loro potere. Purtroppo il logoteta (funzionario imperiale) Alessandro, detto forbice, messo a capo dell'amministrazione della penisola mise in atto una serie di soprusi a danno degli italiani. Le zone da poco interessate dalla guerra non vennero esentate dalle tasse, anzi, nella riscossione dei tributi vennero chiesti anche gli arretrati che non erano stati pagati all'imperatore sotto il dominio di Teodorico. Oltre a ciò il pagamento del soldo nell'esercito era trascurato e molti reparti erano rimasti senza paga. Questo sistema di ritardare i pagamenti all'esercito era molto diffuso all'epoca di Giustiniano e fu causa di molti malumori, in particolare nella Libia appena conquistata, dove sfociarono aperte rivolte che a fatica vennero ricomposte. Ma la cosa peggiore fu che l'esercito bizantino lasciato in Italia mancava di un comando unificato, così quando l'armata decise di marciare in territorio nemico per conquistare Verona, le decisioni militari vennero prese collegialmente. Infatti, quando Artabaze (un valoroso comandante di origine persiana catturato durante la guerra partica e mandato a comandare un contingente di connazionali in Italia) si trovava già a combattere sugli spalti della città veneta, il resto dell'esercito bizantino non intervenne, proprio a seguito di contrasti tra i comandanti degli imperiali. Artabaze riuscì a salvarsi fortunosamente gettandosi dalle mura.
Totila intuendo il momento favorevole incalzò i nemici che si erano ritirati nel loro territorio e li affrontò in battaglia con solo 5000 guerrieri, sebbene i Bizantini fossero in numero ben maggiore. A Faenza finalmente i due eserciti si scontrarono. La sorte volle che prima della battaglia un goto di nome Valaris sfidasse il nemico a singolar tenzone tra i due schieramenti, Artabaze accettò la sfida ma quando uccise il goto anch'egli venne ferito gravemente. Artabaze fu costretto a lasciare il campo di battaglia gettando nello sconforto i soldati imperiali che persero così il loro miglior comandante, il comandante persiano morì solo tre giorni dopo per la ferita riportata. La battaglia iniziata con queste premesse venne definitivamente compromessa dall'apparire di 300 cavalieri Goti alle spalle dei Bizantini che misero fine alla battaglia. Per di più in questo scontro i Bizantini persero molte delle loro insegne, fatto estremamente raro per un esercito imperiale.
Dopo la battaglia Totila pose l'assedio a Firenze quando fu costretto ad affrontare di nuovo l'esercito bizantino al completo. La battaglia si svolse sulle colline del Mugello, nella Toscana settentrionale, e, anche qui il disaccordo tra i comandanti imperiali provocò un'altra grave disfatta dell'esercito bizantino. A seguito della sconfitta i comandanti Bizantini si sparpagliarono per la penisola limitandosi a presidiare le città e le fortezze italiane, tuttavia, se l'esercito fosse stato riunito sarebbe stato ancora in superiorità numerica rispetto ai Goti. I Goti a questo punto erano liberi di occupare vaste regioni dell'Italia centro meridionale. Totila, creò una potente flotta nel mar Tirreno, con l'ausilio di marinai italici.
Frattanto Giustiniano preoccupato della situazione decise di mandare dei rinforzi e di affidare il comando ad un unico generale, nominando prefetto pretorio per l'Italia un certo Massimino. Quest'ultimo sebbene avesse il comando supremo delle operazioni era alla sua prima esperienza militare e, giunto in Sicilia, non riuscì ad impedire la caduta per fame di Napoli. In questa occasione il re goto mostrò il suo carattere magnanimo rispettando la popolazione locale e i loro averi, lasciando inoltre libera la guarnigione bizantina. Finalmente Giustiniano decise di inviare in Italia Belisario, che nel frattempo era impegnato nella guerra in oriente contro i Parti. A causa di questa guerra, però, non si poté distogliere forze consistenti da inviare insieme al generale come rinforzo.
Belisario fu così costretto ad appoggiarsi alle città costiere dell'Adriatico senza potersi avventurare all'interno del territorio nemico. Per di più a causa dei mancati pagamenti all'esercito, numerosi erano i fenomeni di diserzione, spesso interi reparti passavano ai nemici. Come accadde ad un forte contingente di Illiri mandati in Emilia che, disertando, tornarono nel loro paese natale, anche a causa di una recente invasione di unni che minacciava la loro terra. Frattanto Totila dopo aver occupato Tibur (Tivoli), uccidendone tutti gli abitanti, pose assedio a Roma.
Belisario nell'intento di portare soccorso a Roma raggiunse Porto via mare lasciando Giovanni nipote di Vitaliano nell'Italia meridionale col compito di marciare su Roma e congiungersi alle forze di Belisario. Giovanni non riuscirà in questo compito e Roma, dopo un lungo assedio (durato quasi un anno) che provocherà una grande carestia tra gli abitanti, venne finalmente conquistata da Totila il 17 dicembre 546.
Totila avrebbe voluto radere al suolo la città eterna ma Belisario, tramite una famosa lettera, riuscì a far desistere Totila dal suo proposito. Quest'ultimo si limitò a deportare gli abitanti superstiti, soprattutto i senatori. Successivamente lasciò Roma portandosi con l'esercito a sud, contro Giovanni. Belisario, approfittando che i Goti non avevano uomini a sufficienza per una guarnigione, rioccupò Roma dopo poche settimane. Totila tornato ad assediare la città nel gennaio 547 venne stavolta respinto.
Belisario, a questo punto, cercò di congiungersi con le truppe di Giovanni ma quest'ultimo venne sconfitto da Totila in Lucania nello stesso anno, senza però annientare completamente le sue truppe. Poi raggiunta la Calabria assediò ed espugnò la fortezza di Rosciano (Rossano) nel 548, mentre Belisario si trovava in Sicilia impotente ad intervenire sul continente. Lo stesso anno Belisario chiese di essere richiamato a Bisanzio lasciando Totila libero d'assediare Roma dove nel 549 grazie al tradimento di alcuni Isauri riconquistò la città. Dopo questa vittoria le offerte di pace di Totila vennero, ancora una volta, respinte dall'imperatore, così, egli riprese la guerra assediando altre città, tra cui Reggio Calabria che venne conquistata dopo un assedio. Poi sbarcò in Sicilia, nel 550, costringendo i greci a rinchiudersi nelle piazzeforti dell'isola mentre i Goti saccheggiarono e devastarono l'isola, allora granaio d'Italia.
Questo pose fine alla seconda fase delle guerre Gotiche con la quasi totale riconquista dell'Italia da parte di Totila. Ai Bizantini rimasero solo quattro città, tutte costiere e sull'Adriatico; Ravenna, Ancona, la fortezza di Dryus (Otranto), la città sicula di Crotone e le isole di Sardegna e Corsica allora appartenenti all'Esarcato (governatorato) di Libia, che verranno occupate nel 551. Mentre nello stesso anno i Goti portarono la devastazione in Dalmazia, e, grazie alla flotta, a Corfù e nell'Epiro. Nel frattempo i Franchi, con la scusa di venire in aiuto a Totila, riuscirono ad occupare buona parte delle città del Veneto.
Giustiniano malgrado fosse pressato su altri fronti contro i Persiani e gli Slavi nei Balcani non era intenzionato a rinunciare all'Italia, per lui parte integrante dell'impero. Pagati dei tributi ai persiani e agli slavi, decise di concentrare tutte le sue forze contro i Goti.
La situazione in Italia
Le invasioni barbariche del V secolo avevano solo in parte compromesso il territorio e la normale vita degli italiani. Teodorico, anzi, aveva fatto restaurare molti monumenti nelle città, soprattutto a Roma. Gli acquedotti funzionavano ancora, così come i bagni pubblici. Il cambiamento del clima, con inverni freddi e secchi seguiti da primavere molto piovose e da estati torride, avevano portato ad una minor produttività delle campagne, provocando una diminuzione dei raccolti, mentre l'instabilità politica aveva portato ad una riduzione della popolazione nelle città e alla fortificazione generalizzata di quest'ultime. L'inverno dell'anno 536 fu particolarmente freddo, tanto che la primavera e l'estate risentirono di questo. La rigidezza del clima provocò in occidente violenti epidemie.
Ad ogni modo la situazione alla vigilia della guerra, sebbene non florida, non era neppure drammatica. All'inizio le maggiori difficoltà le patirono le città che ebbero a subire un assedio, in particolare Roma. Quando, poi, nel marzo del 538 i Goti di Vitige, dopo oltre un anno di assedio, si ritirarono verso Ravenna, la guerra si spostò in tutte le regioni centro settentrionali dell'Italia, portando così enormi danni all'economia del paese. Come ci dice Procopio da Cesarea, in quell'anno i contadini ebbero difficoltà a seminare il grano e l'anno successivo non vi fu raccolto a causa del perdurare della guerra. Questo provocò una grande carestia che lo scorrazzare dei vari eserciti, intenti al saccheggio delle poche risorse disponibili, rese ancora più grave.
Procopio narra come le vittime fossero almeno 50000 nella sola regione del Piceno e ancora di più nelle regioni comprese tra l'attuale Romagna e il basso Veneto. La maggior parte cadde vittima di "malattie o di consunzione" (libro VI 20). I morti erano tanti e i superstiti così deboli che i cadaveri venivano, il più delle volte, lasciati insepolti e, a detta di Procopio, i corpi erano così consunti che "neppure gli avvoltoi e gli uccelli spazzini si avvicinavano per cibarsene" (libro VI 20). A questo si aggiunse la pratica del cannibalismo che dovette diventare ricorrente soprattutto in occasioni di assedi particolarmente lunghi, come quello di Piacenza assediata da Totila nel 545 (VII 13).
Anche la condizione dell'approvvigionamento idrico nelle grandi città ebbe a peggiorare drasticamente, infatti, negli assedi per prima cosa venivano distrutti gli acquedotti, così nelle migliori delle ipotesi gli abitanti dovettero rinunciare agli abituali bagni termali, come avvenne a Roma. Tali furono i danni che anche a guerra finita i guasti non vennero più riparati, sconvolgendo per sempre le millenarie abitudini dei cittadini romani.
Allo stesso modo vennero guastati i vari canali d'irrigazione allo scopo di rendere impraticabili agli eserciti estese porzioni di territorio, impaludando e rendendo sterili vaste aree un tempo coltivabili. Le stesse strade e costruzioni vennero lasciate a se stessi, tanto che i monumenti furono spogliati e, addirittura, demoliti per la costruzione di opere di difesa o distrutti dalle fiamme nel corso della guerra. A ciò si aggiunsero le epidemie che, diffuse dai vari eserciti, si abbatterono su una popolazione già indebolita e con poche difese immunitarie. Tremenda fu la pestilenza del 542 che dilagò in tutto l'impero bizantino e su tutto il mondo allora conosciuto, facendo innumerevoli vittime. Lo stesso Giustiniano si ammalò, però riuscì a sopravvivere, al contrario della maggior parte della popolazione fra la quale dilagò il contagio. Da questo fatto l'epidemia prese il nome di giustinianea. Essa provocò un numero di morti e una situazione non dissimile da quella della famosa peste nera della metà del '300.
Negli anni successivi alla guerra le epidemie si succedettero a distanza di pochi anni una dall'altra. Terribile per l'Italia fu quella verificatasi nel biennio 554-556 portata dalle scorrerie dei guerrieri Franchi e alemanni nella penisola, questa epidemia fu soprannominata "Terribile peste" e lasciò interi paesi e città disabitate.
La cattiva amministrazione politica bizantina, durante e dopo la guerra, impoverirono ancor più i superstiti favorendo alla fine i particolarismi e l'anarchia.
Nel 565 all'arrivo dei Longobardi l'Italia era profondamente cambiata da quello che era solo 50 anni prima. I monumenti erano ricoperti dalle erbacce e la natura selvaggia aveva ripreso possesso di vaste zone, dominate poco prima dagli uomini, ricoprendo di foreste e paludi quelli che prima erano pascoli e campi. Mentre la popolazione era ormai ridotta al minimo e la vita media andava dai 19 ai 23 anni.
Gli opposti comandanti
Comandanti Bizantini
Narsete -
Narses: originario della Persarmenia (regione che comprende parte dell'Armenia tra il tratto superiore del Tigri e il fiume Arsino), nacque intorno al 480 e morì nel 574 a Roma. Era soprannominato martello dei Goti. Narsete non era il primo generale eunuco a militare nell'esercito imperiale, prima di lui Solomone aveva guidato con successo l'esercito bizantino di stanza in Africa contro i Mauri. Dopo la conquista di quel paese da parte di Belisario prima occupato dai Vandali.
Svolse inizialmente le funzioni di tesoriere ed economo di Giustiniano come Prefetto del Tesoro, è anche uno dei protetti della regina Teodora. Ebbe una parte importante nella soppressione della rivolta di Nika. Si mise in luce durante la guerra contro i parti aiutando alcuni disertori nemici suoi compatrioti ad entrare nelle file bizantine. Procopio lo raffigura come: "Uomo intelligente ed energico". (Le guerre libro VI 13), mentre Paolo Diacono lo descrive come pio e molto religioso, generoso con i poveri. Viene anche descritto basso di statura e come un uomo fragile e di costituzione delicata, spesso malato, ma con una volontà di ferro.
Combatté con Belisario nella prima campagna d'Italia a partire dal 538 dove giunse con i rinforzi. Nel corso di questa campagna nacquero però forti contrasti tra lui e Belisario sul modo di condurre la guerra, rimproverando al suo comandante di essere un temporeggiatore. Alla fine, per evitare ulteriori contrasti, fu richiamato a Costantinopoli da Giustiniano. Un altro incarico importante gli fu affidato dall'imperatrice, allorché dovette arrestare il prefetto Giovanni di Cappadocia a Bisanzio nel 541.
Quando Giustiniano, dopo la morte di Germano, ebbe bisogno di un nuovo comandante per riconquistare l'Italia, la scelta cadde su Narsete. Il generale era ormai anziano, con un età di 72 anni, ma la sua tempra doveva essere ancora intatta. I motivi per la scelta di Giustiniano, che a Procopio parvero misteriosi, vanno probabilmente ricercati sulla sua grande esperienza di comando nelle varie guerre e, forse, proprio per quella sua indipendenza di comando mostrata durante la prima fase della guerra gota, quando era al comando di Belisario. Narsete era freddo e calcolatore, non lasciava mai niente al caso. La sua prudenza gli faceva accettare lo scontro solo quando si sentiva in condizioni di netta superiorità. Preciso nella conduzione delle campagne, si premuniva sempre di una via di fuga nel caso di una sconfitta.
Come condizione, prima d'accettare il comando dell'esercito d'invasione, chiese a Giustiniano tutti i mezzi che egli stesso riteneva necessari per l'impresa. Narsete accettò di guidare la spedizione in Italia solo se avesse avuto a disposizione grandi quantità di uomini, mezzi e soprattutto denaro, cosa che Giustiniano fu ben lieto di accordargli e già nel 551 venne nominato Magister Militum.
Giovanni nipote di Vitaliano: genero di Germano. Partecipò agli ordini di Belisario alla campagna d'Italia contro Vitige dove si mise in luce tra l'altro all'assedio di Ariminio (Rimini). Nel contrasto tra Belisario e Narsete egli parteggiò per quest'ultimo. Fu sconfitto dai Franchi scesi a saccheggiare la penisola. Alla sconfitta di Vitige incorporò molti soldati Goti tra le sue file. Successivamente al rientro di Belisario in patria divise il comando dell'esercito in Italia con altri generali greci. Al ritorno di Belisario in Italia Giovanni ebbe il comando delle truppe bizantine in Calabria e nel sud Italia. Fallì nel ricongiungersi con Belisario per liberare Roma ma ottenne alcuni successi locali. Dopo aver combattuto i Gepidi a favore dei Longobardi venne fatto generale dell'Illirico dove continuò a combattere contro i Goti in Dalmazia. Nell'attesa del comandante in capo Narsete egli riuscì a liberare Ancona assediata dai Goti sconfiggendo quest'ultimi in una battaglia navale davanti l'attuale Senigallia. Congiuntosi con Narsete lo consigliò di marciare lungo la costa in direzione di Ravenna. Nella battaglia di Tagina comandò l'ala sinistra.
Valeriano: già comandante greco in Armenia, invase la Persarmenia nelle guerre contro i persiani. Comandò l'ala destra nella battaglia di Anglon nel 543. Combatté sotto Belisario nella campagna italica distinguendosi nell'assedio di Roma contro il campo Nerone. Rimasto a difendere Ravenna dall'assalto dei Goti combatte con Giovanni la battaglia navale per la liberazione di Ancona dall'assedio goto. Comandante dell'ala destra a Tagina. Successivamente scortò i Longobardi dell'esercito bizantino nella loro patria. Riuscì infine a conquistare la fortezza di Petra Pertusa.
Giovanni il Ghiottone: guardia del corpo di Belisario, già comandante di un reparto nella guerra persiana in Siria, seguì Narsete nella prima campagna italica quando quest'ultimo portò i rinforzi a Belisario. Successivamente fu a capo di una spedizione contro gli Sclaveni (Slavi). Combatté all'ala destra nella battaglia di Tagina.
Filemuth; comandante Erulo degli eserciti federati ai Bizantini, combatté in Persia poi contro i Gepidi. Seguì l'esercito di Germano e poi di Narsete nell'ultima campagna italica. Partecipò all'assedio di Roma e alla sua riconquista. Mandato a bloccare l'avanzata di Teia in Toscana fallì nel suo compito e dovette ritornare in Campania dove si unì all'esercito per la battaglia finale.
Comandanti Goti
Baduila - Totila (re dal 541 al 552) il suo vero nome era Abaduila che in goto significava piccolo uomo, datogli in senso affettuoso durante la sua infanzia. Successivamente mutò il suo nome in Thothila che in goto voleva dire il possessore poi adattato in latino in Totila con il significato di immortale o invincibile. I greci lo chiamarono Totila, mentre egli si definiva Baduila Rex. Non si conosce né il luogo né la data di nascita, sappiamo che probabilmente discendeva dalla nobile famiglia ostrogota degli Amali di cui faceva parte anche Teodorico ed era affiliato alla Sippe di Hildbad che partecipava all'assemblea dei nobili Ostrogoti. Al momento di prendere il potere nel 541 la sua età era intorno ai 25 - 30 anni. Era ancora scapolo. Presto divenne famoso come un cavaliere ardimentoso famoso per la sua abilità a cavalcare, venne chiamato anche "abramal wair" cioè guerriero senza paura.
Alcune monete coniate durante il suo regno lo raffigurano come un giovane senza barba con i capelli corti. Una moneta coniata tra il 545 e il 551, ora conservata nel Museo delle Terme di Roma nella sezione di numismatica, offre la sua immagine stilizzata più famosa, anche se per alcuni numismatici l'immagine si riferisce più probabilmente all'imperatore bizantino Anastasio I, un'altra moneta lo ritrae invece con lo Spangenhelm in testa. Queste stesse monete mancano di ogni riferimento al potere Imperiale, rappresentando un importante disegno politico volto a rimarcare la sua indipendenza dall'Impero, identificando un chiaro segno di rottura anche con i precedenti re Ostrogoti che riconoscevano comunque una certa autorità nominale ai Bizantini.
Totila giunse al trono dopo una sequenza di fatti fortunosi, ben narrati da Procopio. Dopo la cattura di Vitige da parte di Belisario, i Goti elessero un nuovo re scegliendo un nobile guerriero di nome Ildibado, nipote del re dei visigoti. Egli approfittando dell'assenza di Belisario e dello scontento tra i soldati Bizantini, che da tempo aspettavano la paga da Giustiniano, riuscì ad ottenere alcuni successi. In particolar modo riuscì a sconfiggere un esercito bizantino, composto in larga parte da Eruli, nei pressi di Treviso nel 540. Dopo la vittoria Ildibado diede il comando della guarnigione di Treviso ad un suo nipote, Totila appunto. La sua nomina in una regione che confinava direttamente con i possedimenti imperiali e luogo privilegiato per una possibile direttrice d'invasione, indica quale fiducia il re aveva di suo nipote, non è da escludere che si sia distinto in battaglia già in precedenza.
Ildibado sembrava destinato ad un grande avvenire se non fosse stato per un gepido, il quale militava nella guardia reale, che per aver subito un'ingiustizia privata da parte del suo re pensò di vendicarsi decapitando Ildibado durante un banchetto, mentre era disteso su un triclino, intento a mangiare insieme ai suoi compagni d'arme. Dopo questo fatto, approfittando della confusione che ne seguì, i Goti della stirpe dei rugi riuscirono a far eleggere re uno dei loro, un certo Erarico.
La scelta di Erarico non fu però felice per il popolo Gotico, egli, infatti, si preoccupò di cercare la pace con Giustiniano solo per ottenerne un tornaconto personale. I Goti una volta venuti a conoscenza di questi intrallazzi pensarono d'offrire la corona al nipote di Ildibado, Totila, così dopo che i Goti ebbero ucciso a tradimento Erarico, Totila divenne re degli Ostrogoti nel giugno del 541. Totila non deluse i Goti, dimostrandosi degno erede di Ildibado, anzi, più di quest'ultimo era dotato di un alto senso di giustizia e di magnanimità. In particolare nei confronti dei nemici si comportò sempre in maniera rispettosa e corretta, scevra da atti di crudeltà gratuita, così diffusi all'epoca. Procopio stesso lo descrive come un re gentiluomo. E' anche grazie a questo comportamento che molti prigionieri Bizantini, provenienti da ogni angolo dell'impero, decisero di passare nelle file del suo esercito, facilitando il suo compito. Nella sua azione politica autorizzò persino i matrimoni tra schiavi e uomini liberi.
Totila riuscì a riconquistare in pochi anni gran parte dell'Italia benché si trovasse sempre in inferiorità numerica e si muovesse in un territorio ostile, dove il nemico occupava gran parte delle città e delle piazzeforti. Molte furono le mura da lui distrutte e mai più ricostruite.
Le principali battaglie campali combattute da Totila furono sempre vittoriose, malgrado accettasse il combattimento in netta inferiorità numerica, ciò lo portò ad un'eccessiva confidenza nel valore del suo esercito e nel frattempo a disprezzare le qualità guerriere dei soldati Bizantini. Riteneva anzi che le sconfitte da lui subite fossero dovute in larga parte alle astuzie e ai sotterfugi dei Bizantini.
Nel corso della sua attività politica egli cercò più volte di mettere fine alla guerra, mandando ambascerie, in particolar modo successivamente alle due conquiste di Roma, accettando anche di fare concessioni territoriali a Giustiniano, o di pagare loro un tributo in denaro, ma mai accettò una sottomissione all'Impero. Tutti i suoi sforzi furono così vani. L'imperatore era ben deciso ad ottenere tutto il territorio italico che considerava legittimamente suo e questo anche a costo di eliminare gli Ostrogoti dalla faccia della terra, cosa che alla fine fece.
Un altro fallimento diplomatico Totila lo subì dai Franchi, quando il loro re si rifiutò di dare sua figlia in moglie a Totila, rifiutando così un'alleanza troppo stretta tra i due popoli germani. Questo causò agli Ostrogoti un pressoché totale isolamento nei confronti delle altre nazioni con loro confinanti, condannando Totila a una condizione difficilmente sostenibile nel tempo contro un avversario potente e deciso come era Giustiniano.
Teia - Teias: il nome di Teia compare solo agli inizi del 552 quando, giovane comandante goto, riuscì a fermare Narsete sulla frontiera nord orientale rendendo impraticabili vaste aree intorno al Po, bloccando così l'azione nemica in quella zona. La sua fama di guerriero, acquistata in breve tempo, lo facilitò nell'essere scelto come successore di Totila dai guerrieri Ostrogoti, che lo levarono sugli scudi dopo la sconfitta di Tagina. Il suo regno fu di breve durata, una meteora luminosa, di soli alcuni mesi, nei quali continuò la politica di Totila, cercando invano un'alleanza con i Franchi. A differenza del suo predecessore si dimostrò però meno incline alla magnanimità con episodi di crudeltà (come la strage dei trecento senatori romani ostaggi dei Goti), ma va considerato il difficile momento che i Goti stavano attraversando. Fu un buon comandante, seguito ed ammirato dai suoi, si rivelò buon stratega anche in una situazione ormai compromessa. L'inferiorità numerica e l'accerchiamento in cui si era venuto a trovare lo costrinsero a giocare il tutto per tutto. Il tradimento infine segnò la sorte dei Goti mentre egli troverà una morte gloriosa in battaglia.
Indulfo (Gundulfo): lanciere di Belisario, disertore dell'esercito bizantino, dove faceva parte della guardia del corpo di Belisario. Passato dalla parte di Totila fu inviato in Dalmazia dove riconquistò e saccheggiò il paese e catturò la flotta di Claudiano tra il 548 e il 549. A comando della flotta Gotica si scontrò con i Bizantini nella battaglia di Ancona dove, sconfitto, si salvò a stento.
Combatte ai Monti Lattari dove di nuovo si salva insieme con mille Goti al suo comando con cui riuscì a giungere a Pavia.
Le opposte armate
Bizantini
Reclutamento
Durante il regno di Giustiniano si accentuò la tendenza nel privilegiare l'arruolamento all'interno dell'impero, cercando di diminuire le infiltrazioni di barbari nell'esercito, soprattutto per quanto riguarda i quadri di comando. L'esperienza accaduta decenni prima all'Impero d'Occidente era stata ben compresa in questo caso. Come ai tempi dell'alto impero l'arruolamento era basato su volontari che entravano nell'esercito con l'aspettativa di una paga fissa. Questo sistema, però, creò grosse difficoltà all'erario pubblico, più volte nel VI secolo l'impossibilità nel far fronte ai pagamenti delle truppe fu causa di rivolte. Durante la guerra Gotica la mancata corresponsione dello stipendio, anche per due o tre anni, portò interi reparti a disertare o addirittura passare, armi e bagagli, direttamente al nemico.
Largo era l'uso di truppe mercenarie dette bucellarii. Queste truppe erano guardie personali di ufficiali e nobili inquadrate nell'esercito, esse erano la copia delle guardie del corpo dei sovrani germanici, generalmente si trattava di guerrieri a cavallo, il loro numero e la loro qualità dipendeva esclusivamente dalla ricchezza del signore per cui prestavano servizio e a cui giuravano fedeltà. Come tutte le truppe mercenarie la fedeltà dei bucellarii dipendeva in larga parte dal denaro che veniva loro elargito. Così quando Germano e poi Narsete organizzarono, con profusione di denaro pubblico, il loro esercito per l'invasione dell'Italia, numerosi furono i casi di diserzione di questi reparti che andavano ad arruolarsi sotto i due generali, lasciando al loro destino non solo i loro precedenti comandanti ma anche intere popolazioni che su di loro facevano affidamento per la difesa contro i barbari. L'assenza di queste truppe a sud del Danubio, nella Tracia, favorì l'invasione delle orde slave nel 550/551 che devastarono interi territori privi di difese valide.
All'interno dell'impero i principali serbatoi di reclutamento si trovavano nelle province balcaniche dell'Illiria, mentre la Tracia provvedeva alla cavalleria. Numerosi erano anche gli Isauri, montanari semibarbari, provenienti dalla regione omonima della Anatolia sud orientale. Questi erano considerati bravi guerrieri quanto indisciplinati ed infidi e furono protagonisti di molte azioni valorose durante le guerre Gotiche ma, anche, di numerosi episodi di tradimento. La maggior parte dell'esercito era però di origine armena e caucasica, zone allora di frontiera i cui uomini erano da sempre abituati alla guerra.
Nelle prime fasi della guerra Gotica gli Slavi (Sclaveni) trovarono largo impiego nell'esercito bizantino, venivano utilizzati come fanteria leggera su terreni accidentati e di montagna dove si muovevano come in pianura. Anche i Mauri, provenienti dal nord Africa, vennero utilizzati soprattutto nelle fasi iniziali della guerra come fanteria leggera. Slavi e Mauri non costituirono mai reparti autonomi ma venivano dispersi nelle varie unità di fanteria leggera.
Nell'armata di Germano e, poi, in quella di Narsete, molti erano i veterani reduci dalle lunghe guerre sostenute dall'impero negli anni precedenti, ma grande importanza ebbero le truppe foederate composte da guerrieri barbari. L'esercito bizantino era ormai provato da lunghi anni di guerra su più fronti, così Giustiniano dovette ricorrere in modo massiccio a queste truppe alleate, le quali mantenevano un certo grado di autonomia all'interno dell'esercito bizantino.
L'armata che si scontrò con Totila nel 552 aveva al suo interno un preponderante numero di queste truppe barbare, come non se ne era mai visto prima in Italia.
I popoli che fornirono queste truppe di foederati furono prima di tutti gli Eruli e poi i Longobardi guidati da re Audoino, padre di Alboino, questi guerrieri germanici ebbero grande importanza nella battaglia di Tagina. Un terzo gruppo di foederati, pagati da Narsete per combattere in Italia, furono gli unni, impiegati sia come truppe a cavallo che come fanteria. Molti erano anche i disertori persiani inquadrati nell'esercito di Narsete, tra questi soldati vi era Cabade, nipote del re persiano anch'egli di nome Cabade, e rifugiato politico nel territorio bizantino. Dopo la vittoria di Tagina i Longobardi vennero congedati e al loro posto si arruolarono nell'esercito bizantino soldati di origine italiana provenienti dai territori liberati. La prospettiva di uno stipendio, unita a quella di una vittoria sicura, convinse inoltre i numerosi disertori Bizantini che militavano tra le schiere gote a passare di nuovo nell'esercito di Narsete, abbandonando definitivamente i germani di Teia.
Dimensioni
L'esercito che si apprestava ad invadere l'Italia nella primavera del 552 era il più numeroso mai messo in campo da Giustiniano. In un periodo di calo demografico e dopo anni di guerre, l'esercito radunato da Narsete viene stimato tra le 30 e 35000 unità, la metà era però composta da truppe foederate, provenienti dalle popolazioni barbariche stanziate ai confini dell'impero. I Longobardi guidati dal loro re Auduino schieravano 2500 ottimi guerrieri completamente equipaggiati, più un seguito di altri 3000 soldati. Gli Eruli al comando di Filemuth erano più di 3000, tutti montati a cavallo, altri soldati Eruli appiedati erano guidati da Aruth. Seguiva un contingente di unni, probabilmente intorno ai 5000 uomini. Tra i germani si trovavano 400 valorosi guerrieri gepidi guidati dal un giovane capo militare di questo popolo di nome Asbado.
L'esercito regolare a Tagina contava 8000 fanti leggeri che costituivano l'ossatura delle armate bizantine in quel periodo, ed erano tutti arcieri. Si può supporre che altrettanti fossero i fanti che si schierarono a falange in questa battaglia. La cavalleria nella stessa occasione era di 1500 uomini. Nello scontro successivo dei monti Lattari la dimensione dell'esercito non doveva essere di molto inferiore. I 5500 Longobardi, già provati dallo scontro con Totila, vennero in parte rimpiazzati da soldati italici e disertori Bizantini dell'esercito goto, rinforzi vennero mandati anche dall'armata stanziata in Sicilia.
Organizzazione
Dai tempi di Costantino l'esercito romano (così si facevano ancora chiamare i Bizantini ai tempi di Giustiniano) non aveva ancora subito sostanziali modifiche. Nel VI secolo le forze armate bizantine eredi di quelle romane dell'alto impero erano ancora divise tra limitanei, cioè guardie di frontiera a presidio dei confini, e comitatensi, le armate mobili guidate da comandanti supremi, senza una precisa base territoriale. All'interno dei comitatensi vi erano i reparti dei bucellarii che rappresentavano il cuore dell'esercito.
I limitanei erano suddivisi in numerii composti da 200 a 400 uomini sotto il comando di un tribunus.
L'esercito sul campo era strutturato a partire dai dekarchia che rappresentavano i plotoni ( circa 40 uomini), poi vi erano i pentarchia e i tetrarchi, che corrispondevano rispettivamente alle compagnie ( circa 200 uomini) e ai reggimenti ( circa 1000 uomini). L'esercito era diventato molto mobile a partire dalla riorganizzazione di Costantino I. La struttura era così concepita per essere più flessibile e manovrabile rispetto a quella di epoca imperiale.
Le truppe alleate erano divise in Foederati se inquadrati nell'esercito Imperiale o come Symmacho o Socii se guidati da un loro re, come avvenne per i Longobardi.
La cavalleria era cresciuta d'importanza così come gli arcieri a cavallo, grande importanza ebbero gli hippo-toxotai, unità d'arcieri a cavallo d'elite, così come in generale gli arcieri. Quest'ultima arma, mai sfruttata a pieno dai romani nelle epoche precedenti, venne dai Bizantini rivalutata divenendo di primaria importanza nelle armate di Giustiniano, tanto che saranno proprio gli arcieri una delle cause della sconfitta di Totila a Tagina.
La suddivisione della cavalleria era tra leggera e pesante, le truppe foederate provvedevano alla cavalleria leggera, mentre quella pesante era costituita dai catafratti pesantemente armati.
In Procopio la cavalleria pesante viene suddivisa in lancieri e scudieri, entrambi i tipi erano parte però dei bucellarii al soldo di qualche ufficiale di rango.
L'ossatura della fanteria era costituita dalla fanteria leggera, composta essenzialmente d'arcieri, mentre il fante pesantemente armato prendeva il nome di scutatus, dal grande scudo, che si schierava in falange.
La struttura di comando, che dai tempi di Costantino era suddivisa tra il comandante della fanteria (magister peditem) e comandante della cavalleria (magister equitum), all'inizio del V secolo era riunita nel magister militum. Il comando dell'esercito sul campo era generalmente affidato al comes, mentre il comando delle truppe di frontiera era affidato al dux.
Armamento
Molti soldati erano dotati di armi di difesa personale, spesso erano armature lamellari o ad anelli metallici, ma anche la più complessa corazza a squame. Lo scutatus, fante con armatura pesante, era armato di spada lunga, lancia e ascia, oltre al grande scudo circolare od ovale su cui erano disegnati i colori del reparto d'appartenenza, così come è indicato nel manoscritto "Notitia Dignitatum" del quarto/quinto secolo. Sembra però che l'emblema più diffuso all'epoca fosse il monogramma cristiano.
L'elmo era di tipo Spangenhelm, cioè un elmo segmentato, costruito unendo diverse piastre tra loro, più economico e facile da produrre rispetto agli elmi romani tardo imperiali costruiti in un unico pezzo. Lo Spangenhelm sarà l'elmo più diffuso in quell'epoca e verrà utilizzato ancora per molti secoli.
Come ci riferisce Procopio gli arcieri, che fungevano da fanteria leggera, avevano la faretra sulla destra e la spada sulla sinistra, tutti indossavano armatura e schinieri, normalmente non indossavano l'elmo ma combattevano a capo scoperto o indossavano un berretto di stile frigio. L'arco utilizzato era di tipo composito, formato da una striscia di tendine incollata al nucleo di legno, uniti alle estremità da due pezzi di corno, il tutto avvolto a spirale da strisce di pelle. La gittata utile di questa potente arma arrivava fino a 350 metri, spesso Narsete affidò le sorti delle sue battaglie a questa arma di cui aveva grande fiducia.
I catafratti erano pesantemente armati tanto che anche i loro cavalli generalmente disponevano di armature. Gli Eruli, sia che combattessero come cavalleria che come fanteria, erano privi d'elmo e d'armatura, i guerrieri si difendevano solo con uno scudo e un ampio mantello, i servi degli Eruli combattevano addirittura privi di ogni tipo di scudo, come narra Procopio, solo dando prova del loro valore avrebbero ottenuto il diritto di possedere uno scudo per difendersi in battaglia. Anche Paolo Diacono conferma il loro disprezzo per ogni forma di difesa.
I segnali venivano dati attraverso il vessillo che i Bizantini chiamavano bandum. Molto utilizzati erano anche gli strumenti a fiato: la cavalleria utilizzava la bucina o litus, tromba ricurva di metallo, che dava il segnale per la carica e il cambio della guardia, la tuba appartenente alla fanteria era una tromba lunga e dritta, che dava il segnale di partenza per la battaglia e quello di ritirata.
Tattiche
Con la fine dell'impero romano il diminuire dell'addestramento delle truppe rese necessario una sempre maggior abilità dei generali nel guidare gli eserciti in battaglia. Durante il regno di Giustiniano abbondarono ottimi comandanti che riuscirono ad ottenere molte vittorie insperate. Le tattiche variavano, adattandole a seconda degli avversari. La linea di battaglia era divenuta molto più flessibile, mentre la difesa era articolata più in profondità.
La cavalleria, grazie alla sua mobilità, era divenuta l'arma dominante, così come era cresciuta l'importanza degli arcieri a cavallo. Questo era dovuto anche all'influenza dei vicini Sassanidi, maestri nell'utilizzo di queste armi.
Durante il regno di Giustiniano venne scritto un trattato di nome tactika in cui veniva descritta la conduzione dell'esercito in campagna. Nel testo fu indicato come utilizzare gli arcieri in battaglia e come scoccare le frecce con un certo angolo in modo da colpire il nemico dall'alto evitando gli scudi. Mentre nel coevo strategikon si consigliava di combattere i barbari dai "capelli biondi" usando una tattica di logoramento, in modo da intaccarne il morale, evitando di arrivare subito ad una battaglia campale, cosa che invece Narsete cercò subito dall'inizio della campagna.
Narsete si dimostrò comunque molto attento a seguire le esperienze del passato, di sicuro la sua cultura sugli avvenimenti bellici del passato lo aiutò nello sviluppare la sua azione. Fu poi molto abile nello sfruttamento del terreno in cui i Bizantini erano maestri già da molto tempo.
La battaglia di Tagina fu dominata dalla manovra tattica di Narsete, diversamente da quella dei Monti Lattari dove lo spazio non permetteva alcuna manovra e si risolse in uno scontro frontale.
Ostrogoti
Reclutamento
Come in tutti i popoli germanici ogni uomo libero era automaticamente anche un guerriero, così anche in quello degli Ostrogoti. A differenza dei soldati Bizantini essi combattevano non solo per arricchirsi ma, anche per ottenere nuove terre e un maggior prestigio all'interno della loro società.
Da quando Teodorico era sceso in Italia, divenendo re dei germani e dei romani, la separazione tra gli autoctoni e i nuovi venuti era netta e ben definita; ai Goti dominatori e agli altri germani, sarebbe rimasto l'uso esclusivo delle armi, mentre agli italici sarebbe spettata l'amministrazione e il lavoro nei campi, con l'assoluto divieto di portare armi. Solo la supervisione delle fabbriche d'armi furono sottratte agli alti burocrati romani e attribuite a dignitari goti
I Goti, sin dall'occupazione dell'Italia, si distribuirono lungo la penisola occupando vasti latifondi. Ogni gruppo parentale formava una Sippe (o clan), i cui forti legami facevano capo ad un unità territoriale detta Gau (in goto Gawi). Questa marcata identità di stirpe faceva sì che si mantenesse una rigida separazione tra i Goti e le popolazioni latine locali, questo rafforzato ancor di più dalla diversa religione praticata, che consentì ai germani di mantenersi compatti e autonomi nel corso dei decenni in Italia. Persino tra i Goti si ritrova questa forte consapevolezza di stirpe, che rasentava l'eugenetica, con i Rugi, una popolazione germanica affine ai Goti, che evitavano di mischiarsi perfino con i Goti stessi.
L'ostinata preservazione della stirpe, se da un lato aumentava lo spirito di corpo tra i soldati, riduceva il numero di guerrieri che un armata poteva schierare in campo. Soprattutto dopo la sconfitta di Vitige il numero degli eserciti goti si ridusse molto. Per ovviare ad una riduzione eccessiva degli effettivi, già al tempo di Teodorico si ricorreva a mercenari di origine germanica provenienti fin dalla lontana Scandinavia, terra d'origine di tutti i Goti. Ai sovrani Ostrogoti il denaro non mancava certo, avendo conquistato la più ricca provincia dell'Impero. Molti soldati dell'esercito goto vennero arruolati da Vitige tra gli Suebi (Svevi) che vivevano in Istria, così come vi erano Burgundi rimasti con i Goti dopo le loro discese in Italia a fianco dei Franchi a scopo di saccheggio.
Durante la guerra, però, non furono sufficienti neppure questi soldati. Totila per rinfoltire i ranghi fu costretto ad inglobare nel suo esercito i disertori e i prigionieri Bizantini. Spesso per motivi economici, data la mancata corresponsione del salario addirittura per anni d'arretrati, molti erano i soldati imperiali che passavano sotto le insegne nemiche. I numerosi soldati Bizantini passati armi e bagagli nelle file gote ricevevano un trattamento alla pari dei soldati goti, con gli stessi doveri e privilegi, militavano in reparti ben distinti e inquadrati da ufficiali goti. In genere si trattava di truppe di fanteria.
Sempre durante il regno di Totila vennero arruolati i contadini dell'Italia meridionale e anche schiavi dei latifondi che vennero da lui liberati ma sfruttati militarmente. Questi soldati erano comunque mal armati e senza nessuna esperienza bellica, così il loro valore militare era molto basso, il loro utilizzo venne generalmente limitato alla difesa di valichi montani e come truppe ausiliari.
Dimensioni
All'inizio del regno di Totila nel 541, l'armata gota contava solo 5000 guerrieri. Nel corso della riconquista del regno il numero degli effettivi andò aumentando, grazie anche all'apporto dei disertori e prigionieri Bizantini, anche con essi l'esercito non raggiunse comunque la forza numerica che aveva sotto il regno di Vitige. Malgrado ciò Totila riuscì ad organizzare una potente flotta di 400 navi da guerra, comprese le navi da corsa dette Dromones, più altre navi da trasporto, per la maggior parte conquistate al nemico.
Sia a Tagina che ai monti Lattari Procopio non ci informa sull'entità numerica dell'esercito goto, possiamo comunque valutare, in entrambi i casi, le forze gote come la metà di quelle bizantine. A Tagina il sopraggiungere di 2000 cavalieri Goti deve aver avuto una grande importanza per Totila, tanto da ritardare la battaglia fino al loro arrivo, il numero totale poteva aggirarsi tra i 10 - 15000 soldati. Lo stesso silenzio di Procopio, circa le forze nemiche, è eloquente nel non voler sminuire le vittorie di Narsete.
Organizzazione
La struttura dell'esercito ostrogoto rispecchiava la struttura sociale germanica. I guerrieri giuravano fedeltà al proprio capo creando un legame di dipendenza detto Gefolgschaft, in questo modo ogni comandante aveva un suo seguito detto Comitatus, la stessa struttura che verrà poi copiata dai Bizantini. Il comitatus era il cuore degli eserciti germanici dell'epoca, le forze e le dimensioni di questa compagine dipendevano dalla ricchezza e dalla fama del comandante che attirava nel suo seguito personale i guerrieri migliori e meglio equipaggiati. I re goti possedevano il comitatus migliore e più numeroso.
L'unità di base dell'esercito rimaneva però il clan, unito da forti legami famigliari. Questi reggimenti nati erano suddivisi in centenari, cioè composti da cento uomini al cui comando era posto un guerriero detto centenario. Le unità gote in campo erano infatti multipli di questa unità base valida sia per la fanteria che per la cavalleria. A proposito di quest'ultima arma, gli Ostrogoti possedevano le migliori unità di cavalleria tra tutti i popoli germanici dell'epoca, questo era un retaggio della loro permanenza nelle steppe a contatto con popoli nomadi, alcuni secoli prima.
Armamento
Come l'armamento bizantino anche quello goto era molto vario, esso era un compendio tra quello assimilato dai popoli delle steppe e, soprattutto, l'armamento di origine bizantina. Le armature erano sempre quelle in uso durante quel periodo così come gli elmi il cui tipo più diffuso era quello segmentato detto Spangenhelm con o senza protezione nasale, in particolare la variante che sembrava la più diffusa tra i Goti dell'epoca, chiamato Italo-germanico, la cui forma caratteristica era quella di una protezione nasale appena accennata. Procopio descrive i Goti come: "Armati con armature di varia foggia. La maggioranza dei guerrieri erano coperti di corazze così come lo erano anche i cavalli" (Le guerre V 16). Questo indica la chiara influenza dei catafratti Bizantini tra i cavalieri goti le cui armature pesanti erano utilizzate anche dalle loro cavalcature.
Le principali armi d'offesa erano quelle classiche: la lancia, la lunga spada e una corta lama ad un taglio detta sax. Per la cavalleria era basilare l'uso della lancia, probabilmente tenuta in resta nelle cariche, grazie anche all'uso delle staffe. A differenza dei Bizantini l'arco e le frecce erano largamente trascurate. I germani, come i romani di epoca imperiale e repubblicana e prima di loro i greci, disprezzavano gli arcieri, cosa che li portava a trascurare questo tipo d'arma assai importante. Spesso erano solo i più poveri a servire come arcieri, poiché non potevano procurarsi armi più costose. Arco e frecce erano comunque utilizzati nelle operazioni d'assedio. Esemplare è il racconto di Procopio relativo l'assedio di Roma, da parte dei Goti di Vitige, in cui due ufficiali di cavalleria di Belisario vennero gravemente feriti al volto da una freccia per cui uno dei due perì, dopo alcuni giorni, a causa della ferita riportata.
Le segnalazioni venivano effettuate tramite corni e con l'utilizzo di stendardi a forma di drago detto Draco. Ogni comandante era seguito da un portinsegna, così come ci racconta Procopio, quando scrive di come Totila sia seguito in battaglia da un portinsegna a cavallo con il suo vessillo.
Tattica
Il lungo periodo di coesistenza con la civiltà romana aveva portato gli Ostrogoti ad un'assimilazione di molti usi militari Bizantini. Le tecniche di assedio erano le più sviluppate tra i germani dell'epoca: numerosi furono infatti gli assedi durante la lunga guerra. Difficilmente i Goti cadevano in imboscate e il loro morale si dimostrò saldo nella guerra d'attrito consigliata dal manuale militare bizantino strategikon. Malgrado ciò l'obiettivo principale dei re goti, in particolare di Totila, era quello di arrivare rapidamente ad uno scontro decisivo che risolvesse in modo definitiva il conflitto e, questo, anche in condizioni svantaggiose.
Come per tutti i germani, anche per gli Ostrogoti, la fanteria rappresentava ancora l'arma principale. Essi entravano in battaglia con la classica formazione a cuneo detta cuneus o testa di cinghiale, struttura compatta, guidata al centro dal suo comandante con il proprio comitatus. Spesso i guerrieri germani cavalcavano fino al campo di battaglia per poi smontare da cavallo per formare dei ranghi di fanteria nei quali preferivano combattere. Quest'ultima situazione si verificò ai monti Lattari dove sia i Goti che i Bizantini allontanarono le proprie cavalcature per scontrarsi come fanterie, in questa decisione influì anche l'asperità del terreno.
Il lungo periodo passato dagli Ostrogoti a contatto coi popoli nomadi e con la civiltà romana li aveva comunque portati a dare una certa importanza alla cavalleria, unici tra i germani dell'epoca. Essi utilizzavano la cavalleria non solo per esplorazioni ma anche per raid. In battaglia veniva utilizzata per attaccare il nemico alle spalle come a Faventia nel 541 o come elemento di rottura, seguendo così la tattica bizantina, come avvenne nella battaglia di Tagina.
Malgrado ciò i Goti preferivano ancora combattere appiedati come lo dimostrano le battaglie del Mugello e dei monti Lattari, questo però dipendeva più dalla natura dei luoghi piuttosto che da una volontà tattica a dimostrazione dell'adattabilità dei Goti alle varie situazioni del terreno.
La formazione di fanteria a cuneo era formata da ranghi serrati tra loro in modo da schiacciare le forze nemiche, agendo con il massimo della forza su un punto ristretto del fronte per aprire una breccia nella compagine nemica. Più la formazione era compatta e più il cuneo era efficace. Per ottenere una compagine così serrata occorreva però ridurre le armi da lancio, in particolare gli arcieri, il cui impiego necessitava di spazio. Fu proprio per sfruttare al massimo la vecchia tattica del cuneo che Totila a Tagina impedì ai suoi uomini l'uso di qualunque arma da lancio. La stessa cosa accadde nella decisiva battaglia di Tricamaro (El Djedeida) in Tunisia nel 533 quando i Vandali per ordine di Gelimero, non utilizzarono armi da lancio, con conseguenze ben peggiori di quanto accadde poi a Totila.
La campagna di Narsete (552-553)
L'armata dell'Illirico e la condizione italiana
Giustiniano non poteva sopportare la perdita dell'Italia, per lui era una provincia troppo importante, centrale nella sua azione politica. Cercò quindi di concludere una pace di cinque anni con gli atavici nemici persiani, guidati da re Cosroe. Successivamente mandò una squadra navale, al comando dell'anziano Liberio, in soccorso della Sicilia invasa da Totila. A questa prima flotta Giustiniano ne fece seguire un'altra alcuni mesi dopo, molto più potente della prima, guidata da Artabane, che avrebbe dovuto assumere il comando delle operazioni sull'isola, ma essendo la stagione avanzata, si era ormai nell'inverno del 550, la flotta guidata da Artabane incappò in una violenta tempesta che disperse tutte le sue navi, egli stesso si salvò a fatica e nessuna delle navi della sua flotta raggiunse la Sicilia. Totila decise comunque di lasciare la Sicilia, dopo averla spogliata di ogni ricchezza e viveri, il re goto giudicava ormai inutile la presenza del suo esercito sull'isola, tanto più che una forte armata imperiale si stava radunando ai confini nord orientali dell'Italia, lasciò quindi un presidio di quattro fortezze e si spostò sul continente.
L'armata nemica, che Totila temeva, era stata approntata da Giustiniano qualche mese prima. L'imperatore aveva deciso di riconquistare l'Italia passando via terra attraverso la Dalmazia e l'Istria, con un forte esercito.
Il comando delle forze bizantine venne affidato a Germano, nobile e valoroso generale romano, nipote di Giustiniano. Precedentemente aveva respinto un invasione di Slavi nell'Illiria, ma la sua notorietà gli venne per la repressione della ribellione in nord Africa nella provincia della Libia che gli assicurò grande fama. Posto a capo della spedizione in Italia nel 550 Germano riuscì a radunare un grosso esercito nella regione dei Balcani per via della sua fama ma, soprattutto, grazie al denaro datogli da Giustiniano per la spedizione. Per facilitare la sua impresa Germano sposò in seconde nozze Matasunta, rimasta di recente vedova del re goto Vitige. Nondimeno la spedizione in Italia fu ritardata da una serie di contrattempi. Gli Slavi attraversarono il fiume Ister, oggi Danubio, proprio in quel momento, minacciando direttamente la Tessaglia e la Tracia, Germano, nominato dallo zio Giustiniano generale di tutta la Tracia, dovette rintuzzare questa invasione. Quando poi, l'esercito si mise in marcia per il suo obiettivo, Germano morì di malattia, durante l'estate del 550, mentre si accingeva a calare in Italia.
Il comando dell'esercito venne preso dal genero di Germano, Giovanni nipote di Vitaliano, egli condusse l'esercito in Dalmazia ma non aveva sufficiente autorità per guidare la guerra in Italia, così attese la fine dell'inverno 550/551 a Salona, l'attuale Solin in Dalmazia, aspettando l'assegnazione di un nuovo comandante in capo da parte dell'imperatore. Sennonché gli Slavi passarono per la seconda volta il Danubio e si riversarono nei Balcani facendo terra bruciata. Giustiniano dovette dar fondo a tutte le sue risorse per rintuzzare questa invasione. Egli affidò il comando supremo all'eunuco di palazzo Scolastico che affrontò i barbari in un violento scontro ad Adrianopoli, dove i Bizantini ebbero la peggio. Solo tempo dopo i Bizantini ottennero la rivincita attaccando gli Slavi carichi di bottino, costringendoli a ripassare il Danubio tornando nelle loro terre. Questa invasione ebbe come conseguenza di ritardare la spedizione in Italia di un altro anno, tanto che Procopio avanza il sospetto che lo stesso Totila abbia pagato gli Slavi per devastare il territorio imperiale ed impedire l'invasione, ormai prossima, del suo regno.
Nel frattempo Totila, impegnato nel ripopolamento di Roma e nella ricostruzione delle mura cittadine, mandò un esercito nel Piceno (nelle attuali Marche) al comando dei Goti Scipuar, Gibal e Indulfo allo scopo di cacciare gli ultimi presidi Bizantini presenti sul suolo italico. In quella zona infatti le truppe imperiali continuavano a mantenere il possesso della potente piazzaforte di Ancona, posta sul mare Adriatico. I Goti subito cinsero d'assedio la città sia per terra che per mare. La flotta gota in quei mari era ora particolarmente temibile, grazie anche alle scorrerie fatte nelle isole Ionie e sulla costa greca antistante. Durante una di queste operazioni anfibie i Goti riuscirono ad impossessarsi di un'intera flotta, insieme con tutto l'equipaggio, che era diretta in Dalmazia con i rifornimenti per l'esercito bizantino là presente.
La perdita di Ancona sarebbe stato un duro colpo per i Bizantini, tale da mettere a rischio la stessa capitale Ravenna. L'allora comandante delle truppe imperiali, Valeriano, chiuso a Ravenna, era ben conscio di questo pericolo e ben sapeva che le paludi intorno alla città non l'avrebbero salvato una volta che Ancona fosse caduta in mano nemica. Subito spedì delle richieste di soccorso a Giovanni in Dalmazia, ma, quest'ultimo, aveva ordini da Giustiniano di non muoversi.
Vista la gravità della situazione, Giovanni, decise di intervenire ugualmente ma non via terra con tutto l'esercito bensì con una squadra navale, impiegando così solo un numero modesto del suo esercito. Scelti gli uomini migliori approntò una flotta di 38 navi da guerra a cui si unirono altre 12 navi appartenenti a Vitaliano. Una volta congiunte le forze fecero vela verso Ancona allo scopo di spezzare l'assedio ed evitare che la città cadesse per fame.
La flotta bizantina giunse a Senogallia (Senigallia) a nord di Ancona, qui ormeggiarono le navi per i rifornimenti.
I Goti saputo ciò decisero subito di dare battaglia. Lasciarono una parte dell'esercito a continuare l'assedio al comando di Sciupar, mentre Gibal e Indulfo con i guerrieri migliori approntarono 47 navi da guerra e corsero incontro al nemico verso Senogallia.
Quando le due flotte furono in vista una dell'altra i comandanti fecero serrare le navi in ordine chiuso e dopo che i capi dei due schieramenti ebbero finito il rituale discorso d'incitamento le due flotte vennero allo scontro prua contro prua.
Procopio ci dice che fu una battaglia molto combattuta, con gli arcieri che ingaggiavano duelli a distanza e quando due navi nemiche riuscivano ad affiancarsi il combattimento diventava corpo a corpo come in una battaglia terrestre. Alla fine però la maggior perizia nella navigazione favorì i Bizantini. Loro riuscirono infatti ad isolare le navi gote e ad attaccarle separatamente, mentre i Goti si trovavano spesso con le loro navi ammassate una sull'altra senza possibilità di manovra offrendo un buon bersaglio per gli arcieri nemici, gli stessi arcieri Goti erano costretti a lanciare le loro frecce a casaccio, ostacolati com'erano dai loro compagni nel vedere il nemico, anche i soldati armati di lancia e spada, a contatto col nemico, si trovarono in difficoltà a colpire l'avversario a causa dell'eccessivo ammassamento, impacciandosi nei movimenti gli uni con gli altri, alimentando la confusione che già gli scomposti movimenti delle navi avevano creato.
Alla fine i Goti pressati dalle navi nemiche decisero di averne avuto abbastanza, solo 11 navi riuscirono però a sfuggire alla morsa nemica. La maggior parte dei Goti morì nella battaglia o affondarono insieme alle loro navi. Gibal venne catturato mentre Indulfo riuscì a sfuggire con le navi superstiti. Una volta sbarcati i Goti incendiarono le loro navi perché non cadessero in mano nemica, poi tolsero l'assedio ad Ancona ritirandosi nella città di Ausimo (Osimo). I Bizantini rifornirono la città di Ancona poi Valeriano tornò a Ravenna mentre Giovanni fece vela per Salona dove lo attendeva il nuovo comandante mandato da Giustiniano. A questo punto Totila decise di conquistare le isole della Corsica e della Sardegna. Questa azione, strategicamente inutile, servì solo a risollevare il morale alle sue truppe sconfitte ad Ancona, non avendo conseguenze pratiche nel corso della guerra.
Armata una flotta i Goti sbarcano prima in Corsica e poi in Sardegna senza incontrare resistenza, assoggettando le popolazioni locali al pagamento dei tributi. Queste due isole non erano mai appartenute ai Goti ma erano state in possesso dei Vandali prima di passare ai Bizantini della provincia della Libia. Questa provincia usciva da poco da una dura guerra civile, malgrado ciò il governatore della Libia, Giovanni, residente a Cartagine, non si rassegnò alla perdita delle due isole e organizzò velocemente una flotta per la riconquista. La flotta imperiale fece rotta verso il capoluogo delle due isole, che allora era Carnalis, l'attuale Cagliari. Le forze bizantine sbarcarono nella piana davanti la città sarda, accampandosi con il proposito di assediare i Goti per mare e per terra. L'assedio non durò a lungo perché i Goti, sebbene in inferiorità numerica, tentarono da subito una sortita contro l'accampamento nemico. Presi di sorpresa i Bizantini non riuscirono ad opporre una valida resistenza, l'accampamento e alcune navi vennero date alle fiamme e i superstiti tornarono a Cartagine.
Questo successo goto fu bilanciato, qualche mese dopo, dal fallimento dell'assedio di Crotone, quando un esercito bizantino di stanza in Grecia, alle Termopili, giunse in soccorso via mare alla città calabrese durante l'inverno del 552 spezzandone così l'assedio.
La spedizione di Narsete
Finalmente, durante l'inverno 551/552 l'esercito, che attendeva il nuovo comandante in Dalmazia, fu raggiunto dal generale Narsete che l'imperatore aveva posto a capo della spedizione. Giustiniano non voleva commettere lo stesso errore fatto con Belisario qualche tempo prima e facendo ricorso a tutte le sue risorse diede a Narsete una gran quantità di denaro per l'esercito. Ormai l'imperatore era disposto a tutto pur di strappare la provincia italiana ai barbari e questa era la sua ultima occasione. Narsete grazie all'appoggio imperiale poté dimostrare una grande generosità verso i suoi soldati e verso i barbari alleati tanto da raccogliere un gran numero di soldati a lui fedeli, creando così l'esercito meglio armato e potente che mai prima Bisanzio aveva mandato in Italia.
Narsete, d'accordo con Giustiniano, intraprese l'invasione da nord. La flotta era troppo debole per intraprendere un'operazione navale sulle coste dell'Adriatico, solo l'esercito longobardo poté essere traghettato, così si dovette procedere via terra costeggiando le coste del mar Adriatico. A questo proposito pare che Narsete abbia detto:"lo stivale va calzato dall'alto".
Gli storici contemporanei non ci hanno lasciato alcuna data certa sullo svolgersi degli eventi, sappiamo però che la notizia della morte di Totila arrivò a Costantinopoli nell'Agosto del 552, da questo si può dedurre che lo scontro di Tagina si sia avuto nella seconda parte di luglio. Partendo da questo dato si può ritenere che l'offensiva ebbe così inizio nella primavera del 552.
L'esercito bizantino passò Aquileia giungendo ai confini orientali del Veneto. L'intenzione di Narsete era quella di portare la guerra direttamente nel territorio nemico, puntando su Verona per poi minacciare Pavia, la città più importante dei Goti. Forte del numero, da subito sperava in uno scontro campale con Totila per chiudere la guerra una volta per tutte. Ma, per mettere in atto questi propositi, il generale bizantino avrebbe dovuto giungere ad un accordo con i Franchi che occupavano le principali città fortificate della regione. In precedenza già Giustiniano aveva cercato un accordo diplomatico con il re dei Franchi Teodibaldo, per giungere ad un alleanza contro i Goti e per il loro ritiro dall'Italia, ma non si raggiunse ad un accordo in tal senso, se non solo formali promesse d'amicizia. Anche Narsete inviò un messaggero ai capi dei presidi militari Franchi con la richiesta del libero transito alle truppe imperiali. I Franchi che avevano stretto rapporti d'amicizia con i Goti rifiutarono il passaggio a Narsete ma, volendo mantenere buoni rapporti anche con Giustiniano, addussero come pretesto per il loro comportamento, che tra le file dell'esercito imperiale militavano i Longobardi, antichi nemici del popolo franco. Un altro motivo, molto più serio, consigliava a Narsete prudenza nelle sue decisioni. Nel Veneto infatti si trovava un esercito goto guidato da Teia che, su ordine di Totila, stava prendendo decise contromisure per impedire il passaggio dell'esercito nemico.
Teia, partendo dal suo quartier generale a Verona, riuscì abilmente ad allagare vaste aree, creando acquitrini e pantani bloccando così numerose strade, allestì, inoltre, numerose imboscate molto pericolose per le avanguardie bizantine. Queste ragioni sconsigliarono a Narsete nell'intraprendere la sua offensiva nella pianura Padana.
L'indecisione nel consiglio di guerra sul da farsi venne interrotta dal suggerimento di Giovanni nipote di Vitaliano di proseguire la sua avanzata verso sud, sempre seguendo la costa. Le perplessità sul tragitto proposto erano causate dalla difficoltà nel superare le foci dei numerosi fiumi che si gettano in Adriatico e dalle lagune intervallate da fitte pinete, questi dubbi vennero superati sempre da Giovanni che consigliò l'uso della flotta per permettere all'esercito di superare in forze i fiumi. Venne così deciso di raggiungere Ravenna e di unirsi alle forze di Valeriano, utilizzando oltre le navi della flotta anche imbarcazioni requisite sul posto.
La marcia sulla capitale imperiale si svolse come previsto, senza incidenti, con una marcia di circa 70 - 80 giorni. Arrivarono a destinazione tra la fine di giugno e i primi di luglio. Una volta giunti a Ravenna, Narsete unì le sue forze a quelle di Valeriano rappresentato dai contingenti superstiti di tutta la regione del nord Italia. Dopo soli nove giorni dal loro arrivo in città, mentre l'esercito si riposava dopo la lunga marcia, Valeriano ricevette una lettera di sfida da parte del comandante goto Usdrila, capo della guarnigione di Arimino (Rimini). Il comandante goto nella sua missiva, oltre che a disprezzare i suoi nemici a causa della loro eterogeneità, invitava le forze imperiali ad uno scontro immediato.
Usdrila, per quanto fosse un valoroso guerriero, non poteva certo pensare di sconfiggere una tale massa di nemici con i pochi uomini di cui disponeva nei dintorni di Arimino. E' plausibile supporre che la sua intenzione era quella di bloccare temporaneamente l'avanzata di Narsete verso sud, costringendolo ad impegnarsi in un assedio. Questo mentre il grosso dell'esercito goto guidato da Totila, il quale ormai ben sapeva la posizione del nemico, non fosse giunto in soccorso di Usdrila da poter, così, insieme ingaggiare una battaglia campale decisiva.
Ad ogni modo Narsete non perse tempo, raccolse tutto l'esercito e si diresse verso sud, seguendo sempre la costa.
Giunto in prossimità della città nemica trovarono il ponte sul fiume Ariminus, l'attuale Marecchia, distrutto dai Goti. I Bizantini furono così bloccati sulla sponda settentrionale di questo fiume che, alla sua foce, difficilmente poteva essere guadato. Mentre Narsete stava pensando sul da farsi in riva al fiume, dalla vicina città uscirono Usdrila e alcuni Goti a cavallo per controllare da vicino le mosse dell'avversario, presto il gruppo goto fu sottoposto al tiro di numerosi arcieri che scacciarono i cavalieri Goti, uccidendo anche il cavallo di Usdrila.
A questo punto Narsete decise di creare una testa di ponte sul fiume tramite l'uso di alcune barche, portandosi lui stesso sull'altra riva del fiume. Vedendo ciò Usdrila uscì di nuovo da Arimino insieme ad altri guerrieri, con il proposito di uccidere il generale nemico cogliendolo di sorpresa. Ma fu egli stesso a finire in un agguato tesogli da alcuni Eruli che già avevano passato il fiume. Nello scontro Usdrila venne decapitato e la sua testa portata in trofeo nell'accampamento bizantino sollevando il morale dei soldati.
Dopo la perdita del loro comandante i Goti si serrarono nelle mura cittadine senza tentare più alcuna sortita, permettendo ai nemici di costruire un ponte di barche senza essere molestati. Narsete non si lasciò però tentare nell'assedio della città. Arimino era ben fortificata e già Belisario anni prima l'aveva assediata a lungo. Narsete passò oltre questa città fortificata dirigendosi con l'esercito a sud verso Fano dove la via Flaminia lascia la costa in direzione dell'Appennino. Le intenzioni di Narsete erano sempre quelle di uno scontro risolutivo o in alternativa la riconquista di Roma.
La battaglia di Tagina
L'avanzata di Narsete
La marcia di Narsete sulla via Flaminia fu di breve durata. A circa una trentina di chilometri da Fano si trova il passo del Furlo, allora presidiato dall'imprendibile città fortificata di Petra Pertusa. Le sue qualità di fortezza erano agevolate dalla sua posizione naturale, situata fra monti scoscesi con a valle un fiume impetuoso, qui la strada romana percorre il suo punto più difficile e pittoresco, incassata com'è nel monte sopra un burrone. Una galleria costruita da Vespasiano (76 d.c.) era il passaggio obbligato per la via Flaminia che dal Piceno porta in Umbria. Questo accesso, detto anche Intercisa, era dominato dalla città da sud. Nella guerra Gotica i romani conquistarono Petra Pertusa la prima volta utilizzando il pendio scosceso che domina la città lanciando su di esso dei massi che finivano all'interno dell'abitato, questo fu sufficiente a convincere i Goti alla resa. Successivamente la fortezza venne espugnata da Totila nel 543.
La guarnigione gota di Petra Pertusa non era molto numerosa, malgrado ciò Narsete non volle perdere tempo nell'assediarla, egli era già al corrente che Totila era in marcia verso di lui. Un assedio in questo momento avrebbe significato il rischio di poter venire preso alle spalle dall'esercito goto, con le forze bizantine sparpagliate per bloccare la fortezza. Così i Goti asserragliati a Petra Pertusa videro il grande esercito bizantino sfilare in lontananza dalle loro postazioni difensive.
Il percorso preso da Narsete e i suoi in questo punto è stato molto dibattuto dagli storici. Procopio ci dice solo che egli lasciò la Flaminia dirigendosi verso sinistra, cioè a sud. La strada scelta dai Bizantini doveva essere la più agevole e il più possibile adatta ai carri con i rifornimenti. Una certa importanza dovette avere la presenza di centri abitati per procurarsi provviste alimentari e, cosa di non secondaria importanza, la strada doveva essere libera dai Goti nei centri abitati. Narsete nella scelta del percorso dovette fare anche attenzione a non rimanere bloccato su qualche valico appenninico dai Goti che gli stavano venendo incontro, il suo esercito necessitava di un ampio spazio per schierarsi in battaglia e doveva evitare di finire imbottigliato in qualche imboscata tra i monti. Una strada secondaria e poco battuta poteva essere l'ideale per non farsi cogliere di sorpresa dal nemico.
Si può supporre che i Bizantini abbiano preso la strada per Pergola e da lì raggiungessero Sassoferrato, l'antica Sentinum, o in alternativa utilizzassero la valle del Misa che da Senigallia va a Sassoferrato, forse solo nella parte superiore del percorso, in ogni caso questa era una strada abbastanza ampia per l'armata di Narsete, anche se con pochi centri abitati, tutti però liberi dalla presenza del nemico. Questo percorso aveva anche il vantaggio di mantenere alle proprie spalle la città di Ancona, in modo che l'armata potesse avere le spalle coperte soprattutto in caso di una ritirata.
Molte ipotesi si sono fatte anche sul punto finale della marcia di Narsete, dove egli predispose l'accampamento e dove poi si svolse la battaglia. Procopio ci dice chiaramente che l'esercito imperiale si accampò in una località pianeggiante, circondata da colline, detta Busta Gallorum. Particolare ancora più importante lo storico di Cesarea indica che quel nome deriva dalle particolari sepolture di guerrieri Galli caduti in battaglia contro i romani, i Celti infatti utilizzavano fosse in circolo per l'incinerazione, circondate da pietre e coperte alla fine della cremazione da tavole e pietre, dette Ustrinae. Forse ai tempi della battaglia con i Goti alcune di questi tumuli erano ancora visibili.
Sebbene Procopio si confonda, riferendosi ad una battaglia avvenuta nei pressi di Roma nel 390, sempre contro i Galli, nei pressi di Sentinum, l'attuale Sassoferrato, si svolse un importante battaglia nel 295 a.c. tra una coalizione di Galli, Etruschi e Sanniti contro i Romani che vinsero lo scontro. Il luogo poi si trova a circa 100 stadi da Gualdo Tadino, l'antica Tagina dove Totila aveva posto il suo accampamento, così come affermato da Procopio.
Questi elementi gli storici indicano con una certa sicurezza il luogo dove i Bizantini posero il loro castrum e dove si svolse la successiva battaglia contro i Goti, individuando Busta Galloruma nei pressi di Sentinum, il luogo dove i Galli furono sconfitti e arsi nelle pire alla fine della battaglia contro i Romani di Quinto Fabio Rulliano e Decio Mure.
Narsete, marciando tra i verdi monti dell'Appennino Umbro-Marchigiano, si trovò a passare in un territorio largamente devastato dai precedenti anni di guerra. La maggior parte del Piceno e Umbria era infatti andato distrutto per le rappresaglie di Belisario contro i loro abitanti che, precedentemente, si erano uniti ai Goti di Vitige a causa dello sfruttamento imposto loro dai Bizantini.
Una volta che Narsete pose il campo a Busta Gallorum, sulla strada tra Sentinum e il valico di Fossato, venne a sapere che Totila e il suo esercito si trovava accampato a 100 stadi a sud, circa 18 km, nei pressi di Tagina. Forse con l'intento di prendere tempo o di sondare le intenzioni e le forze avversarie il generale bizantino mandò al re goto alcuni ambasciatori con il compito di trattare una tregua.
La manovra di Totila
Totila, da quando l'esercito di Narsete si era affacciato nel Veneto, aveva mantenuto un atteggiamento prudente, rimanendo fermo nella città di Roma nell'attesa dello svilupparsi degli eventi. Prima di muoversi e sguarnire la capitale voleva essere sicuro delle intenzioni degli avversari, cercando di comprenderne i reali obbiettivi. Forse voleva anche essere sicuro che dalle forze bizantine di stanza in Sicilia non gli potesse venire alcuna minaccia, in particolare diretta contro Roma. Quando a giugno Totila venne a sapere che l'armata nemica aveva raggiunto Ravenna, decise che era il momento d'intervenire. Egli chiamò a raccolta tutte le sue forze, comprese quelle di Teia che si trovavano in Veneto, accordandosi probabilmente con Usdrila per bloccare il nemico nei dintorni di Rimini. Forse i piani di Totila prevedevano di unirsi alle truppe di Usdrila lungo la costiera Adriatica e lì, insieme, attaccare il nemico, magari sfruttando a proprio vantaggio i numerosi fiumi della zona.
Una volta radunato l'esercito da tutte le parti d'Italia i Goti lasciarono Roma percorrendo la via Flaminia verso la costiera adriatica. Lungo la strada Totila venne a conoscenza della sconfitta e la morte di Usdrila. Malgrado ciò continuò la sua avanzata con l'intento di venire ad una battaglia decisiva contro i nemici. Totila doveva ormai conoscere la forte disparità tra le sue forze e quelle bizantine, sebbene questo non lo impensieriva più di tanto. Egli disprezzava il nemico che chiamava in modo sprezzante greci, ritenendo le loro forze disomogenee e raccogliticce. Era reduce, poi, da decenni di successi e vittorie, mai era stato sconfitto personalmente dal nemico in una battaglia campale, poteva così guardare con fiducia al futuro.
L'esercito germanico poco numeroso e leggero rispetto a quello bizantino impiegò circa 20 giorni ad arrivare fino a Tagina, l'attuale Gualdo Tadino. La cittadina, che era già stata saccheggiata dai Goti nel 546, divenne il punto dove essi posero il loro campo. Lì Totila accolse gli ambasciatori di Narsete che venivano a chiedergli di cominciare trattative di pace o, se preferiva combattere, di fissare la data dello scontro.
Totila ancora fiducioso delle sue forze rifiutò qualunque trattativa e fissò la data della battaglia ad otto giorni dal quel momento, cosa che gli ambasciatori riferirono poi a Narsete. In realtà Totila voleva sfruttare quell'insperata occasione fornitagli dal suo rivale per cercare di prendere di sorpresa il nemico che, non aspettandosi l'arrivo dei Goti prima della data fissata, poteva essere colto disorganizzato per una battaglia campale e così sconfitto. I Goti si misero così in marcia il giorno seguente verso Sentinum, l'attuale Sassoferrato, percorrendo agevolmente in un giorno di marcia i 25 km che lo separavano da Narsete, percorrendo probabilmente la strada tra Scheggia e Sentinum attraverso il valico di Fossato, fermandosi, alla fine, a 500 - 700 metri dall'accampamento nemico sull'altopiano di Sassoferrato. Sfortunatamente per Totila, Narsete aveva ben previsto questa eventualità ed aveva impedito ai suoi uomini di disperdersi o di allontanarsi dall'accampamento in cerca di cibo e foraggio per gli animali. Questo vanificò le speranze dei Goti in una sorpresa costringendoli ad una battaglia frontale.
L'ultima battaglia di Totila
Come molte altre battaglie della storia anche quella di Tagina non prese il nome dal luogo reale dove si svolse. Essa ebbe luogo nei pressi dell'accampamento di Narsete presso Busta Gallorum, sull'altopiano di Sassoferrato, con a nord ovest il monte Cucco, e a 15 km da Tagina. Non sappiamo come fu il clima in quella giornata di metà luglio del 552. Alcuni storici propendono per una giornata uggiosa tipica di quelle regioni montane dell'Appennino centrale, a ciò tra l'altro si dovrebbe il mancato uso degli archi da parte dei Goti, poiché risentivano dell'umidità più di quelli Bizantini, ma ciò non spiegherebbe il mancato utilizzo di tutte le armi da getto compresi i giavellotti.
I due condottieri avversari quel giorno erano ben consapevoli di combattere una battaglia decisiva che avrebbe potuto mettere termine a decenni di conflitto. Una sconfitta di Narsete avrebbe significato il tramonto definitivo di ogni pretesa imperiale sul suolo italico.
L'altopiano dove si svolse la battaglia quel giorno di metà luglio era circondato da monti e colline a formare un anfiteatro naturale. In particolare una piccola collina dominava i due schieramenti assumendo una grande importanza strategica, da cui gli arcieri avrebbero potuto dominare il campo di battaglia, probabilmente si trattava dell'attuale monte Coccore a quota 636 metri. Qui un piccolo sentiero attraversava il colle da nord a sud e come scrive Procopio: "sarebbe stato possibile accerchiare1'accampamento dei Romani (Bizantini) o prenderlo alle spalle proprio scendendo per un unico sentiero, che veniva appunto giù da quel colle. Di conseguenza il colle era considerato da entrambi di grande importanza dai Goti, perché di là avrebbero potuto durante il combattimento accerchiare i nemici e prenderli così tra due fronti; dai Romani, appunto per non dover subire questa sorpresa" (Le guerre VIII 29). Narsete conscio dell'importanza strategica della postazione la fece occupare durante la notte da 50 soldati di fanteria, probabilmente dei bucellarii, vista l'importanza dell'operazione. Quando all'alba i Goti si accorsero che la collina era occupata dal nemico, subito Totila ordinò un attacco con la cavalleria pesante per conquistarla.
Nelle prime ore di quel giorno fatidico si susseguirono le cariche della cavalleria gota che si inerpicava sullo stretto sentiero, su un terreno non particolarmente adatto alla cavalleria, per poi attaccare la falange nemica ben serrata dietro i loro scudi. Una dopo l'altra le cariche dei Goti vennero respinte. I cavalli venivano spaventati dal rumore degli scudi mentre caracollavano su un terreno accidentato, andando ad infrangersi contro il muro di scudi tenuti da quei pochi fanti. Nel frattempo i catafratti Goti venivano bersagliati da alcuni arcieri che si riparavano dietro la falange. Nell'azione, ci racconta Procopio, due soldati si distinsero maggiormente, Paolo e Ansila, che, dopo aver finito le frecce nella loro faretra, uscirono dalle loro linee e affrontarono i cavalieri, prima con la spada e poi, a mani nude, afferrando le lance dei nemici gettandoli a terra.
Totila dopo aver lanciato tre cariche consecutive di cavalleria senza successo decise di desistere e abbandonare ogni ulteriore tentativo per occupare quella collina che pur rappresenterà una spina nel fianco durante la sanguinosa giornata che stava cominciando. E' sorprendente come il re germanico abbia utilizzato la cavalleria su un terreno non appropriato senza tentare nessun assalto con la fanteria, più indicata in quella azione su un terreno così difficile. Probabilmente, in quella situazione, la fiducia del re in quell'arma era sopravvalutata.
Dopo questa prima schermaglia i due eserciti si schierano a metà della mattinata. Narsete pose al centro del suo esercito le truppe foederate dei Longobardi e degli Eruli, facendoli smontare tutti da cavallo per ottenere una falange di fanteria. Il comandante bizantino non si doveva fidare del tutto di queste truppe mercenarie, inserendole nella posizione più controllabile dello schieramento, come già Attila aveva fatto nella battaglia dei campi Catalauni, ponendo al centro del suo schieramento le truppe alane di cui si fidava meno, in modo da controllarle meglio.
Narsete divise, poi, il suo esercito tra l'ala sinistra e quella destra, collocando 4000 arcieri su ogni ala. Sull'ala sinistra vennero posizionati i 1500 cavalieri Bizantini, di cui 500 avrebbero avuto il compito di intervenire come rinforzo qualora il nemico avesse sfondato il centro dello schieramento, mentre gli altri 1000 dovevano cercare di accerchiare le forze nemiche. Narsete e Giovanni nipote di Vitaliano insieme ai loro soldati e agli unni presero posto alla sinistra dello schieramento, vicino alla collina interessata nello scontro della mattina e che rappresentava un punto fermo nel loro schieramento, ponendo su quel lato i soldati migliori e più numerosi. All'ala destra vi erano invece Valeriano, Giovanni il Ghiottone e Dagisteo con i loro seguiti. I Goti di Totila, meno numerosi, si schierarono in modo più compatto con la fanteria al centro e la cavalleria ai lati.
Dopo che le due schiere ebbero preso posizione i rispettivi comandanti tennero il tradizionale discorso alle truppe.
Narsete evidenziò le difficoltà del nemico e il loro carattere di ribelli alla legalità. Totila invece mise in rilievo il carattere decisivo della ormai prossima battaglia, mettendo inoltre in risalto il disprezzo per il nemico chiamato in modo spregiativo greci e l'eterogeneità dell'esercito nemico, nonché la totale inaffidabilità delle truppe barbare alleate ai Bizantini, truppe su cui si sarebbe sviluppata l'offensiva Gotica.
Dopo i proclami i due eserciti rimasero inattivi uno di fronte all'altro. Totila aspettava ancora 2000 cavalieri, rimasti indietro nella marcia. Narsete invece forte della sua posizione, che non voleva mettere a repentaglio, aspettava l'iniziativa nemica.
A questo punto accadde un fatto che spesso precedeva le battaglie a quel tempo. Dalle file gote si staccò un cavaliere di nome Cocca, uno dei tanti disertori dell'esercito bizantino passati al nemico, sfidando a singolar tenzone un guerriero nemico. La sfida venne raccolta da un cavaliere di origine armena di nome Anzala. Questi i fatti raccontati da Procopio:" Cocca fece la prima mossa e tentò di colpire l' avversario con la lancia, prendendolo di mira al ventre. Ma Anzala, girando rapidamente il cavallo, gli fece andare a vuoto il colpo. Intanto con quella manovra venne trovarsi di lato al nemico e gli piantò la lancia nel fianco sinistro. Quegli crollò di cavallo e giacque a terra morto" (Le guerra VIII 31).
Per impedire altri duelli Totila si mise in mezzo ai due schieramenti dando sfoggio della sua abilità equestre mediante una danza armata detta "cavalcata della lancia" (dscherid), retaggio dell'epoca in cui i Goti vivevano nelle steppe a fianco di popoli nomadi. In quell'occasione il re fece sfoggio della sua armatura da parata fatta di piastre d'oro ricca di fregi e con la lancia e l'elmo agghindati da fiocchi di porpora. Questo spettacolo si protrasse fino a tarda mattinata quando mandò degli ambasciatori a Narsete con la richiesta di rimandare la battaglia. Richiesta sdegnosamente rifiutata dal generale bizantino.
Verso mezzogiorno Totila fu avvertito dell'arrivo dei tanto attesi 2000 cavalieri. A questo punto egli ordinò al suo esercito di abbandonare lo schieramento per tornare all'accampamento per prendere il pranzo, cosi come fece lo stesso Totila ritirandosi nella sua tenda. Al contrario Narsete, non fidandosi delle intenzioni del nemico, impedì ai suoi uomini di lasciare lo schieramento per il pasto ma ordinò che i soldati mangiassero qualcosa fermi sulle loro posizioni.
Totila in quel momento sembrava non preoccuparsi molto di una possibile offensiva nemica. Probabilmente vedendo il nemico schierato sulla difensiva, con le truppe alleate germaniche appiedate poste al centro e la cavalleria dietro l'ala sinistra, pensò che non era pronto per un attacco ma aspettava semplicemente la sua iniziativa. Forse se Totila si fosse ritirato per scegliere un'occasione e un terreno a lui più favorevole le cose sarebbero andate diversamente. Ma il re goto disprezzava il nemico ed era convinto che un'azione di forza al centro dello schieramento imperiale, tenuto da mercenari poco motivati alla causa di Giustiniano, sarebbe stato sufficiente a mettere in rotta l'avversario. Sperava inoltre di prendere di sorpresa l'esercito bizantino al momento del pasto ma, ancora una volta, Narsete riuscì a prevenire le sue mosse.
Frattanto Narsete volle approfittare del momento di tregua per portare alcuni piccoli cambiamenti al suo schieramento iniziale. Il generale di Bisanzio aveva infatti potuto intuire, dallo schieramento goto della mattina, dove sarebbe stato diretto l'attacco principale e vedendo lo schieramento goto molto compatto volle accentuare ancor di più il carattere avvolgente del suo schieramento. Narsete fece arretrare leggermente il suo centro mentre portò avanti le sue due ali in modo da ottenere uno disposizione delle sue forze a forma di mezza luna rivolta al nemico. Non fidandosi del tutto delle sue truppe alleate poste al centro, Narsete era intenzionato a portare lo sforzo maggiore della sua azione sui fianchi del nemico, se quest'ultimo avesse sfondato il centro si sarebbe infilato in una sacca che non gli avrebbe dato scampo, in una manovra nello stile della battaglia di Canne, del tempo delle Guerre Puniche, di cui Narsete ne aveva ben studiato la dinamica alla scuola di guerra.
Nel primo pomeriggio anche i Goti avevano formato un nuovo schieramento, ancora più compatto, con la cavalleria al centro posta davanti la fanteria. A questo punto venne dato l'ordine ai soldati di non utilizzare le armi da lancio. Cosa che lasciò sconcertati gli storici contemporanei, probabilmente questo serviva a rendere più compatta la falange che doveva sfondare le linee nemiche. Totila, dopo aver indossato la regolare armatura da battaglia, simile a quella dei suoi soldati, lanciò i suoi cavalieri all'attacco del centro nemico.
I cavalieri caricarono a cuneo con i Goti al centro e le altre truppe delle diverse stirpi ai lati. La loro carica venne però subito smorzata dalle numerose frecce che saettavano sui loro fianchi, uccidendo uomini e cavalli. Arrivati già decimati al contatto con la fanteria nemica i cavalieri furono facilmente respinti dalla falange degli Eruli e dei Longobardi, così come era accaduto nelle prime ore del mattino, in scala minore, sul colle vicino. La cavalleria gota dovette presto battere in ritirata finendo sulle proprie fanterie avanzanti, aumentando lo scompiglio e la confusione. Poi fu la volta delle due fanterie ma, a discapito di quelle che erano le speranze di Totila, Longobardi ed Eruli, anch'essi disposti a falange serrata, tennero le loro posizioni. Questo probabilmente fu una fortuna per i Goti che altrimenti sarebbero finiti circondati in una sacca senza più vie d'uscita, da cui nessuno sarebbe uscito vivo.
A differenza dei Longobardi e degli Eruli i Goti dovettero però subire un violento tiro da armi da getto sui loro fianchi, centinaia di frecce si schiantavano ogni secondo sugli elmi e sugli scudi dei Goti minandone la capacità combattiva. Una delle vittime di questa pioggia di frecce fu lo stesso Totila che, dopo aver preso posizione all'interno della falange come un qualsiasi soldato, venne casualmente colpito da un dardo, ferendolo gravemente. In realtà Procopio riferisce anche un'altra versione secondo cui Totila sarebbe stato ferito mortalmente da un cavaliere gepido che, con alcuni inseguitori, rincorreva l'eroe goto mentre fuggiva dopo la battaglia insieme a soli cinque uomini tra soldati e servi. Secondo questa versione è però difficile immaginare che, durante la ritirata a sud lungo la Flaminia, il re germanico si sia allontanato dagli altri cavalieri che avevano partecipato allo scontro, come ad esempio Teia, per ritrovarsi solo su una strada che non conosceva.
Probabilmente il diffondersi tra le truppe della notizia del ferimento di Totila e il suo successivo allontanamento dal campo di battaglia fu uno dei motivi che convinse i Goti a fuggire e abbandonare la lotta. I 1000 cavalieri di Narsete non erano ancora riusciti a chiudere la strada verso sud ai Goti, questo anche a causa di un terreno sabbioso e melmoso e dalla ristrettezza della valle, sfavorevole alla cavalleria, ciò permise a molti Goti, soprattutto a cavallo, come Teia e il suo seguito di fuggire, lasciando la maggior parte della fanteria nelle mani del nemico, i cui soldati ormai esausti si lasciavano massacrare senza avere più la forza per difendersi. Ai cavalieri Bizantini non rimase altro che darsi all'inseguimento dei superstiti e di Totila che ancora consideravano in fuga.
Nel frattempo Totila e il suo seguito, al calar della sera, si trovarono lontani dalla via principale, forse per nascondersi al nemico o per aver smarrito la strada. Giunti in una località detta Capras (forse Caprara), ad 84 stadi dal campo di battaglia, Totila, sentendosi male, volle fermarsi per farsi medicare la ferita ma, poco dopo, morì. I suoi compagni prima di continuare la fuga lo seppellirono. Qui i Bizantini vennero informati della tomba di Totila da una donna gota che aveva assistito alla scena, disseppellito il cadavere, il re venne riconosciuto e quindi di nuovo sepolto. Ancor oggi presso quella località la tradizione popolare afferma riposi il valoroso re goto. La decisiva battaglia non era durata più di qualche ora. Secondo il solito Procopio i caduti Goti furono ben 6.000, mentre moltissimi furono i prigionieri (forse addirittura altrettanti). Sui caduti imperiali non vi è alcuna menzione, probabilmente furono molto pochi vista la dinamica dello scontro e comunque limitati alle truppe alleate del centro che dovettero subire la maggior pressione nemica.
Nei giorni immediatamente dopo la battaglia Narsete diede ordine ai suoi di uccidere tutti i prigionieri. Questo comportamento contrasta con gli usi del tempo che prevedevano l'arruolamento immediato dei prigionieri sotto le proprie insegne, soprattutto nell'esercito bizantino che, impegnato su più fronti, aveva sempre bisogno di reclute. Presumibilmente la maggior parte di quei prigionieri erano disertori dell'esercito imperiale e, con la loro esecuzione, si voleva lanciare un duro monito ai disertori che ancora militavano tra i Goti, cosa che in effetti avvenne portando la maggior parte dei romani a rientrare nei ranghi dei loro compatrioti.
La battaglia dei Monti Lattari
Narsete conquista il centro Italia
L'importante vittoria riportata sui Goti lasciava intravedere a Narsete un esito felice della campagna, un elevato numero di nemici erano stati messi fuori combattimento e soprattutto il loro re Totila era stato eliminato. Di questo re goto Gregorovius disse: "Se la grandezza dell'eroe dovesse essere misurata sulla quantità degli ostacoli che egli ha superato o sull'avversità del destino contro cui ha lottato, Teodorico sarebbe meno immortale di Totila."
Narsete per prima cosa volle sbarazzarsi dei suoi alleati Longobardi le cui continue violenze contro tutti coloro che gli capitavano a tiro erano una minaccia, sia all'interno dell'esercito imperiale che al conseguimento di una parvenza di pace nelle località occupate. Dopo averli ricompensati con ricchi doni li fece scortare da un forte contingente di armati al comando di Valeriano verso le loro sedi in Pannonia, facendo ben attenzione a che non devastassero come locuste le regioni da loro attraversate. Valeriano riuscì con successo nell'operazione, tentando in seguito di assediare Verona, ancora in mano ai Goti, ma qui i Franchi lo costrinsero a ritirarsi.
Frattanto Narsete poteva agevolmente occupare le più importanti città della Toscana e dell'Umbria, come Spoleto e Perugia, punendo sempre i disertori su cui riusciva a mettere le mani. Infine si diresse finalmente verso Roma.
Per la quinta volta dall'inizio della guerra la città eterna fu sottoposta ad assedio. Le sue mura erano state riparate dai danni subiti negli scontri precedenti, ma la guarnigione gota non era abbastanza numerosa da presidiare tutta la cerchia muraria della città. I soldati Goti si radunarono nei punti delle mura dove si concentrò l'assalto dei Bizantini. Narsete aveva lanciato l'attacco su tre direttrici, uno al suo comando, un altro guidato da Giovanni nipote di Vitaliano ed un terzo condotto dagli Eruli al comando di Filemuth, tutti supportati da un forte nerbo d'arcieri.
I Goti inizialmente riuscirono a respingere gli assalti sulle mura, finché Narsete ordinò a Dagisteo con alcuni soldati di scalare un altro settore delle mura. Il settore scelto da Dagisteo si rivelò sguarnito, così i Bizantini riuscirono ad entrare in città conquistandola per l'ultima volta. I Goti cercarono di fuggire. Una parte raggiunse la vicina città di Porto, altri si asserragliarono nel Mausoleo d'Adriano (Castel Sant'Angelo) dove alla fine furono costretti ad arrendersi. In quell'occasione Roma fu ancora una volta soggetta a terribili saccheggi compiuti dalle truppe vittoriose. Peggio ancora, un gruppo di senatori e patrizi romani con le loro famiglie esuli in Campania quando seppe dell'assedio decise di fare rientro nelle loro abitazioni, ma una volta rientrati nella loro città vennero colti dai soldati Goti che non erano ancora fuggiti e sterminati fino all'ultimo uomo. Successivamente i Bizantini conquistarono Porto e Nepi in toscana, poi fu la volta della fortezza di Petra Pertusa. Nel sud invece occuparono l'importante città di Taranto.
Narsete da Roma mandò dei contingenti ad assediare le città di Centocelle e Cuma. Quest'ultima città era particolarmente importante non solo dal punto di vista strategico ma soprattutto economico, visto che difendeva il tesoro reale dei Goti. Saputo poi che al nord i Goti si erano riorganizzati sotto un nuovo re e che minacciavano di portare soccorso a Cuma, Narsete inviò Giovanni nipote di Vitaliano e Filemuth in Toscana con il compito di presidiare i passi appenninici e impedire all'esercito goto di raggiungere la Campania. Quando Narsete venne a conoscenza che l'esercito nemico aveva eluso la sorveglianza dei suoi due generali, passando per il golfo Ionico (così i Bizantini chiamavano il mar Adriatico), decise di radunare tutto il suo esercito e di scendere in Campania per affrontare i Goti in una decisiva battaglia campale.
La spedizione di Teia in soccorso a Cuma
Dopo la sconfitta di Tagina i Goti a Pavia (allora chiamata Ticino) decisero di darsi un nuovo re nella persona del giovane e valoroso Teia, che aveva dimostrato una certa abilità nella guerra. I Goti sapevano che contro di loro si era scatenata una guerra d'annientamento e non potevano accettare una pace incondizionata che gli avrebbe spazzati via, la loro unica possibilità era quella di continuare a combattere. Teia per risollevare le sorti della sua nazione cercò un alleanza con i Franchi di re Teodibaldo, promettendogli una gran quantità dell'oro che si trovava nei forzieri reali di Pavia. I Franchi però non accettarono, preferendo stare a guardare chi avrebbe avuto la meglio in questo scontro di cui i Goti in quel momento non sembrano certo i favoriti, soprattutto dopo la perdita di Roma. Un'altra conseguenza della conquista di Roma da parte di Narsete fu l'ordine dato da Teia di giustiziare i circa 300 ostaggi, figli dei senatori romani, per rappresaglia del loro presunto aiuto alle truppe nemiche.
Teia, dopo che l'accordo di un alleanza con i Franchi era venuto meno, decise di trasferire il tesoro reale in un posto sicuro, lontano da Pavia, che, forse, non pensava abbastanza sicura dalle mire dei Franchi. Teia pensò di nascondere il tesoro nella munita città portuale di Cuma, ad ovest di Napoli, per fare questo dovette però utilizzare le navi che si trovavano nel Tirreno, ereditate da Totila. Un trasferimento via terra era troppo pericoloso con le truppe di Valeriano che controllavano i guadi sul fiume Po. A comando della guarnigione di Cuma e a protezione del tesoro Teia pose suo fratello Aligerno (chiamato da Procopio Erodiano), forse uno dei pochi di cui il giovane re germanico poteva fidarsi del tutto. Questo trasferimento ebbe però gravi conseguenze sul proseguo della guerra. Qualche mese dopo infatti Narsete pose sotto assedio Cuma, costringendo Teia ad intervenire per liberare la città e le ricchezze custodite in essa.
Si era forse nel tardo autunno del 552 quando Teia radunò tutto il suo esercito a Pavia, da lì decise di raggiungere la Campania e, per evitare i passi toscani tenuti dal nemico, prese la strada più lunga, percorrendo il litorale Adriatico per poi dirigersi ad ovest in Campania. La strada dell'esercito goto, lasciata la costiera adriatica, può forse identificarsi nel percorso tra Foggia e Avellino per poi raggiungere con successo Sarno a nord di Nocera.
Qui il fiume Sarno o Drakon (dragone) scorre impetuoso lungo le pendici meridionali del Vesuvio. Teia, concludendo la sua lunga marcia all'inizio dell'inverno del 553, si accampò sulla sponda meridionale del fiume, bloccando l'unico ponte sul fiume nell'attesa delle forze nemiche, costruendovi delle torri di legno munendole di macchine da guerra come grosse balestre.
Narsete avvisato della presenza del nemico a sud del Vesuvio lasciò una piccola parte delle sue forze a continuare l'assedio di Cuma, marciò con il grosso delle sue forze incontro al nemico per costringerlo ad una battaglia campale, sicuro della vittoria grazie alla sua indiscussa superiorità numerica e con i soldati galvanizzati dai recenti successi. Il Sarno è un piccolo fiume ma il suo alveo si trova infossato nel terreno. Dopo aver eroso le sponde in profondi canyon, lungo il suo corso, all'epoca dei fatti, non vi erano guadi o passaggi se non quell'unico ponte fortificato dai Goti che, presumibilmente, si trovava lungo il corso medio-alto del fiume.
Narsete quando giunse sulla sponda settentrionale dovette bloccare la sua avanzata davanti al Sarno, ponendo il suo accampamento nelle vicinanza della riva, così come avevano fatto i Goti sull'altra sponda. A questo punto tra i due contendenti si sviluppò una lunga guerra d'attrito che si protrasse per tutto l'inverno del 553. Procopio dice che vi furono ben due mesi di guerra di posizione in cui le azioni belliche si limitarono all'uso degli archi e delle frecce da entrambe le rive del fiume, mentre gli scontri corpo a corpo furono sporadici, limitati ad azioni di pattuglie gote sul lato del fiume tenuto dai Bizantini.
Durante questo periodo di tempo Narsete non tentò alcuna iniziativa offensiva limitandosi a costruire anch'egli delle torri in legno per meglio saettare gli avversari. Ogni sua azione era infatti impedita a monte del Sarno dal Pizzo d'Alvano di 1133 metri. L'unica sua possibilità per cogliere i Goti di Teia in campo aperto stava nell'affrontare una lunga marcia verso est in modo da superare le difficoltà orografiche, questo però voleva dire dividere le sue forze, rischiando una battaglia senza più possedere quella netta superiorità che invece aveva in quel momento. Narsete decise quindi di attendere, i rifornimenti non gli mancavano, il tempo giocava a suo favore, con l'arrivo della bella stagione la flotta bizantina sarebbe giunta a bloccare le navi gote che procuravano i vitali rifornimenti a Teia.
Infatti, i Goti bloccati a nord dal nemico e a sud dalla costiera Amalfitana si rifornivano di tutto il necessario utilizzando la loro flotta che faceva la spola nel Tirreno fino al porto di Stabia che, essendo a quell'epoca il più importante della zona occupata dai germani, è plausibile ritenerlo lo scalo ideale per l'approvvigionamento dell'armata ostrogota.
Questa situazione si protrasse fino a marzo del 553 quando il comandante goto della flotta, forse su istigazione di Narsete, decise di consegnarsi con tutte le sue navi ai Bizantini passando dalla loro parte, tradendo così irrimediabilmente Teia e i suoi guerrieri. Dopo questo avvenimento la situazioni per i Goti divenne drammatica. Impossibilitati a mantenere lo stallo nella valle del Sarno per mancanza di rifornimenti Teia e i suoi uomini decisero di ritirarsi verso sud in una posizione più sicura, visto anche il pericolo di eventuali sbarchi lungo la costa del golfo di Napoli con il rischio di essere presi alle spalle. Subito a sud del fiume Sarno si trovano i monti Lattari che rappresentano un baluardo naturale di difficile accesso. Parve questo ai Goti il punto migliore dove difendersi da un nemico preponderante, invece finirono per mettersi in trappola a causa della totale mancanza di provviste nella zona da loro scelta.
La battaglia dei giganti
Procopio chiamò lo scontro definitivo tra Goti e Bizantini la battaglia dei giganti, questo per la durata e la violenza dello scontro. Per ben due giorni consecutivi i due eserciti avversari si affrontarono, tanto da farne una delle battaglie più violente combattute durante l'alto medioevo in Europa. Ancora oggi, a distanza di tanti secoli, emergono alla luce reperti di quella battaglia, come ossa e frammenti di armature e armi, tanto da poter identificare con certezza il luogo in cui avvenne la battaglia.
Narsete passando il Sarno sulla sua riva sinistra, all'inseguimento dei nemici, pose il suo campo lungo la strada tra Stabia e Nocera a sud ovest di Angri, dove si trovava un terreno pianeggiante. Il generale bizantino non volle attaccare il nemico arroccato sul monte Lattaro, malgrado la sua superiorità numerica, si limitò invece ad assediarli in attesa che commettesse qualche errore.
Teia dopo aver sistemato il campo in una posizione facilmente difendibile sul Lattaro, si accorse dell'impossibilità di approvvigionare l'esercito. Completamente circondato dai monti su tre lati, i Goti subito si accorsero di trovarsi nella condizione di assediati e, per la mancanza di viveri, in una situazione disperata, senza via d'uscita. A questo punto Teia e i suoi uomini avevano solo due alternative se non volevano morire di fame lentamente, arrendersi incondizionatamente al nemico o attaccare. I germani scelsero quest'ultima alternativa anche se questo significava la morte in combattimento" meglio perire in battaglia, pensarono, che perdere la vita a causa della fame" (Le guerre VIII 35).
Si era nel Marzo del 553, per l'epoca il primo mese dell'anno, probabilmente la situazione di assedio non dovette durare più di un giorno, dal momento che Narsete pose il suo campo presso Angri e la decisione dei Goti di andare all'assalto del nemico. Teia aveva deciso di prendere il nemico di sorpresa con un'azione di fanteria. Così, la mattina di quel marzo fatale, prima che sorgesse il sole, le forze ostrogote discesero dalle loro posizioni sul monte, dirigendosi a nord-est verso Angri. Il campo bizantino si trovava nel punto più stretto del pianoro limitato dal lato meridionale dai monti e da quello settentrionale dal fiumicello La Marna e dalle paludi. Qui, al sorgere del sole, le truppe bizantine vennero colte di sorpresa dai Goti. I soldati imperiali reagirono prontamente alla minaccia, senza ordini, senza essere guidati da alcun comandante e senza badare al reparto d'appartenenza, si fecero incontro a casaccio contro i nemici con decisione. I Bizantini lasciarono alle proprie spalle i loro cavalli. Lo spazio disponibile, per un uso efficace della cavalleria, era limitato dai monti a sud e dal fiume e le paludi a nord. La tremenda battaglia fu quindi uno scontro essenzialmente tra fanterie.
La battaglia si accese subito violentissima, continuando ininterrottamente per tutta la giornata. A differenza della battaglia di Tagina però lo scontro tra le due fanterie non avvenne con la tecnica della falange ma in formazioni più aperte, in modo da permettere un ricambio continuo tra le prime file che combattevano e i soldati più riposati delle retrovie. Questa formazione più aperta permetteva ai contendenti l'uso di tutte le armi da getto e dava spazio ai guerrieri delle prime file di utilizzare l'umbone dello scudo come arma offensiva, un modo di combattere in uso in quel periodo.
Il re germanico non si risparmiò fin dall'inizio della battaglia, a differenza dell'anziano Narsete che cercò di condurre le operazioni dalle retrovie, Teia continuò a combattere valorosamente nelle prime file incoraggiando e dando l'esempio ai suoi uomini. Nel racconto di Procopio, nonostante sia uno storico di parte, si ritrova tutta l'ammirazione per questo giovane guerriero, riportiamo il racconto stesso: "Ora devo raccontare una battaglia degna d'essere sempre ricordata, non fosse che per il valore di un uomo che ha superato le gesta dei più celebrati eroi antichi: Teia. La disperazione moltiplicò le forze dell'esercito Gotico; ma anche l'opposizione dei romani fu esemplare, nonostante vedessero la furia scatenata del nemico, perché si vergognavano d'esser sbaragliati da così pochi guerrieri. Lo scontro divampò terribile, gli uni cercando la morte, gli altri gli allori. La battaglia iniziò al mattino. Riconoscibile da lontano, ritto, con lo scudo a difesa e la lancia pronta a colpire, Teia combatteva.
I suoi e gli altri lo vedevano, davanti a tutti. Pochi i compagni d'armi che gli stavano a fianco. I romani, accortisi che era il sovrano, pensarono che la lotta sarebbe finita se lo avessero tolto di mezzo. I più coraggiosi lo attaccarono in forze. Lance e giavellotti furono scagliati contro di lui, tutti parati dal suo scudo; poi Teia balzò contro i nemici e molti ne uccise. Passò lo scudo irto di proiettili conficcati al suo scudiero che gliene diede un altro.
Così 1 'eroe, senza posa, trascorse la terza parte del giorno. Dodici giavellotti gli appesantivano lo scudo che non riusciva a maneggiare come avrebbe voluto né a respingere gli assalti. Subito chiamò lo scudiero, ma senza abbandonare il suo posto, senza minimamente retrocedere, né consentire che avanzassero i nemici, né appoggiare la schiena allo scudo o girarsi di fianco: ritto e saldo sempre, come radicato nel terreno. Con la sinistra e lo scudo parava i colpi, con la destra stendeva i nemici. Chiamò dunque il suo scudiero per nome; l'interpellato s'affrettò a sostituirgli l'usbergo carico di strali. Per un attimo il suo petto rimase senza protezione, e proprio in quell'istante un giavellotto lo uccise." (Le guerre VIII 35).
Dopo la morte di Teia una furiosa battaglia dovette ingaggiarsi intorno al suo corpo con i Bizantini che tentavano di impossessarsene e i Goti che cercavano di sottrarlo al vilipendio del nemico. Alla fine i Bizantini riuscirono vincitori, impadronendosi del corpo di Teia a cui mozzarono il capo. La testa del re venne posta su una picca e portata in giro come trofeo nel campo imperiale e attraverso la città di Angri lungo quella via che ancora oggi porta il nome di via dei Goti. Tutto questo nel tentativo di risollevare il morale dei soldati Bizantini, già duramente provato nel corso di quella dura giornata.
Malgrado la grave perdita i Goti non si lasciarono prendere dallo sconforto e dalla disperazione, contrariamente a quanto avvenne a Tagina con Totila, i guerrieri germani continuarono a combattere con ancora più determinazione di prima, impedendo al nemico di aprire delle brecce nel loro schieramento. La battaglia proseguì violentissima fino al tramonto e anche dopo a notte inoltrata, poi nel buio notturno i combattimenti andarono scemando e lentamente i superstiti fecero ritorno ai rispettivi accampamenti, consapevoli delle difficoltà che li attendevano il giorno dopo.
I soldati di ambo le parti trascorsero la notte in assetto di combattimento, pronti a respingere eventuali attacchi di sorpresa.
L'alba del giorno dopo vide riaccendersi la battaglia negli stessi luoghi e nelle stesse modalità del giorno prima. Questa volta però i Bizantini non si fecero prendere di sorpresa, ma si disposero ordinatamente ognuno nel proprio reparto d'appartenenza. Lo scontro fu ancora una volta frontale senza alcun tentativo di manovra che peraltro il terreno non concedeva. I Goti cercarono di aprire delle brecce nelle schiere nemiche utilizzando tutto il loro "furor Teutonicus", ma il numero dei nemici, anch'essi molto agguerriti, impedì qualsiasi sfondamento. Ancora una volta la battaglia andò avanti per tutta la giornata fino alla successiva notte "tutti ben decisi a non cedere, a non fuggire né a ritirarsi, sebbene le perdite umane fossero numerose d'ambo le parti. Accesi di furore continuarono a lottare, ai Goti essendo chiaro che per loro non c'era altro sbocco, ed apparendo indegno ai romani mostrarsi a quelli inferiori." (Le guerre VIII 35).
Verso sera i Goti mandarono alcuni parlamentari a Narsete per trattare una resa. I Goti ormai consci di non poter più resistere alla pressione nemica chiesero a Narsete di lasciarli andare dove potessero vivere secondo le loro leggi, in cambio avrebbero consegnato i tesori in loro possesso, oltre alla promessa di non prendere più le armi contro Giustiniano, di cui però si rifiutarono ancora di riconoscerne l'autorità.
Narsete su consiglio di Giovanni nipote di Vitaliano decise di giungere ad un accordo, era ormai inutile combattere contro uomini disperati pronti solo a morire quando ormai la vittoria era già stata conseguita. Narsete chiese ai Goti superstiti di sottoscrivere un accordo secondo il quale essi avrebbero dovuto lasciare l'Italia e di non prendere più le armi contro "Roma". Mentre erano in corso queste trattative, durante la notte, un migliaio di Goti guidati da Indulfo, che probabilmente per i suoi trascorsi non si doveva fidare molto delle garanzie di Narsete, lasciò gli altri Goti dirigendosi verso Angri, passando alla larga dall'accampamento imperiale, per poi procedere verso est, seguendo la strada da cui erano arrivati con il resto dell'esercito alcuni mesi prima. I soldati Bizantini che ancora durante la notte si trovavano sul piede di guerra, pronti ad un'altra giornata di scontri con il nemico il giorno dopo, lasciarono sfilare i guerrieri nemici con le loro armi, consci dell'inutilità di una battaglia notturna che avrebbe potuto solo compromettere la vittoria ormai conseguita a duro prezzo. Di Indulfo e dei suoi uomini da quel momento non se ne seppe più nulla, forse lasciarono effettivamente l'Italia per tornare nelle avite terre d'origine dei germani.
Il resto dei Goti accettò l'accordo con un giuramento potendo ritirarsi verso Pavia e l'Italia settentrionale.
L'alba successiva all'accordo mostrò un campo di battaglia coperto di caduti che per due giorni consecutivi si erano accumulati in quella zona. Gli storici contemporanei tacciono sul numero dei caduti di ambo le parti, questo è significativo sulla durezza dello scontro. Probabilmente i morti eguagliarono, se non superarono, quelli di Tagina ma furono distribuiti in modo equanime tra i due contendenti, considerato il fatto che nei due giorni di battaglia nessuno degli eserciti riuscì mai ad avere la meglio sull'altro. Questa battaglia sancì definitivamente la fine degli Ostrogoti come nazione, non si risollevarono più, non riuscendo più a darsi un re né a sviluppare una politica autonoma.
Conseguenze
Con la battaglia dei monti Lattari Procopio mette la parola fine alla sua storia sulle guerre Gotiche, in realtà ci vollero altri due anni di combattimenti perché il conflitto si potesse dire risolto. Il pericolo ora veniva dai Franchi che visto l'annientamento dei Goti pensarono bene d'intervenire contro gli ormai esausti eserciti Bizantini, in modo da occupare definitivamente l'Italia a proprio vantaggio.
Re Teodibaldo affidò la missione ad alcuni dei suoi generali che calarono in Italia nel 553, con un esercito franco-alemanno, devastando e predando tutto quello che poterono sul loro cammino. Come scusa del loro intervento adducevano la richiesta del goto Vidino (Widin) che, ancora resisteva nei territori del Friuli, chiedendo aiuto ai vicini Franchi, con cui da tempo intratteneva rapporti d'amicizia. Un esercito guidato da Amingo portò soccorso a Vidino mentre un altro più potente, guidato da Leutari e da suo fratello Bucelino, con ben 75000 uomini, cifra riportata dagli storici contemporanei certamente esagerata, si diresse a sud contro Narsete.
Le sorti di Narsete e del suo esercito a questo punto erano davvero precarie, ma ecco che accadde una cosa inaspettata, la maggior parte dei guerrieri Goti, superstiti dal confronto precedente, decise di allearsi con Narsete piuttosto che vedere la loro terra devastata dai Franchi. Tutto sommato Giustiniano aveva una giustificazione legale nel voler occupare l'Italia, che certo ai Franchi mancava. Tra coloro i quali fecero atto di sottomissione a Narsete a Ravenna vi fu Aligerno, il quale, sicuro di dover prima o poi cedere di fronte ai Franco-Alemanni o ai Bizantini, preferì unirsi a questi ultimi e, consegnando la città di Cuma, passò al servizio dell'impero.
E' proprio grazie al loro aiuto che Narsete sconfisse Bucelino a Canneto, presso Capua, nell'autunno del 554, uccidendolo nel corso di una durissima battaglia, vinta grazie anche al valoroso assalto dei guerrieri Eruli. Mentre l'esercito di Leutari era decimato dalle malattie, anche Leutati morì di malattia nei pressi del lago di Garda mentre tentava di tornare in patria con il bottino razziato. Nel frattempo Vidino fu catturato e portato prigioniero a Bisanzio, Amingo venne, invece, ucciso dai Bizantini in battaglia, sconfiggendo così definitivamente il pericolo franco. L'ultimo atto della guerra si ebbe però ancora contro i Goti che non si rassegnavano al verdetto della storia. Nel sud l'ultimo centro di resistenza gota si arrese solo nel 555 a Compsa presso Napoli, dove i superstiti dell'armata di Bucellino si erano asserragliati, tenendo testa all'assedio nemico per circa un anno. Nello stesso anno Giustiniano stabilì la pace perpetua. Solo nel nord due centri abitati; Verona e Brescia, resisteranno fino al 562 quando anch'essi dovranno cedere alla pressione nemica.
La lunga guerra e le due battaglie che ne decretarono la sconfitta portò all'estinzione il popolo degli Ostrogoti, cosi come richiesto da Giustiniano ai suoi generali. Alcuni si rifugiarono nelle loro terre d'origine della lontana Scandinavia, la maggior parte però finì per essere assimilata dalla popolazione locale. Altri ancora, entrarono nelle forze armate bizantine, fornendo ottimi reparti di cavalleria come quello degli Optimates schierato in Bitinia e che rimase attivo fino alla fine del VII secolo, mentre altri Ostrogoti servirono come arcieri nelle truppe di fanteria. Sempre sotto il governo imperiale, alcuni Goti raggiunsero importanti incarichi nell'amministrazione bizantina, alcuni divennero tribuni e comites, altri duci e magister militum.
Nel corso del tempo però anche il nome stesso di questo popolo andò dimenticato e già nel VII secolo gli Ostrogoti appartenevano ad un lontano passato. Essi, scomparendo, lasciarono in eredità ai posteri principalmente la loro straordinaria storia, oltre a qualche monumento e alcuni vocaboli rimasti nella lingua italiana. Narsete dopo la vittoria su Teia e la fine della guerra aggiunse al titolo di Magister Militum quello di patrizio, radunando in se sia il potere militare che quello civile della penisola italica. Da Roma Narsete governerà la provincia conquistata mettendo in atto la Prammatica Sanzione o legislazione imperiale, emessa da Giustiniano nel 554, che riconosceva ai vescovi ampie competenze amministrative e giudiziarie. Inoltre fece confiscare le chiese ariane, cercando di mettere fine a quell'eresia portata dai Goti. Durante la sua azione di governo verrà accusato da Costantinopoli di fiscalismo e politica amministrativa avida che lo faranno richiamare in patria per difendersi. Durante la sua assenza, le cose per Roma e l'Italia andarono però a peggiorare, tanto da richiamarlo al governo del paese, dove egli si prodigherà anche contro l'avanzata dei Longobardi a cui tenterà di porre un freno. Morirà, carico di anni e di gloria, a Roma nel palazzo del Palatino nel 574, ricco e stimato da tutti.
Giustiniano, intanto, era già morto nel 565, con lui l'impero bizantino raggiunse la sua massima espansione territoriale, sebbene a prezzo di grandi sacrifici e sofferenze, ma le sue conquiste gli sopravvissero di poco. Nel 568 i Longobardi, guidati da Alboino, calarono in Italia dalle pianure della Pannonia, la loro migrazione armata fu una delle più massicce che l'Italia dovette subire, tra loro vi erano anche altri popoli germanici ad accompagnarli, in particolare 20000 guerrieri sassoni più le loro famiglie, uniti ai Longobardi fin da tempi antichi, da solidi rapporti di fraternità d'armi e d'amicizia. I Longobardi occuparono facilmente buona parte del territorio italiano mettendolo a ferro e fuoco. Con l'impero bizantino ormai esausto dalle continue guerre su tutti i fronti e incapace di qualsiasi risposta se non una passiva difesa locale. Neppure i Longobardi, nel corso degli anni, furono in grado di conquistare tutta la penisola, mantenendo così una separazione geografica e culturale che si sarebbe protratta fino alla metà del XIX secolo, quando un nuovo re d'Italia, Vittorio Emanuele II, poté riunire sotto la sua corona tutta la penisola che un tempo era stata di Teodorico il grande.
Conclusioni
Le varie fasi della lunga guerra Goto-Bizantina furono caratterizzate da diversi schemi tattici e strategici messi in campo dai due contendenti. Nella prima fase della guerra l'esercito di Belisario riuscì ad occupare il centro e sud Italia senza dover combattere una vera e propria battaglia campale. Gli scontri principali e determinanti furono esclusivamente gli assedi alle città e piazzeforti della penisola.
Gli Ostrogoti all'inizio delle operazioni, pur avendo un certo vantaggio su un nemico che si inoltrava in territorio ostile, non osarono sfidare Belisario in un aperto scontro risolutore. Neppure quando costui assediando una Napoli, ancora fedele ai goti, si era trovato in difficoltà. In realtà l'inazione dei Goti era causata principalmente dalla debole azione politica di re Teodato, frenato dalla paura di vedersi piombare addosso un esercito nemico proveniente dalla Slovenia o addirittura dalla Francia. Successivamente, quando i Goti di Vitige si portarono all'offensiva sui Bizantini, ormai padroni di Roma, fu Belisario ad opporsi allo scontro aperto sia per la sua inferiorità numerica ma, soprattutto, per sfruttare la superiorità tattico strategica offerta dalle mura della città eterna.
Si può in ogni caso affermare che l'assedio di Roma fu un succedersi di battaglie di logoramento, a cui i goti non erano preparati. Come Belisario aveva certo previsto, questo tipo di guerra meno, congeniale ai germani, portò allo sfiancamento finale dei Goti, permettendo al suo esercito di rafforzarsi nell'Italia centrale, ponendo le basi per la vittoria bizantina di questa prima fase della guerra.
Alla cattura di Vitige i Goti, che erano abilmente riusciti a mantenere il dominio sulle loro regioni nord occidentali, chiesero un accordo che Giustiniano nella sua idea imperiale non gli avrebbe mai concesso. A questo punto, con un moto di orgoglio, gli Ostrogoti elessero un nuovo re nella persona di Totila, il quale non si limitò più a subire una guerra d'assedio meno congeniale al suo popolo, ma con una serie di battaglie campali ed un sapiente uso della sua cavalleria riuscì a riscattare la penisola Italiana. Anche in questo caso gli assedi non mancarono e i Goti supplirono alla loro inesperienza tecnica, in questo genere di guerra, utilizzando con successo l'astuzia e il tradimento, con quest'ultimo metodo fu occupata per esempio Roma.
Lo scontro decisivo di Tagina fu in definitiva il risultato di tutta questa esperienza bellica accumulata da Totila stesso, il quale vedeva con sfavore uno scontro difensivo basato sulla tecnica ossidionale e su ingegneri militari non all'altezza dei nemici bizantini. A questo va certo aggiunto che Totila fu portato allo scontro definitivo dalla sicurezza in se stesso e dalla sua proverbiale astuzia che lo portarono a decisioni in definitiva avventate e fatali. Alcuni mesi dopo, ai Monti Lattari, la situazione era ormai irrimediabilmente compromessa dalla decisiva battaglia di Tagina e ben difficilmente avrebbe potuto avere un esito differente, questo malgrado l'indubbio valore mostrato dagli ultimi Goti. Valore ancora più rimarchevole se si considera in quale situazione, senza ormai più speranza, si erano trovati ad affrontare. Lo scontro si sviluppò dapprima come un lungo assedio, fino a quando i Goti di Teia, ormai con le spalle al muro, si rivolsero ad una battaglia d'annientamento senza via d'uscita.
La determinazione e il coraggio dei Goti in questa ultima prova campale meglio evidenziano la loro possibilità di vittoria nella vera battaglia decisiva di questa guerra, quella di Tagina. Fu proprio questo scontro che decise la sorte di vent'anni di guerra. Una miglior visione strategica da parte di Totila con una miglior valutazione delle forze in campo avrebbe potuto fare la differenza. Giustiniano, con la campagna di Narsete, aveva impegnato l'impero nel massimo sforzo di cui era capace in quel delicato frangente storico. Una sconfitta Bizantina avrebbe portato al proseguimento della guerra con una nuova fase di logoramento dei due eserciti lungo la sponda Adriatica delle città italiane. Probabilmente l'impero pressato dagli Slavi a nord e dai Persiani a oriente sarebbe stato costretto ad abbandonare l'Italia al suo destino, come in realtà accadde alcuni decenni dopo con l'invasione Longobarda. La differenza, seguendo questa ipotesi, sarebbe stata che i Goti avrebbero mantenuto il controllo e l'unità dello stato italiano condizionando indubbiamente la successiva e travagliata storia della penisola.
In definitiva la battaglia di Tagina fu fondamentale per la storia d'Italia, malgrado che gli stessi Italiani fossero stati spettatori dello scontro di due popoli stranieri; uno germanico e l'altro greco, che si contendevano la supremazia della penisola italiana. E' forse a causa di questo ruolo, di sostanziale passività, svolto dagli italiani stessi in queste vicende che la battaglia di Tagina e la guerra gotica in genere è spesso messa in secondo piano dalla storiografia italiana rispetto avvenimenti storici diversi, magari meno importanti. Il retaggio politico ereditato durante il risorgimento italiano ha poi contribuito a sminuire la portata degli avvenimenti di quel periodo. Ora dopo tanti anni è forse giusto riportare alla memoria questi avvenimenti lontani che tanta importanza ebbero nel plasmare l'Italia e l'Europa di oggi.
Re d'Italia Ostrogoti
Teodorico |
493 - 526 d. C. |
Atalarico [regg. di Amalasunta] |
526 - 534 |
Teodato |
534 - 536 |
Vitige |
536 - 540 |
Ildibaldo |
540 - 541 |
Erarico |
541 |
Totila |
541 - 552 |
Teia |
552 - 553 |
Cronologia
526: |
Morte di Teodorico |
527: |
Giustiniano imperatore |
533: |
Inizio della guerra vandalica |
534: |
Assedio di Lilibeo |
534: |
Sconfitta dei Vandali |
10 ottobre 534: |
Atalarico muore di malattia. Amalasunta favorisce l'elezione a re dei goti di Teodato |
30 giugno 535: |
Amalasunta viene assassinata nella sua prigione di Bolsena |
Ottobre 535: |
Belisario sbarca in Sicilia e occupa Catania |
31 dicembre 535: |
Belisario conquista Siracusa |
Maggio 536: |
Belisario sbarca sul continente |
Novembre 536: |
Belisario occupa Napoli utilizzando l'acquedotto cittadino |
Dicembre 536: |
Teodato viene ucciso dai Goti. Viene eletto al suo posto Vitige che sposa Matasunta figlia di Amalasunata |
09 dicembre 536: |
Roma viene consegnata a Belisario |
Dicembre 536: |
Conquista di Narni, Spoleto. Perugina e altre cittadelle dell'Appennino centrale |
Gennaio 537: |
I romani vengono sconfitti a Scardonia in Dalmazia dai goti |
21 febbraio 537: |
Inizia l'assedio di Roma da parte dei Goti |
Giugno 537: |
Carestie e pestilenze si susseguono in Italia |
Febbraio 538: |
I bizantini occupano Centocelle (Civitavecchia) e Albano |
Inverno 538: |
I goti rinforzati da Borgognoni mandati dal re Franco Teodiberto pongono l'assedio a Milano |
01 marzo 538: |
Dopo molti scontri i Goti bruciano gli accampamenti intorno a Roma e tolgono l'assedio |
Giugno 358: |
Belisario avanza verso le città dell'Adriatico incontrandosi con i rinforzi guidati da Narsete |
Estate 538: |
Uria conquista Milano |
Estate/autunno 538: |
I franchi calano in Italia saccheggiando e sconfiggendo goti e bizantini |
Dicembre 538: |
Belisario espugna Urbino e cinge assedio ad Ausimo (Osimo nelle Marche) |
Giugno 539: |
Belisario assedia Vitige in Ravenna |
Dicembre 539: |
Vitige consegna Ravenna a Belisario |
Marzo 540: |
Belisario rientra a Bisanzio con Vitige e i Goti prigionieri |
540: |
I Goti eleggono re Ildebado |
Estate 540: |
Ildebado sconfigge i Bizantini a Tarvisio |
Gennaio 541: |
Ildebado viene assassinato, al suo posto viene eletto re Erarico |
Giugno 541: |
Erarico viene assassinato; Totila diventa re dei goti |
541: |
A Verona i Bizantini vengono sconfitti |
541: |
Vittorie dei Goti di Totila a Faventia (Faenza) e sul Mugello |
542: |
I goti riconquistano Napoli |
17 dicembre 546: |
Totila espugna Roma dopo un lungo assedio |
Gennaio 547: |
Belisario rioccupa Roma sconfiggendo i Goti che tentano di impadronirsene di nuovo |
547: |
I goti di Totila sconfiggono Giovanni nei pressi di Capua in Lucania |
Gennaio 549: |
Totila conquista Perugia |
549: |
Totila occupa di nuovo Roma |
549: |
Sconfitta del generale bizantino Vero davanti Ravenna dove egli stesso perse la vita |
549: |
Trattato di tregua tra i Bizantini e i Persiani |
549: |
Invasioni slave nell'Illirico |
550: |
Morte di Germano |
Estate 551: |
I Goti al comando di Indulfo vengono sconfitti nella battaglia navale di Senogallia presso Ancona |
Estate 551: |
La flotta gota occupa la Corsica e la Sardegna |
551: |
Battaglia navale di Carnalis (Cagliari) dove i Goti sconfiggono i Bizantini |
Marzo 552: |
Narsete partendo da Salona (Solin) in Dalmazia intraprende la sua spedizione in Italia |
Primavera 552: |
Sconfitta dei Goti ad Arimnio (Rimini) |
Luglio 552: |
Battaglia di Tagina |
Estate/autunno 552: |
Narsete occupa il centro Italia confinando le forze gote a nord del Po |
Autunno 552: |
Roma è conquistata definitivamente dai Bizantini |
Marzo 553: |
Battaglia dei Monti Lattari |
554: |
Prammatica sanzione |
565: |
Morte di Giustiniano |
568: |
I longobardi calano in Italia |
Bibliografia
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