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La guerra dei sei giorni: il capolavoro di Tzahal, 5 - 10 Giugno 1967
di Marco Marianetti ©
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Pochi avvenimenti del dopoguerra hanno così profondamente lacerato gli animi e le coscienze di tutti gli osservatori, come il lungo e travagliato conflitto arabo israeliano. E' quasi impossibile parlarne serenamente, affrontarne tutte le sfaccettature con animo critico e imparziale; troppe le implicazioni religiose, culturali e politiche. Un morto a Gerusalemme, Nablus, Gaza fa più notizia di una strage nello Sri Lanka o in Indonesia e chi può dire di conoscere almeno in parte le motivazioni della guerra in Moldova?

Mi sono occupato per diversi anni di Israele e della questione palestinese, da un'ottica, non lo nego, filo israeliana. Conosco bene quel paese, le città, le vallate, i deserti, i Territori Palestinesi, ma non posso dire certo di essere un esperto; sono solo un appassionato, che ricorda con infinita tenerezza le notti trascorse in qualche kibbutz in Galilea o nel Negev, di lunghe chiacchierate con i miei coetanei seduto a un tavolino di un bar di Tel Aviv, o ascoltando i timori della gente del Golan e le speranze della madre di un soldato rapito. E ancora, come dimenticare le parole pacate e sagge di un arabo del quartiere musulmano di Gerusalemme, che mi parlava dell'impossibilità per un uomo anziano di odiare e della severità del Druso che ricordava suo nonno, soldato dell'Impero Britannico.

Ecco, anche io ho compiuto quel gesto catartico necessario per parlare di quelle terre e di quei popoli, ho affermato di non aver sentito solo una voce, mi sono quasi giustificato per non essere tacciato di partigianeria verso Israele ma forse sono stato anche io retorico come tutti.

Spero che comprendiate comunque che nessuno può scrivere o occuparsi di un problema, senza schierarsi, magari inconsciamente da una o l'altra parte. Ma poiché analizzerò la Guerra dei Sei Giorni, che è diventato quasi il simbolo della grande vittoria militare schiacciante e fulminea, sarà inevitabile una certa enfasi verso i vincitori, di ciò mi scuso, verso chi non condivide certe mie posizioni.

I prodromi della crisi: 1949-1967

Non è certo questa la sede per tracciare una storia delle ragioni e dei torti di ambo le parti, questa ricerca riguarda solo alcuni aspetti militari della guerra del 1967, ma una doverosa introduzione va comunque fatta.

Lo stato d'Israele nato dalle polveri della Prima Guerra Arabo Israeliana del 1948-49, quella che per gli Israeliani è ricordata impropriamente come Guerra di Indipendenza e dagli arabi come Al-Nakba (la catastrofe), lasciò uno strascico di problemi irrisolti e di rancori profondi. Da un lato il nuovo stato che, uscito provato, ma vittorioso dalla guerra si apprestava a costruire le basi di un'entità statuale vera e propria, doveva fare i conti con dei confini insicuri, privi di qualsiasi barriera naturale, con un territorio la cui profondità strategica era in alcuni casi di soli 15 km, con una società tutta da costruire composta di immigrati provenienti da ogni parte del mondo. A ciò si aggiunga la totale mancanza di risorse naturali e la conseguente dipendenza economica da Stati Uniti ed Europa, anch'essa alle prese con la difficile ricostruzione post-bellica. Se a sud il deserto del Negev costituiva una sorta di zona cuscinetto con il nemico più temibile, l'Egitto, a nord i Siriani dall'alto delle alture del Golan che dominano l'alta Galilea e sovrastano la Valle di Hula, bersagliavano i contadini dei kibbutzim sottostanti. La Giordania, il paese arabo con l'esercito più addestrato controllava la riva ovest del Giordano e la parte est di Gerusalemme, città divisa in due dal fronte. La clamorosa vittoria israeliana, che con un esercito raccogliticcio era riuscita a sconfiggere cinque paesi arabi, non aveva assolutamente chiuso i conti con i paesi circostanti. Si è spesso enfatizzato sul successo israeliano nel 1948-49, ma non si deve dimenticare che, se da una parte, il nuovo stato non disponeva di un esercito e furono gettati nella mischia immigranti appena sbarcati nei porti di Haifa e Tel Aviv, non va dimenticato che nemmeno Egitto, Siria, Libano e Iraq schieravano eserciti ben equipaggiati e preparati; solo la Giordania, in particolare la Legione Araba addestrata dagli Inglesi, con Sir Glubb Pascià, poteva fregiarsi del titolo di vera e propria unità combattente. E infatti fu la sola a salvare l'onore e a riportare vittorie decisive sugli Israeliani. Al di là di tutto, comunque, la capacità di Israele di respingere gli attaccanti, vincendo anche l'ostilità armata degli abitanti arabi della zona, fu notevole. Anche il nuovo stato peraltro schierava fra i suoi ranghi ex soldati della Jewish Brigade, o smobilitati da altri eserciti e i comandanti erano forgiati da anni di guerriglia contro arabi e inglesi; non si trattava in definitiva solo di un esercito di profughi disperati e senza preparazione militare.

Nel corso del decennio 1949-1959 si registrarono innumerevoli scontri di confine, che causarono molte vittime da ambo le parti e con il passare degli anni, le scaramucce aumentarono di qualità e intensità, mantenendo una tensione strisciante, pronta a esplodere. I paesi arabi usciti umiliati dalla guerra covavano sentimenti di rivincita, se non di odio, nonostante i tentativi di re Abdallah di Giordania di intavolare trattative di pace con gli israeliani, tentativi che pagherà con la vita, come anni dopo Sadat.

L'intero mondo arabo si preparava con le armi o con le parole alla guerra contro lo stato ebraico, più per veri e propri motivi di orgoglio, che per senso di solidarietà verso i profughi palestinesi, costretti a lasciare i territori conquistati da Israele. Il loro problema, ignorato dai regimi arabi e sottovalutato da Israele sarebbe sfociato anni dopo, nella formazione dell'OLP e nella lotta per il riconoscimento dei loro diritti, ma questo è un altro capitolo.

Israele rispondeva colpo su colpo agli attacchi, sino a quando in Egitto, un militare, Nasser, prese il potere scacciando il re Faruk e giocando la carta del nazionalismo arabo. Nazionalizzò il Canale di Suez, mossa che condusse alla sciagurata impresa anglo-israelo-francese, volta a occupare il Canale e liberarlo. Se per Israele, quella fu l'occasione di regolare i conti con l'esercito egiziano e di testare il suo nuovo esercito, per Francia e Gran Bretagna, fu quasi il colpo di coda di una concezione imperial-paternalistica della gestione dei paesi del Terzo Mondo. Israele sbaragliò le forze egiziane e occupò Gaza, oltre a gran parte del Sinai, con un attacco fulminante, mentre i parà francesi e britannici presero Suez. Ma l'intervento statunitense fermò il conflitto e tutto tornò come prima, o quasi. Israele ottenne dall'ONU il dispiegamento di forze di interposizione nel Sinai lungo il suo confine, ma la breve guerra del 1956, fu, dal punto di vista politico, un trionfo di Nasser nei confronti dell'Occidente. Tuttavia, preso dall'euforia per aver fermato Francia e Gran Bretagna, non fece tesoro della dura sconfitta subita per opera di Israele nel Sinai, uno sbaglio che pagherà a caro prezzo 11 anni dopo.

Gli Eserciti

Israele e IDF


La situazione di Israele era comunque precaria. Un paese di due milioni di abitanti non aveva certo le risorse umane per una lunga guerra, e ogni lutto, era vissuto come un lutto collettivo. Da ciò si sviluppò quella sindrome di accerchiamento che da sempre caratterizza l'essere degli israeliani e che ha dato origine alla dottrina militare del suo esercito l'Israeli Defence Forces (Tzahal in ebraico acronimo di Tzavà Haganà Leisrael: Forze di Difesa Israeliana), da qui in avanti IDF.

Questa dottrina può sintetizzarsi in tre punti:

1. A causa della predetta scarsità di profondità strategica e dell'alta concentrazione di città e, quindi di popolazione, proprio nell'area più a rischio, la fascia costiera da Ashkelon a Haifa, Israele non può sostenere una guerra entro i propri confini, a causa anche dell'enorme impatto sulla popolazione civile. La guerra deve pertanto essere combattuta nel territorio del nemico.

2. Israele era e resta un piccolo stato dall'economia precaria e basata su delicati equilibri: a causa di ciò il paese non può essere in grado di sopportare un lungo conflitto che danneggerebbe l'apparato economico.

2. Israele a causa delle origini intrinseche alla sua nascita, un paese lacerato dalla memoria della Shoà, con una popolazione poco numerosa, non deve essere costretta a lamentare troppe perdite sia tra i militari, sia tra i civili. I ragazzi in Israele devono prestare il servizio militare per tre anni, le ragazze per due, con frequenti richiami durante la loro vita, sino ai 45 anni, per il periodo detto del miluim. Ciò fa sì che tutti i giovani siano sotto le armi, essendo quello israeliano, un esercito basato sulla coscrizione obbligatoria che costituirà la riserva (Sherut Muim) e con un nucleo di professionisti alquanto esiguo (Sherut Qevah). I giovani partono per le caserme al termine delle secondarie, non vi sono che rari esempi di rinvio del servizio, per cui le perdite in battaglia colpiscono spesso giovanissimi, con tutti i problemi di ordine sociale che ne derivano. IDF deve pertanto limitare al minimo le perdite. Guerra preventiva, veloce e con perdite contenute: questi i pilastri del sistema militare di Gerusalemme, che, come vedremo, troveranno la loro massima realizzazione nel 1967.

L'esercito israeliano era nato nel corso della guerra del 1948-49 dalla fusione dell'Haganà e delle altre formazioni paramilitari (Irgun, Stern, Palmach) che combattevano Inglesi e arabi e diventerà subito, l'anima e la spina dorsale del paese, momento essenziale per i giovani e soprattutto, per i nuovi immigrati di immergersi subito nello spirito e negli usi della nazione. La classe degli ufficiale è strutturata su un regime rigidamente meritocratico, che esalta le doti di intraprendenza e inventiva. In particolare, i comandanti dei battaglioni carri disponevano di grande autonomia decisionale, cosa particolarmente importante in un esercito che, come quello israeliano ha sempre considerato come punta di diamante delle forze di terra i corazzati. Tutti i soldati sono in grado di praticare piccoli interventi di pronto soccorso in zona di battaglia, sono altamente addestrati, ma, essendo quello israeliano essenzialmente un esercito di "popolo", manca del tutto di ogni tipo di atteggiamento formale, sia nelle uniformi, che nei comportamenti dei militari: è quasi impossibile vedere nel soldato israeliano tracce di marzialità. Oggi è normale pensare all'esercito israeliano come a uno dei migliori al mondo, ma nel 1967, tutto ciò era meno scontato: il vero e proprio battesimo del fuoco, la campagna del Sinai del 1956, era stata poco più di una scaramuccia, per di più, Israele aveva combattuto con l'appoggio di due alleati; come si sarebbe comportato Tzahal in una vera e propria guerra? Tenendo anche conto che lo stato ebraico combatteva per la propria sopravvivenza, perdere una guerra, significava perdere lo stato.

L'arma più efficace della difesa israeliana era comunque l'aviazione (IAF), con i caccia Mirage di produzione francese, la vera sentinella e guardia dei confini; la sua superiorità farà la differenza in tutti i conflitti. Nel 1967 poteva schierare più di 200 aerei tra caccia e cacciabombardieri, con piloti altamente specializzati.

Gli eserciti arabi

Come detto in precedenza, solo la Giordania poteva schierare unità combattenti all'altezza delle aspettative, mentre l'Egitto e la Siria erano molto indietro nella preparazione e negli armamenti. La concezione che ogni cosa avviene per volere di Allah e che di conseguenza è inutile, se non contrario alla fede cercare di vincere il destino, è stata a volte rimarcata più del necessario, ma contiene elementi di verità. Ogni pianificazione o studio strategico era stato respinto o volutamente ignorato dall'alto comando egiziano. L'esercito, numericamente consistente, circa 110.000 uomini schierato in cinque divisioni di fanteria, ognuna con la propria unità corazzata, non era comunque in grado di opporsi validamente nel corso di una guerra. L'analfabetismo diffuso tra i soldati e la mancanza di interazione e di rapporti camerateschi fra truppa e ufficiali, la maggior parte dei quali fortemente politicizzati e scarsamente preparati, era un'altra grave limitazione all'efficienza della forza del Cairo. L'organizzazione dell'esercito egiziano era basato su quella inglese, ma a poco a poco questa influenza cessò del tutto, anche se, per molto tempo le divise rimasero di stampo britannico. Con l'avvento di Nasser, molte cose cambiarono; armamenti e logistica provenivano ora dal Patto di Varsavia, mentre, si registrava una forte influenza tedesca sul comando tattico. Il generale Wilhelm Fahrmbacher con altri ex ufficiali della Wehrmacht addestrò il personale di artiglieria e le forze speciali. L'Egitto è sempre stato un paese a scarsa vocazione industriale e ciò ha comportato una sua totale dipendenza dall'estero per quanto riguarda le armi e i rifornimenti.

A proposito del già citato diffuso analfabetismo, questo era diffuso anche tra i sottufficiali e rendeva arduo trovare personale capace per le armi tecniche: carristi, artiglieria e genio. L'arrivo di consiglieri militari sovietici non fece che alleviare in parte queste gravi carenze e tutta l'incapacità degli ufficiali renderà inevitabile il grave scacco del 1967.

Discorso diverso va fatto per la Giordania. Il suo nucleo era la Legione Araba, composta esclusivamente da beduini, guerrieri nati e fedelissimi al regno Hascemita. Addestrati e inquadrati dall'inglese John Glubb, rappresentavano una delle migliori unità combattenti del Medio Oriente. Si trattava peraltro di un esercito numericamente esiguo non superiore alle 12.000 unità.

Il vento del nazionalismo arabo portò al congedo forzato degli ufficiali britannici e nel 1956, nacque il nuovo esercito arabo giordano che crescerà sino a raggiungere la cifra di 55.000 uomini. Armato con carri americani e inglesi, l'esercito era schierato capillarmente su ogni chilometro del confine, tradendo così l'impostazione data da Sir Glubb che suggeriva allo stesso di schierarsi sulle colline, lasciando indifesi i villaggi di confine. Tale schieramento avrebbe impedito agli Israeliani una penetrazione all'interno; ragioni di orgoglio, che aborrivano il solo pensiero di lasciare zone dello stato alla mercé del nemico e miopia strategica portarono anche questo ottimo esercito al collasso.

L'esercito siriano, nacque per mano dei Francesi nel 1919, con la creazione della Legione Siriana e assunse un peso sempre maggiore nella vita del paese, diventando l'ago della bilancia del potere in Siria. Passò rapidamente da vecchi armamenti tedeschi della II Guerra Mondiale a carri sovietici T34/85, che però non ressero il confronto con i Centurion israeliani, come seguirono identica sorte i T54 e i T55. L'esercito siriano non ha mai suscitato grande impressione, forse perché è stato a volte ritenuto una sorta di accozzaglia di soldati, mal vestiti, mal preparati e peggio comandati. Tutto ciò è vero fino agli inizi degli anni 70, quando avverrà un radicale cambiamento in seno all'esercito, che tuttavia non riuscirà a evitare future sconfitte.

Al tempo della guerra dei sei giorni, la Siria disponeva di un esercito dove evidenti erano le differenze non solo di classe, tra la truppa e gli ufficiali. Questi ultimi appartenevano perlopiù alla setta alawita al potere, una minoranza musulmana nota per il suo sincretismo religioso, mentre i soldati erano fellahim molti di religione musulmano-sciita, costretti a subire una disciplina rigidissima e una pesante discriminazione. La militanza nel partito Baath (rinascita) di ispirazione socialista era condizione essenziale per aspirare al grado di ufficiale; punta di diamante dell'esercito di Damasco era la Guardia Presidenziale, un po' come avviene per l'Iraq, unità di elite che costituisce, tra l'altro, il nerbo delle migliori brigate corazzate siriane.

Spalle al muro?

La situazione era tesa e probabilmente sarebbe precipitata lo stesso, ma una serie di concause favorirono l'escalation della vicenda bellica. In aprile nel corso di una rappresaglia, una squadriglia di Mirage israeliani avevano abbattuto sei MIG siriani e sorvolato la stessa capitale Damasco; questo fatto irritò oltre modo la Siria, che cominciò ad aizzare gli alleati arabi contro Gerusalemme.

Nel corso della celebrazione a ricordo del 19º anniversario della nascita dello stato, gli israeliani non fecero sfilare i carri armati nelle vie della Gerusalemme ebraica, questo in ottemperanza dell'accordo per la limitazione degli armamenti nella Città Santa, ma il gesto fu interpretato dagli Egiziani, come sintomatico del fatto che Israele aveva dispiegato le sue brigate corazzate lungo i confini. L'URSS, nel quadro di sottili mosse diplomatiche volte a contrastare l'avanzata statunitense nell'area del Mediterraneo, stava persuadendo Siria ed Egitto che Israele era in procinto di scatenare una guerra.

Nel mese di maggio, il re giordano Hussein si recò al Cairo dove, pur controvoglia, siglò un accordo militare con Nasser che poneva di fatto l'esercito giordano sotto il comando egiziano; strettissimi erano inoltre i rapporti di cooperazione militare con la Siria. La morsa su Israele si stava serrando.

Il 22 maggio Nasser decise di chiudere al traffico mercantile gli Stretti di Tiran, sul golfo di Aqaba: di fatto un blocco navale alle coste israeliane. Secondo le norme di diritto internazionale bellico, il blocco costiero è motivo di casus belli. A più riprese, la televisione egiziana trasmetteva immagini di blindati e truppe dirette verso il Sinai, accompagnate da dichiarazioni bellicose nei confronti di Israele, che promettevano bagni di sangue e massacri. In Giordania andava ammassandosi una divisione irachena e la Siria fortificava i suoi avamposti sul Golan. A ciò si aggiunga che, dietro richiesta di Nasser, il Segretario Generale delle Nazioni Unite U-Thant ritirò i caschi blu dalla zona del Sinai. Se è vero che era diritto dell'Egitto chiedere l'allontanamento dal proprio territorio delle forze ONU, altrettanto vero è che queste avrebbero ben dovuto valutare i rischi e le implicazioni di tutto ciò.

Ma i paesi arabi volevano davvero la guerra? Nonostante alcune voci contrarie e altre dubbiose, non si può non rilevare come Nasser, non poteva certo sottovalutare il rischio di giocare un bluff simile in un simile scenario. E' certamente vero che l'Egitto era invischiato nella guerra civile yemenita, dove appoggiava i repubblicani, contro i monarchici spalleggiati dall'Arabia Saudita e di tutto aveva bisogno, tranne che di un nuovo fronte, ma è altrettanto importante ricordare la sete di rivincita e la sensazione di poter, questa volta sconfiggere l'odiato nemico sionista, grazie anche all'appoggio dell'Unione Sovietica. Lo stato di Israele si trovò così costretto a mettere in atto tutte le sue teorie militari e a giocare la partita impostagli, ma secondo le regole che lui stessa avrebbe dato.

Per riuscire a difendere i propri confini, tutti lungo la linea del fronte, Israele doveva acquisire subito la netta superiorità aerea e distruggere il nucleo più forte del nemico: le divisioni egiziane attestate nel Sinai. Non è ancora chiaro se gli obiettivi che IDF raggiunse il 10 giugno fossero quelli preventivati all'inizio: secondo alcuni storici, Israele all'inizio della guerra puntava a un conflitto limitato contro l'Egitto, volto a sventare la minaccia dal Sinai e a liberare gli stretti di Tiran: non c'erano piani precisi per la Cisgiordania o nei confronti della Siria, che pure aveva collaborato non poco a innescare la crisi. Quel che avvenne in seguito, forse fu causato dal repentino crollo dell'esercito egiziano, come un tragico effetto domino.

5 giugno 1967 h. 7.14

L'attacco aereo


Si è spesso affermato che l'attacco israeliano fu un capolavoro di sorpresa e che l'aviazione egiziana non si sarebbe mai aspettata una simile mossa. Ciò è in parte inesatto. Come sottolinea bene Benny Morris, un'eventualità del genere era prevista dal comando egiziano ed era, fra l'altro, improbabile pensare che in un clima di guerra le basi aeree arabe fossero così esposte a un attacco aereo, tutto sommato prevedibile. Tutto quel che avvenne, fu la realizzazione di una delle più ardite e temerarie scommesse dell'intera storia militare. L'Israeli Air Force portò a termine il suo capolavoro giocando su due certezze alla base della difesa strategica egiziana:
1) un eventuale attacco aereo si sarebbe svolto alla "canonica" ora dell'alba;
2) l'attacco sarebbe giunto da est, cioè dal territorio israeliano, direzione verso cui erano puntati i radar.

L'aviazione israeliana attaccò invece circa due ore dopo l'alba, quando i cieli egiziani erano sgombri dai voli di ricognizione e la tensione era calata nelle basi e negli aeroporti; inoltre attaccò alcune basi del Sinai da nord est, mentre altre, le più importanti da nord e da ovest, cioè dal Mediterraneo, prendendo totalmente di sorpresa le difese a terra.

In una logica di controinformazione, mentre la televisione israeliana mostrava soldati in licenza sulle spiagge di Tel Aviv, il Ministro della Difesa Moshe Dayan, rilasciava dichiarazioni tranquillizzanti e per nulla foriere di guerra. Così, alle 7.14 la prima ondata composta da 183 aerei Mirage e Mystere, seguita da un altra, piombò sulle basi egiziane distruggendo al suolo, in brevissimo tempo, la totalità degli aerei e delle installazioni. I velivoli, come detto, aggirarono il fianco egiziano puntando verso il mare per poi virare verso il nemico. Fu un rischio calcolato, poiché solo 12 caccia rimasero a proteggere lo spazio aereo israeliano; nelle ore di quella mattina il paese rimase esposto a un attacco aereo da parte di Siria e Giordania.

La contraerea egiziana, che, tra l'altro, aveva avuto l'ordine di non sparare quella mattina, perché un aereo di alti ufficiali avrebbe sorvolato l'area, non riuscì a fermare la catastrofe. IAF perse solo 15 aerei e sei piloti, mentre la forza aerea egiziana perse circa 400 aerei, otto stazioni radar e la maggior parte degli aeroporti. Si trattava perlopiù di MIG-21, bombardieri IL-28 e Tu-16, che per la maggior parte non riuscirono nemmeno a decollare. E' da notare come l'aviazione attaccante si limitò ad attaccare e concentrare i suoi sforzi solo sugli aeroporti, disinteressandosi totalmente di altri bersagli strategici quali industrie, strade e caserme. Tutto ciò perché era chiaro fin da subito l'obiettivo di Israele: vincere entro il minor tempo possibile e per farlo era necessario conquistare il dominio dell'aria. Altro dettaglio fondamentale è l'enorme e accuratissimo lavoro dello spionaggio militare: tutti gli obiettivi era perfettamente localizzati cosicché i piloti avevano notizie dettagliatissime sulle loro destinazioni e le forze dei terra, durante tutto il conflitto, colpiranno i centri nevralgici arabi, conoscendo in anticipo i loro punti deboli e mettendo in opera piani già preparati fin nei dettagli.

In Giordania arrivarono notizie confuse circa la situazione, ma fin dal primo mattino, quando l'esito dell'attacco era già chiaro, Nasser convinse re Hussein che l'Egitto aveva respinto le forze israeliane e stava bombardando le città della costa. Si trattava di dichiarazioni a dir poco assurde, ma che raggiunsero lo scopo. Dai radar giordani apparvero le sagome di aerei diretti verso Israele e furono scambiati per i bombardieri egiziani all'attacco. Si trattava invece degli aerei di Gerusalemme che tornavano a casa per il rifornimento. Re Hussein fu così spinto a entrare in guerra, nonostante le pressioni e le rassicurazioni israeliane, ma non fece in tempo a emanare ordini precisi, che la terza ondata di IAF si abbatté sulle sue basi aeree e anche la Royal Jordan Air cessò di esistere, dopo essere riuscita a compiere appena una breve incursione su Netanya. Identica sorte toccò alla Siria, che fece appena in tempo a nascondere una parte dei propri velivoli, ma non evitò la distruzione del resto. Anche un aeroporto iracheno fu attaccato e dieci velivoli di Bagdad distrutti al suolo. E' appena il caso di notare come la Siria, che tanto aveva contribuito a far salire la tensione, non mosse un dito in aiuto del debole alleato giordano.

Alle 13.00 del primo giorno di guerra, Israele aveva assunto il totale e incontrastato dominio dell'aria e nell'opinione della stragrande parte degli analisti militari, la guerra finì quel giorno stesso: da allora in poi l'aviazione con la stella di Davide avrebbe condotto l'iniziativa e supportato le forze di terra nei loro attacchi. Particolare curioso: la distruzione totale dell'aviazione nemica fece sì che durante i sei giorni della guerra, non vi furono mai duelli aerei.

Il fronte del Sinai

La penisola dei Sinai sarebbe stata per la seconda e non ultima volta teatro di imponenti scontri e di cruente battaglie fra mezzi corazzati. Il piano israeliano, modificato proprio all'inizio di giugno dal Ministro della Difesa Dayan prevedeva lo sfondamento delle linee egiziane lungo le principali direttrici che attraversavano la penisola del Sinai.

La forza israeliana nel Sinai, comprendeva tre unità divisionali dette UGDAH:
la UGHDAH Tal, al comando del generale Israel Tal che doveva avanzare lungo l'asse costiero di el-Arish,
la UGADAH Yoffe agli ordini del generale Avraham Yoffe, con direzione Gebel Litani
la UGDAH Sharon, del generale Ariel Sharon cui era stato affidato l'asse di Abu Ageila
Alle spalle due brigate corazzate di riserva nei pressi di Kusseima e Kuntilla.

Entro la prima fase dell'operazione le unità dovevano agganciare gli obiettivi stabiliti, mentre successivamente, il loro compito era di proseguire fino alla distruzione delle forze nemiche; questa seconda fase non era stata peraltro definita nei dettagli. Quando scattò l'attacco, alle 8 del 5 giugno, nessuno aveva ancora ben chiari gli effetti dell'attacco aereo, ma era fondamentale non dare tregua all'Egitto e le tre divisioni scattarono verso i loro obiettivi.

La difesa egiziana era basata sul principio sovietico dello "scudo e della spada", cioè una articolata combinazione di difesa e attacco: così 5 divisioni erano schierate su linee fortificate lungo il confine a ridosso delle probabili direttrici degli attacchi: alla 20ª palestinese spettava la difesa di Gaza, la 7ª era attestata fra Rafa ed el-Arish, la 2ª sulle posizioni di Gebel Litani e Bir Hassan, mentre alla 6ª meccanizzata era posta a difesa della linea Kuntilla-Nakhl. L'intera linea difensiva era rafforzata da campi minati e barriere anticarro, sotto la protezione dell'artiglieria. Il compito di fare da spada, spettava alla Forza del generale Saad ed-Din Shazli cui era affidata una profonda penetrazione nel Negev verso Dimona e alla 2ª meccanizzata che, avanzando sulla linea costiera e in direzione della capitale del Negev, Beer Sheva, doveva congiungersi con le forze giordane.

La prima mossa toccò alla 7ª brigata corazzata del generale Gonen dell'UGDAH Tal che attaccò Rafa, nei pressi dell'odierno valico di Khan Younis, cioè nel punto di unione tra la 20ª divisione palestinese e la 7ª divisione egiziana. Gli Israeliani incontrarono una forte resistenza e fu necessario l'intervento di una ulteriore brigata che, dopo aver aggirato i campi trincerati e i campi minati, colpì Rafa da sud, raggiungendo el-Arish con la 202ª brigata aviotrasportata del generale Rafael Eitan. Mentre l'UGDAH tentava di sfondare a el-Jeradi, aliquote di paracadutisti erano penetrati a Gaza per eliminare l'artiglieria palestinese. Il saliente di el-Arish, fu rafforzato e reso sicuro dall'arrivo della 79ª brigata corazzata del colonnello Aviram. Nonostante una fiera difesa, Gaza cadde rapidamente in mani israeliane, fra lo sconcerto degli ufficiali egiziani.

L'UGDAH Yoffe, avanzando in pieno deserto, su piste non battute e, quindi a velocità ridotta, respinse un tentativo di contrattacco della 4ª divisione egiziana, mirante a incunearsi fra le forze di Tal e di Sharon. Questi combattimenti intorno a Gebel Litani, mostrarono la superiorità dei carri israeliani Centurion e M-48 nei confronti dei T-55 e degli obsoleti T-34/85. La miglior preparazione tecnica e tattica dei carristi di Gerusalemme, sopperirono all'inferiorità numerica (all'inizio delle operazioni Israele schierava circa 700 carri, contro gli oltre 1000 degli Egiziani) e alla minor conoscenza del terreno. Nel complesso se, da un lato, i carri israeliani potevano contare su cannoni da 90 mm contro i 100 mm degli avversari, i loro sistemi d'arma, in particolare i telemetri erano molto più precisi.

All'UGDAH Sharon era affidato un compito delicatissimo sul fronte sud: affrontare una delle migliori unità egiziane, la 2ª divisione, schierata con l'ausilio di 66 T-34 e 22 cacciacarri SU-22 al riparo di solide fortificazioni a Um Qataf. I primi tentativi di sfondamento furono respinti e Sharon decise di mettere a punto la sua tattica preferita: anziché insistere in assalti frontali, avrebbe aggirato l'ostacolo. Poiché le difese della base erano orientate a est, si pensò di sfruttare gli altri lati cardinali. Dopo aver spedito in avanscoperta unità di carri per contrastare l'arrivo di rinforzi, concentrò sei battaglioni di artiglieria a est della base, inviò una brigata di fanteria a nord di Um Qataf, lato ritenuto sicuro dai difensori per via di un costone roccioso a ridosso delle fortificazioni e fece elitrasportare i paracadutisti sul lato ovest, totalmente sguarnito. Con uno straordinario tempismo, che mostrò come gli Israeliani riuscivano a coordinare le azioni al buio, alle 22.45, protetti da un nutrito fuoco di artiglieria, fanti a parà irruppero nella base e smantellarono i cannoni egiziani; a quel punto si scatenò un violento scontro fra mezzi corazzati che vide nettamente sconfitti gli Egiziani. Oltre al tempismo perfetto e al miglior uso possibile della non numerosa artiglieria, il successo ebraico si deve anche alla costante presenza sul campo di battaglia degli ufficiali superiori, che potevano dirigere l'azione direttamente sul posto.

In definitiva gli obiettivi della prima fase erano stati ampliamente raggiunti, ora bisognava, dopo aver sgominato lo scudo, andare a distruggere la spada. La Forza Shazli, era ancora attestata sulle posizioni di partenza, in attesa di ordini, che non arrivavano, poiché solo ora Nasser doveva affrontare la realtà: non aveva più aviazione.

L'indomani, in ottemperanza alle istruzioni ricevute, il generale Tal, lanciato sulla rotabile Bir Gifgafa-Ismailia, prese il Passo di el-Jeradi e l'importante aeroporto di el-Arish. Una brigata corazzata si congiunse con la UGDAH Yoffe a Bir Lahfan che impegnò la 4ª divisione egiziana. L'apporto costante dell'aviazione, padrona dei cieli, contribuì al crollo dell'unità araba, che, insieme al grosso delle forze superstiti cominciò a ripiegare. Ad accrescere il caos ci si mise anche il Comando egiziano che continuava a trasmettere ai soldati al fronte notizie infondate su prossimi arrivi dell'aviazione e su clamorose vittorie che altre unità stavano riportando sul nemico. Avvenne così che i comandanti egiziani pianificarono e condussero le operazioni sulla base di false notizie e ciò portò il sistema al collasso.

Ormai l'avanzata era inarrestabile: Tal rilevò Yoffe e la sua unità dirette ora verso il Passo di Mitla, già teatro di uno scontro nel 1956 e, dopo aver lasciato aliquote di retroguardia per ripulire le zone conquistate, proseguì per Gebel Libni, sulla via di Bir Gifgafa. Sharon colpì a Kusseima la Forza Shazli, che iniziò in disordine il ripiegamento, sotto l'attacco impalcabile dell'aviazione.

All'alba del terzo giorno, l'UGDAH Tal e parte dell'UGDAH Yoffe sgominarono gli Egiziani a Gebel Libni; il grosso della divisione di Yoffe, intanto occupò Bir Hassam fino a giungere a Mitla alla sera, tagliando così la ritirata alla Forza Shazli. Anche l'UGDAH Sharon avanzò fino a Nakhl completando così la morsa sulle divisioni egiziane, martellate senza pietà dagli aerei israeliani, che usavano aerei da addestramento francesi Fouga Magister adattati per l'attacco al suolo.. Ormai gli scontri si erano ridotti ad azioni di attrito fra le avanguardie israeliane e le retroguardie degli Egiziani in rotta.

Con le strade letteralmente intasate dei rottami di centinaia di carri arabi, e le linee israeliane sempre più lontane, cominciò il problema dei rifornimenti per gli attaccanti, che fu in parte ovviato con aerolanci del carburante. A causa della rotta delle forze nemiche, gli Israeliani non dovettero fronteggiare anche l'altro problema insito nell'allungamento delle linee di penetrazione strategica: cioè il rischio di contrattacchi, nessuno forza egiziana era in grado di realizzarlo. Le centinaia di soldati egiziani sbandati non costituivano certo una minaccia e spesso furono semplicemente abbandonati, senza nemmeno essere presi prigionieri per non rallentare l'avanzata. Ci furono anche casi in cui i soldati israeliani uccisero a sangue freddo gli sbandati che cercavano di arrendersi. Da non dimenticare come i carri soffrissero frequenti danni meccanici, a causa non solo dei combattimenti, ma anche delle particolari condizioni ambientali del deserto e non sempre era possibile ripararli sul posto. Frattanto nell'estremo sud della penisola, Sharm el Sheik e el-Tur erano state occupate dai paracadutisti israeliani, quasi senza colpo ferire, mentre la città di Romani al nord veniva presa dai carri del generale Tal. L'intero Sinai era nelle mani di Israele, ora si trattava di chiudere la morsa sui resti dell'armata egiziana.

Il 9 giugno, l'UGDAH Tal dopo un'ulteriore vittoriosa battaglia, raggiunse il Canale di Suez, lo stesso fece Yoffe, che conquistati il Passo di Mitla e di Giddi, respinse un timido contrattacco. L'UGDAH Sharon, come da programma, tagliò la ritirata e polverizzò la divisione di Shazli e, dopo Bir Thamada, si unì a Yoffe.

Le Nazioni Unite, su sollecitazione dell'URSS avevano cercato nei giorni della battaglia di imporre un cessate il fuoco con il ritiro di Israele entro i propri confini, ma fu sempre respinto. Ora, la situazione era radicalmente mutata e lo stesso Nasser non aveva più carte da giocare; il cessate il fuoco non avrebbe più contemplato il ritiro di IDF dalle posizioni conquistate. Con l'approvazione dei paesi arabi, condizione richiesta da Israele, le armi tacquero sul Canale. Un Nasser senza più esercito annunciò alla nazione in lutto la sconfitta e la sua intenzione di dimettersi, ma la folla, un po' per genuino affetto, un po' forse per timore di un salto nel buio in un'ora così triste lo acclamò come fosse il vincitore e il presidente decise di restare al suo posto.

Il nemico più temuto da Israele era in ginocchio, con un'avanzata fulminea, l'intero esercito del Cairo era crollato, perdendo tutto l'equipaggiamento e tutta la penisola del Sinai, con i suoi importantissimi aeroporti, gli stretti di Tiran erano liberi e il tutto in soli quattro giorni. La tattica sovietica dello Scudo e della Spada non aveva retto, poiché essa implicava un continuo e ininterrotto velo difensivo, che avrebbe assorbito l'urto dell'attacco, per scattare poi all'offensiva, ma lo schieramento egiziano presentava fin troppi varchi fra le varie brigate, varchi che furono sfruttati al meglio dalla penetrazione delle forza corazzate israeliane.

La lotta per Gerusalemme

Gerusalemme era stata uno dei grandi quesiti che la guerra del 1948-49, aveva lasciato insoluto. La città oggetto e teatro di una furibonda battaglia, durata praticamente per tutta la guerra, aveva una valenza simbolica, prima ancora che militare. Gerusalemme è situata sulle colline agli inizi del deserto di Giudea, che gradualmente discende verso la Valle del Mar Morto. Il nucleo abitativo era sempre la Città Vecchia racchiusa entro le mura fatte erigere da Solimano il Magnifico. A suo esterno si stendevano i nuovi quartieri, perlopiù disordinati e sparpagliati, sorti intorno al Russian Compound, uno dei primi agglomerati extra-muros. La Città Vecchia, autentico museo di storia all'aperto, è un dedalo inestricabile di viuzze tortuose, cortili e piazzette che hanno mantenuto la fisionomia medioevale, se non addirittura romana (sono ancora ben visibili cardo e decumano).

La città vecchia e composta da quattro quartieri, quasi tutti confinanti l'uno con l'altro: dalla Porta di Jaffa, verso la Porta d'Oro si incontrano: il quartiere Armeno, quello Cristiano, il rione Ebraico e quello Musulmano. E' superfluo qui menzionare tutta l'importanza che anche le pietre hanno a Gerusalemme, basterà ricordare solo, tanto per comprendere la valenza della città per i contendenti e capire la ferocia dei combattimenti, che il luogo più sacro agli ebrei è il cosiddetto Muro del Pianto, o più propriamente Muro Occidentale o Kotel; ultimo resto del mitico Secondo Tempio. Esso è una delle mura portanti dell'Haram as Sharif, La Spianata delle Moschee, ampio piazzale che sovrasta la zona ovest di Gerusalemme, sede della Moschea di Al Aqsa e della Moschea di Omar. In questo luogo, secondo la tradizione islamica, Muhammad vi compì un viaggio fantastico, il miraj e ciò fa di Gerusalemme la terza città sacra dell'Islam, dopo La Mecca e Medina. La spianata sovrasta l'ampio piazzale del Muro Occidentale e ciò basta a comprendere a quale contatto vivano le tensioni nella Città Santa.

Nel 1949, gli israeliani riuscirono, dopo vari tentativi a rompere l'accerchiamento di Gerusalemme e a portare soccorso alla popolazione assediata, occuparono la parte ovest, cioè la città nuova, ma i difensori dentro le mura, dovettero soccombere per mano della addestratissima Legione Araba giordana, che pagò un alto tributo di sangue per la difesa della città.

L'armistizio lasciò quindi Gerusalemme divisa in due, con la parte vecchia, ivi compreso il Muro Occidentale in mano giordana e i nuovi quartieri controllati dagli ebrei. Il filo spinato e munite posizioni difensive da ambo le parti rendevano la Città Santa una sorta di Berlino del Medio Oriente e quel che è peggio, con entrambe le parti desiderose di sistemare definitivamente lo status della città, che divenne intanto la capitale di Israele, anche se non riconosciuta dalla maggior parte degli stati.

Nel 1967, re Hussein, fu trascinato controvoglia e, come abbiamo visto, anche con l'inganno alla guerra contro Israele. E' stato affermato che Hussein commise due grandi errori durante il suo regno: il primo aver dichiarato guerra a Israele nel 1967, il secondo non averlo fatto nel 1973.

A difendere la città erano schierate nove brigate: sette di fanteria e due corazzate, tra cui spiccava quella chiamata con l'evocativo nome di Brigata Hattin, mentre Israele lanciò nell'offensiva un numero abbastanza ristretto di truppe, a causa dell'ampiezza dei fronti su cui doveva combattere; in particolare basti pensare che quasi tutti i modernissimi carri Centurion erano appannaggio delle UGDAH del Sinai, mentre nella Cisgiordania furono usati i vecchi Sherman!

Le ostilità iniziarono con il bombardamento da parte dei Long Tom da 155mm giordani sui quartieri esterni di Tel Aviv e l'aeroporto di Lod, quasi come risposta all'appello del primo Ministro israeliano Eshkol che lo invitava a non entrare in guerra, poiché Israele non aveva intenzioni bellicose verso la Giordania. L'esercito di Amman, secondo gli accordi del 30 maggio, era sotto gli ordini del generale egiziano Riad, che lo aveva dispiegato a difesa dell'intero perimetro della Cisgiordania, da Jenin a Hebron. Temibili erano le postazioni nei pressi di Latrun, dove si erano già infranti gli sforzi israeliani nel 1948. La brigata stanziata a Latrun, teneva sotto controllo l'importantissima arteria verso Gerusalemme, difesa a sua volta da due altre brigate.

Anche se rinforzate da altre unità miste arabe irachene e saudite, questo schieramento aveva un enorme difetto: non aveva profondità, era in sostanza un velo a copertura del fronte, ma del tutto esposto a implodere in caso di sfondamento, poiché scarseggiava di truppe di riserva. L'atteggiamento, anche a causa del terreno favorevole su cui i Giordani erano attestati, doveva essere prevalentemente difensivo, ma ad Amman si discuteva di piccole offensive verso la costa e contro le posizioni israeliane a Gerusalemme. Infine era previsto l'arrivo di forze corazzate irachene, cosa che preoccupava non poco lo stesso Hussein: l'idea di avere così tanti soldati di altri stati, potenzialmente pericolosi per il suo traballante regno, non faceva che aumentare la sua riluttanza all'impresa bellica.

Il comando delle truppe ebraiche era affidato al generale Uzi Narkiss, che con quattro brigate, di cui solo una corazzata, aveva il gravoso compito di difendere Gerusalemme, evitare il suo isolamento e controllare la Giudea: alle sue spalle poteva contare su una riserva di due brigate, una corazzata, l'altra meccanizzata. Il piano consisteva innanzi tutto a evitare la temuta offensiva araba verso la città costiera di Netanya che avrebbe diviso in due il paese e poi a dirigere l'attacco contro Latrun e Jenin, in primis per poter controllare la strada per Gerusalemme e in secondo luogo per circondare le forze giordane una volta ricongiunte le forze dalle due direttrici nei pressi di Nablus ed eliminare così il saliente cisgiordano.

Come detto, i Giordani iniziarono le ostilità con un bombardamento sulle posizioni israeliane e con un attacco ai rioni ebraici di Gerusalemme, investendo per primo la zona del Monte Scopus, che domina la capitale e che ospita la sede dell'Università Ebraica. Il generale Narkiss, contrattaccò, forte dell'appoggio dell'aviazione, che aveva, come detto, subito attaccato gli aeroporti di Amman, distruggendo i velivoli al suolo; la forza di terra israeliana ricordiamo, era a ranghi ridotti, poiché la maggior parte delle unità era schierata sul Sinai e verso il Golan. Gli attacchi giordani furono facilmente respinti e la sera del primo giorno di battaglie, vide l'esercito israeliano incuneato fra Gerusalemme e la brigata di fanteria giordana della Giudea; stava ripetendosi al contrario la situazione del 1948, quando le forze arabe avevano circondato la Città Santa, chiudendo le vie di accesso alle truppe israeliane. La forza corazzata irachena e alcuni battaglioni palestinesi furono spazzati via dagli attacchi aerei e non riuscirono nemmeno a raggiungere i sobborghi della città contesa.

Dopo l'azione di contenimento, Israele passò all'attacco decisivo, anche su questo delicato fronte: le unità corazzate giordane di stanza a Gerico, pronte a rinforzare il corridoio di Gerusalemme, furono sbaragliate dall'implacabile aviazione israeliana, padrona incontrastata dei cieli. Forte di questa situazione, la brigata corazzata Harel al comando del generale Uri Ben Ari, investì la zona di Ramallah, mentre anche il cruciale nodo di Latrun fu teatro dell'attacco vittorioso della fanteria; la lotta per il controllo del corridoio di Gerusalemme, stava giungendo al termine. Con i carri israeliani che avanzavano sulla strada fra Gerusalemme e Ramallah, manovra che bloccò la 60ª brigata corazzata giordana nella capitale, il comando supremo israeliano lanciò nella mischia la 55ª brigata paracadutisti del colonnello Mordechai Gur, trasferita dal fronte egiziano. Questa unità d'elite attaccò le postazioni giordane a nord di Gerusalemme; divampò un furibondo combattimento, durante il quale il 66º reggimento paracadutisti, pagando un alto prezzo di sangue, conquistò la strategica Collina delle Munizioni, strappandola dopo quattro ore alla Legione Araba. Fu raggiunto il Monte Scopus, mentre continuava l'opera sui fianchi dello schieramento arabo: Jenin e Nablus caddero dopo aspri scontri fra corazzati. L'eccessiva dispersione e la già citata scarsa profondità dello schieramento giordano, aveva mostrato tutti i suoi limiti e l'esercito stava già cedendo su tutta la linea.

Il passo successivo era la presa di Gerusalemme Est e della Città Vecchia, compito arduo e delicatissimo, poiché gli Israeliani non volevano usare artiglieria e aviazione, per timore di danneggiare i luoghi santi. Nella mattinata del 7 giugno, il colonnello Gur riprese l'attacco ed entrò nel perimetro delle mura di Solimano dalla Porta dei Leoni (o di Santo Stefano) e da lì, casa per casa, i paracadutisti della brigata "Yerushalaim" combatterono, avanzando verso la zona del Kotel, lottando contro i cecchini e le truppe giordane che contesero il terreno metro per metro. Quando alla fine la Città Vecchia cadde, per la prima volta dopo duemila anni, gli ebrei poterono controllare il loro luogo più sacro. Mentre anche Betlemme ed Hebron si arrendevano a Tzahal, le forze provenienti da Ramallah si congiunsero con le altre e anche Gerico cadde, senza combattimenti. Alle 20 dello stesso giorno, un pallido re Hussein accettò la fine delle ostilità e rivolse al suo popolo un drammatico appello radio, in cui annunciava la disfatta, addebitandola al fato avverso e alla potenza di fuoco dell'aviazione nemica. In un paio di giorni la dinastia hascemita aveva perduto un terzo del regno e circa la metà della popolazione era ora sotto il dominio straniero.

Dal lato dei vincitori, sono passate alla storia le immagini dei paracadutisti israeliani in lacrime di fronte al Muro Occidentale, obiettivo, forse non preventivato all'inizio delle ostilità, ma che era sarebbe diventato l'emblema stesso del trionfo israeliano e della riscossa del popolo ebraico. Tuttavia, a causa dei combattimenti casa per casa e della determinazione dei soldati giordani, Israele contò perdite altissime fra i suoi militari. Adesso era il momento di regolare i conti con il nemico più aspro: la Siria.

Il Golan

La alture del Golan dominano da un altezza di circa 700 metri il nord di Israele e sono una sorta di cuneo verso le vallate dell'alta Galilea, in particolare della regione detta il Dito della Galilea. Si tratta di un altopiano brullo, molto ripido e impervio e la sua posizione strategica la rendeva un obiettivo naturale per rendere sicura la zona. I Siriani, consci della cosa, l'avevano fortificato in profondità con casematte, bunker, ostacoli anticarro e campi minati. Ma, inspiegabilmente Damasco, non sfruttò la situazione e dall'inizio delle ostilità si era limitata a bombardare gli insediamenti e i villaggi israeliani, senza prendere l'iniziativa per attaccare, o, quantomeno per alleggerire la pressione israeliana sugli altri due alleati. Il fronte settentrionale fu l'ultimo ad aprirsi e non certo per l'azione della Siria, che ricevette l'attacco israeliano, quando ormai le armi avevano già taciuto sugli altri settori della guerra.

La Siria aveva ammassato sul confine sei brigate di fanteria, la metà delle quali con carri e semoventi T 34 e SU-100, oltre a due brigate meccanizzate forti di 250 carri e 500 pezzi di artiglieria. Una forza considerevole, ma che aveva il suo punto debole nel fattore umano: infatti se generalmente, il soldato siriano può anche essere un buon combattente, il grave limite risiedeva nell'incompetenza di molti ufficiali. Gli Israeliani contrapponevano la forza del generale Peled comprendente una brigata corazzata, una di fanteria e una meccanizzata in arrivo dal fronte della Samaria, oltre al cosiddetto Gruppo Nord di composizione simile alla prima, tutte inquadrate al comando del generale David Elazar. I timori causati dagli strettissimi rapporti fra Siriani e Sovietici, con il conseguente rischio di un coinvolgimento diretto di questi ultimi, condizionarono le operazioni verso il Golan. Queste dovevano essere, nei piani del governo israeliano, soprattutto difensive, di fronte al previsto attacco siriano verso la Galilea.

Fu la totale inerzia della Siria, restia forse a lanciarsi in una guerra già perduta dai suoi alleati, a causare l'apertura di questo terzo fronte. Di fronte alla pressione dei residenti della valle, stanchi di subire vittime a causa dei bombardamenti siriani e di alcuni membri della Knesset e dell'esercito, l'otto giugno fu deliberato di aprire le ostilità anche contro la Siria, che aveva già subito, peraltro, l'annientamento della sua aviazione.

All'alba del 9 giugno, il generale Elazar ricevuto l'ordine di attacco dallo stesso Dayan che scavalcò il Primo Ministro stesso nel prendere la decisione, aggirò le posizioni maggiormente munite dei Siriani lanciando i suoi uomini sui versanti più ripidi delle alture, pensando di cogliere così i nemici di sorpresa, evitando il facile accesso di Benot Ya'akov e dirigendosi poi verso il capoluogo del Golan, Quneitra, e verso le cittadine di Boutmia e Massada. Punta di forza dell'attacco era la brigata Golani che, dopo aver superato i pendii delle colline, attaccò le postazioni fortificate di Tel Azaziat e Tel Fakhr per aprirsi la strada verso Banias.

Dopo sanguinosi combattimento, i siriani cedettero e Tel Azaziat cadde, identica sorte che toccherà più tardi a Tel Fakhr, ma i soldati di Damasco si erano battuti con valore e solo a Tel Fakhr gli israeliani persero 22 uomini. Il generale Mandler, al comando della brigata corazzata ebraica, decise un uso poco ortodosso dei bulldozer corazzati del genio. Questi, infatti, furono usati come una sorta di apripista alle colonne corazzate di Sherman, che risalivano in fila le irte strade del Golan, sotto un fuoco di sbarramento continuo. Con la protezione dei bulldozer, i carri israeliani, che non poterono, a causa della conformazione geografica del territorio, schierarsi in attacco come sul Sinai, riuscirono comunque a conquistare, dopo aspri combattimenti la sommità delle alture e i centri di Kala e Zawara.

La penetrazione israeliana era stata per il primo giorno di circa dieci chilometri, e aveva superato di slancio la parte più difficile: la scalata dei pendii. L'esercito siriano si stava rapidamente sfaldando e vennero alla luce tutti i limiti che l'addestramento dei Sovietici aveva solo mascherato: basti pensare che, nel corso dell'attacco dei carri israeliani, alcuni consiglieri russi, rimproverarono i serventi dei cannoni, perché costoro si ostinavano a sparare sul fondovalle, verso i villaggi civili e non verso gli obiettivi militari; in molto casi, inoltre, gli ufficiali si diedero alla fuga, lasciando i soldati da soli e privi di ordini. In molti casi furono addirittura trovati artiglieri siriani legati ai cannoni per impedire loro di fuggire!

Il secondo giorno vide la caduta della zona delle sorgenti di Banias e la conquista dell'alto Monte Hermon ad opera di unità elitrasportate. La caduta di Massada grazie alla brigata Golani accelerò la fine dei combattimenti e la rotta dei Siriani fu aggravata da un clamoroso errore del loro comando. Infatti, vista la sconfitta ormai irreparabile, i generali siriani decisero di puntare sull'intervento dell'URSS, se non altro a livello diplomatico per fermare la guerra. Per far ciò non si pensò a nulla di meglio che annunciare la caduta di Quneitra, cosa assolutamente falsa, al fine di aumentare le pressioni per un cessate il fuoco. I soldati di Damasco, bloccati dal fuoco degli attaccanti, sentita la notizia e pensando di essere ormai circondati, abbandonarono le posizioni e fuggirono, trasformando la ritirata in una rotta.

Infine anche Quneitra si arrese senza resistere al generale Mandler e le forze israeliane del Gruppo Peled provenienti da sud, si ricongiunsero alle brigate del Gruppo Nord nei pressi di Boutmia: anche il Golan era caduto.
Alle 18.30 l'ONU imponeva un cessate il fuoco, accettato da ambo i contendenti: la Guerra dei Sei Giorni era finita, con la completa vittoria di Israele che, in soli sei giorni aveva sbaragliato tre eserciti e conquistato territori che avevano accresciuto la sua estensione di più della metà.

Un bilancio

Nel corso della guerra Israele perse circa 700 uomini, ebbe 2500 feriti e 17 prigionieri. E' difficile dire quante siano state le perdite dei paesi arabi, una stima si fissa sui 15.000 morti, 12.000 feriti, oltre alla distruzione, soprattutto per l'Egitto, di buona parte dell'armamento, delle forze corazzate e di tutta l'aviazione. Era stata chiaramente il trionfo della tattica basata sull'uso dell'arma corazzata e dell'aviazione usata, non in opposizione a quella nemica, ma come esclusivo appoggio all'azione delle forze di terra. Le brigate corazzate, sfruttando il proprio volume di fuoco e la mobilità, creavano delle brecce nella linea nemica e da lì iniziavano le manovre aggiranti, senza particolare cura alle linee di comunicazioni, o a tutto ciò che restava dietro di loro. La fanteria e la stessa artiglieria, tranne che sul Golan, ebbero una mera funzione di supporto all'azione dei carri. La Guerra dei Sei Giorni fu l'ultimo conflitto in cui le forze corazzate combatterono con tattiche risalenti alla Seconda Guerra Mondiale: l'unico modo per fermare un carro armato era un altro carro armato, oppure i campi minati. Lo sviluppo delle armi controcarro e dei sistemi missilistici anti-aereo resero nel breve volgere di sei anni obsoleta la micidiale tattica israeliana basata esclusivamente sull'uso in massa delle brigate corazzate e degli aerei per l'attacco al suolo.

La prima conseguenza della vittoria fu un sentimento di forza che pervase l'intera società israeliana: finalmente, forse per la prima volta, il paese si sentì sicuro e invincibile. Gli enormi guadagni territoriali, l'aumentata profondità strategica, l'illimitata fiducia verso il suo esercito, non era però lo specchio reale della situazione. La vittoria non aveva risolto in alcun modo il nodo della questione medio orientale; i paesi arabi svilupparono un senso di rivincita, figlio dell'umiliazione subita che non conoscerà tregua. In più, da un punto di vista strategico, Israele, si rinchiuse nei propri confini, fortificandosi e illudendosi, proprio come fece la Francia fra le due guerre, che la sicurezza stesse nel trincerarsi e confidando nel proprio prestigio militare. Lungo il confine del Sinai, sul canale, fu costruita una lunga linea di difesa, ritenuta invalicabile, composta da postazioni fortificate e fortini, che prese il nome dal suo ideatore, il generale Bar Lev. Sul Golan le difese siriane furono demolite e ne vennero costruite altre rivolte questa volta verso nord, mentre sul monte Hermon, furono eretti posti di osservazione e posizionati radar. A Gerusalemme, fu abbattuto il muro che aveva diviso la città fin dal 1949 e ricostruito il vecchio quartiere ebraico intorno al Kotel, andato distrutto nella Guerra d'Indipendenza.

Ma l'Egitto, di lì a poco avrebbe scatenato una lunga e sanguinosa guerra di attrito lungo il canale che si trascinerà per anni e causerà perdite considerevoli da ambo le parti; fu questa la cosiddetta "Guerra Dimenticata", che fu molto di più di una serie di scaramucce di confine. I paesi arabi si riarmarono e migliorarono l'addestramento delle armi tecniche, compresero gli errori e studiarono i punti deboli dell'avversario, analizzarono la sua potenza e pensarono a come colpirla. I Sovietici fornirono loro la tecnologia per contrastare l'aviazione e le armi per fermare i carri armati. Israele alle prese con il doloroso problema del terrorismo e cullandosi sugli allori del trionfo conseguito, sottostimò il pericolo incombente e non adeguò le sue tattiche di combattimento: il conto gli sarebbe stato presentato nel 1973, il giorno di Yom Kippur.

La guerra, al di là del risultato prettamente militare lasciò molti interrogativi aperti riguardanti lo status che Israele avrebbe dato ai territori conquistati: il Sinai, la Cisgiordania, il Golan e Gerusalemme; la soluzione del problema dei profughi palestinesi, drammaticamente peggiorato all'indomani della fine del conflitto e la reazione del mondo arabo a questa nuova disfatta per opera del loro peggior nemico. Alcuni di questi problemi sono tuttora dolorosamente aperti, altri sono stati superati con gli eventi successivi, ma in questi ultimi anni, quando dalla cronaca, la Guerra dei Sei Giorni è entrata nella storia, nuove domande si sono poste, ma, a volte, proprio per l'impatto emotivo, che la questione medio orientale ha sulle coscienze impedisce una visione critica di quei fatti.

Israele, da stato in lotta per la propria sopravvivenza, che godeva di una grande simpatia nel resto del mondo, vide cambiare quasi di colpo questo atteggiamento, all'indomani della folgorante vittoria del 1967. L'identificazione potenza militare-militarismo-Israele, divenne un classico della visione delle politiche estere nel corso dei successivi 25 anni. Al di là di ogni considerazione, mi sembra si debba comunque ricordare che non si può giudicare Israele che resta, comunque un paese in guerra, con i criteri che useremmo per giudicare uno stato che vive in pace e molte scelte compiute furono dettate dall'angoscia che una pluridecennale mancanza di sicurezza ha scavato nella coscienza di quel popolo.

Negli ultimi anni, alcuni nuovi storici israeliani, stanno rivisitando e studiando sotto altre prospettive, i fatti salienti della storia del loro paese; i loro lavori suscitano a volte clamori e proteste e anche un mito fondante dello stato, come la guerra lampo del 1967, ha conosciuto nuove interpretazioni, che aggiungono domande alle tante già senza risposta. Al di là di tutto,la Guerra dei Sei Giorni, estrapolata dal suo tragico contesto, resta comunque una delle vittorie più eclatanti della storia militare del XX secolo.
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