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Hutu e Tutsi. Una tragedia africana
di Emilio Bonaiti ©
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Indice:
LA REGIONE DEI GRANDI LAGHI


E' accaduto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire.
Può accadere, e dappertutto.
Primo Levi.

Le monarchie - La Conferenza internazionale di Berlino - La Chiesa cattolica - Le Nazioni Unite - Le etnie - Il risveglio dell'Africa

La regione africana dei Grandi Laghi è formata dal Congo, terzo paese africano per estensione, che aveva assunto il nome di Zaire dal 1977 al 1997, dalla Tanzania, dall'Uganda e da due tra i più piccoli Stati dell'Africa, il Ruanda e il Burundi. Entrambi erano retti da monarchi assoluti, i Mwami, di origine divina, che, nel tempo, furono costretti a collaborare con i colonialisti tedeschi prima e con i belgi dopo.

Per il periodo interessato nel Burundi si succedettero dal 1852 al 1908 Mwezi IV Gisabo, Mutaga IV sino al 1915, Mwambutsa II detronizzato nel 1966 e Ntare III Ndizeye assassinato nel 1972. In Ruanda Yuhi V Musinga dal 1896 al 1931, seguito da Mutara III Rudahigwa sino al 1959 e Kigeri V Ndahindurwa che regnò fino al 1961 data della proclamazione della repubblica.

Il 15 novembre 1884 si aprì a Berlino la Conferenza internazionale per "la definizione di formalità da rispettare nelle nuove prese di possesso sulle coste africane". Si chiuse il 26 febbraio 1885 dopo dieci sedute per un numero complessivo di 25 ore. Voluta da Bismarck, il cancelliere che credeva "nel ferro e nel sangue", divenne il simbolo della spartizione dell'Africa ma, in effetti, si limitò alla spartizione tra le grandi potenze europee del Congo e delle regioni che vi gravitavano intorno. Fu Leopoldo I a farsi assegnare sotto la formula dello Stato Libero il Congo inserendosi con abile diplomazia tra le grandi potenze. La regione fu spartita a colpi di righello quando, disse Bismarck, era estremamente facile: "entrare in possesso di un pezzo di carta firmato da un negro con una croce". Lord Salisbury aggiunse: "Ci siamo dati l'un l'altro montagne e fiumi e laghi, con il piccolo inconveniente che non sapevamo mai con precisione dove fossero quelle montagne, quei fiumi e quei laghi". A posteriori si accertò che spesso montagne, fiumi e laghi non esistevano.

Nel 1896 la Germania, alla quale erano stati assegnati il Ruanda e l'allora Urundi, li unì in una sola entità incorporandoli nella Deutsch Ostafrika sino alla prima guerra mondiale quando, nel giugno 1916, furono invasi da truppe belghe al comando del generale Tombeur cui i Tedeschi si arresero il 18 settembre dello stesso anno. Uno dei primi provvedimenti del governo tedesco fu l'abolizione della schiavitù con una legge dell'agosto 1895, legge confermata dall'amministrazione belga il 22 novembre 1921.

Il Consiglio Supremo Interalleato il 21 agosto 1919 li assegnò al Belgio con la formula del mandato, successivamente ribadito dal Consiglio della Società delle Nazioni del 2 luglio 1922 con la raccomandazione di inserire gradualmente gli indigeni nella vita pubblica. I colonizzatori applicarono una amministrazione indiretta con capi locali che fungevano da intermediari con le popolazioni, appoggiandosi alle tradizionali strutture sociali imperniate su una minoranza di funzionari, proprietari terrieri, professionisti e intellettuali a stragrande maggioranza tutsi. Avevano un potente appoggio nella Chiesa cattolica le cui prime missioni furono fondate nel Burundi a Mujaga e Mugera nel 1898 e nel Ruanda a Save Zaza e Nyundo nel 1900 ad opera dei Padri Bianchi.

Era stato il cardinale Charles Martial Allemand Lavigerie, all'epoca arcivescovo di Algeri, a fondare nel 1868 la Società dei Missionari d'Africa detta dei Padri Bianchi. Caratterizzati da un fez rosso, un saio e un ampio mantello di colore bianco, con al collo un rosaio e il mento ornato da una fluente barba, si erano sparsi da Algeri in tutta l'Africa. La loro regola dettava che "In nessun caso e per nessun pretesto i missionari non possano essere meno di tre in ogni residenza". Nel Burundi arrivarono nel luglio 1879 ma a Rumonge, sulle rive del lago Tanganika, il 4 maggio 1881 due di loro furono massacrati e sino al 1896 inutili furono i tentativi di rimettere piede nel paese. In seguito tra il 1898 e il 1912 fondarono sei stazioni missionarie tra la larvata ostilità di molti indigeni.

La religione cattolica predominante, solo il 35% praticava culti animistici, era stata favorita dalle tradizioni monoteistiche delle popolazioni, dall'assenza dell'Islam e dall'appoggio dell'autorità belga, che aveva favorito la costituzione, ad opera dei missionari, di una vasta rete di missioni e scuole. Nel 1912 sarà nominato il primo vicario apostolico per i due paesi, mentre il tutsi Bigirumwami sarà il quarto vescovo africano. Nel 1947 il mwami Mutaga, convertitosi al cattolicesimo, consacrerà il Ruanda a Cristo Re.

Secondo La Civiltà Cattolica, organo della Compagnia di Gesù, nel 1910 i cattolici erano 6000, 35.000 nel 1920, 150.000 nel 1930, 2 milioni nel 1960 con 400.000 catecumeni. Dei due paesi scriveva nel 1964: "Che il Signore continui a benedire questa magnifica fioritura e conceda ai due novelli Stati quella pace e concordia interiore, che è condizione essenziale di ogni progresso civile e religioso".

Con la Carta delle Nazioni Unite, firmata a San Francisco il 26 giugno 1946, il Consiglio di Amministrazione Fiduciaria sostituì la Commissione Permanente dei Mandati. Nel 1962 i due paesi divennero indipendenti. Nel Ruanda e nel Burundi, che fino agli anni sessanta era chiamato Urundi, convivevano tre etnie oggi chiamate Hutu, Tutsi e Twa. Più esattamente i primi di razza Bantu si chiamavano Muhutu al singolare e Bahutu al plurale, i secondi Mututzu al singolare e Batutzu al plurale. Gli Hutu alla fine degli anni cinquanta erano circa l'85%, i Tutsi il 14 e i Twa l'1%. Le tre etnie convivevano da secoli sullo stesso territorio e avevano in comune la lingua, il kirundi in Burundi e il kinyarwanda in Ruanda.

Gli Hutu di aspetto tarchiato, con un'altezza media di 1 metro e 66 erano contadini di razza Bantu e si cibavano prevalentemente di cereali e fagioli. I Tutsi, di razza camitica, con un colorito della pelle molto più chiaro degli Hutu, erano arrivati alla fine del XV secolo provenienti dall'Etiopia. Si erano stabiliti nei due paesi pacificamente, importando le loro tradizioni, costumi e strutture, imponendosi come classe dominante ed eliminando la conflittualità esistente tra i capi hutu. Le loro usanze, in gran parte di origine religiosa, li obbligavano a conservare il latte in recipienti in legno, mai in ferro, che andavano puliti con le urine e gli escrementi dei bovini, a non cuocerlo perché l'operazione sarebbe stata letale per le mucche, a usare burro rancido come unguento, a vietare alle donne di occuparsi del bestiame. Guerrieri e pastori con grandi mandrie di bovini dalle caratteristiche lunghe corna, un proverbio recitava: "nulla è al di sopra della vacca", spregiatori di ogni lavoro manuale, si nutrivano prevalentemente del sangue e del latte dei bovini. Scherzosamente si sosteneva che le donne tutsi non sapevano cucinare perché i loro uomini non amavano mangiare. Alti, slanciati, con lineamenti aquilini, di bell'aspetto, secondo Giorgio Gualco: "una delle genti più belle e aristocratiche dell'Africa", espressione che oggi farebbe inorridire gli antropologi, veniva loro riconosciuto una vivace intelligenza e capacità organizzative. Il loro "fascino" resisté nel tempo tanto che nel 1971 sulla rivista Africa dei Padri Bianchi nella didascalia di una illustrazione rappresentante un Tutsi si leggeva: "Uomo di razza tutsi, alto, fiero, intelligente, impenetrabile". Costituivano la maggior parte della nobiltà, dei quadri dell'esercito, dei funzionari governativi e degli allevatori ed a loro le autorità coloniali tedesche e belghe affidavano gli impieghi e gli incarichi governativi più gratificanti, mentre gli Hutu venivano discriminati, ingenerando in loro il timore che anche dopo l'indipendenza le gerarchie e i privilegi non sarebbero cambiati.

I rapporti tra le due etnie, un classico esempio di doppio colonialismo, erano caratterizzati da un sentimento di superiorità naturale dei Tutsi al quale si accompagnava una sudditanza psicologica, un complesso di inferiorità degli Hutu, il tutto complicato da una situazione di sfruttamento della minoranza sulla maggioranza in una situazione politico-economica estremamente complicata che creava una miscela pronta ad esplodere.

I Twa di razza pigmea, chiamati anche Batwa, primi abitanti del paese, avevano un'altezza media di 1 metro e 55. Considerati "sottouomini" con i quali era esclusa qualsiasi integrazione sociale costituivano una esigua minoranza e godevano del totale dispregio delle altre etnie, aumentata dalla usanza di cibarsi di qualsiasi tipo di carne, ad esclusione dello scimpanzé e del gorilla, umoristicamente sostenevano trattarsi di Twa degenerati in bestie, mentre Hutu e Tutsi mangiavano solo carne di bovini. Gli Hutu in particolare li stimavano meno dei cani, non rifiutavano loro l'acqua, ma si affrettavano a rompere il bicchiere subito dopo. Normale era l'espressione "Ci sono fuori cinque uomini e tre pigmei". Vasai, cantanti, indovini, stregoni, incaricati dei lavori più umili, nei loro confronti esisteva un inspiegabile "rispetto" provocato dal timore che la loro uccisione avrebbe provocato le ire degli spiriti maligni.

Schematizzando la tripartizione razziale si può sostenere che i Tutsi costituivano l'aristocrazia del paese, gli Hutu il popolo e i Twa i paria. L'istituzione che meglio evidenziava la natura dei rapporti tra i Tutsi e gli Hutu era "l'ubuhake", un contratto feudale che si compendiava nell'usufrutto e non nella proprietà del bestiame concesso ai contadini hutu e che si trasmetteva ai figli. In cambio, questi si obbligavano a una serie di servizi come la cura delle piantagioni, il mantenimento a turno della mandria del padrone, nel seguirlo nei suoi viaggi, in uno stato di profonda subordinazione che ben veniva evidenziata in una commedia dello scrittore ruandese Naigiziki. "Ne ho abbastanza dell'ubuhake, […] un contratto senza scadenza […] Che ereditiamo dai nostri padri e trasmettiamo ai nostri figli. Che idiozia! […] E fino a quando aspetteremo che vengano regolate tante ingiustizie? Quando il muhutu non avrà più un animo da servo; ma per questo bisogna crearlo per una seconda volta". La discriminazione si estendeva anche alla scuola. Nel 1922 le scuole elementari avevano 367 allievi tutti tutsi, nel 1954 in un istituto superiore di Butare vi erano 63 Tutsi e 3 Hutu.

Il processo di decolonizzazione e l'indipendenza avanzano inesorabili in Africa, la grande terra del Sole come la definisce una vecchia canzone shwaili, in un tripudio di speranze e di sogni. All'Etiopia, all'Egitto, alla Liberia e all'Unione del Sudafrica, nazioni indipendenti alla fine del secondo conflitto mondiale, si aggiungono la Libia nel 1951, il Sudan, il Marocco e la Tunisia nel 1956, il Ghana nel 1957, la Guinea ex francese nel 1958. L'indipendenza per il Ruanda e il Burundi fu l'elemento scatenante di una lunga stagione di eccidi imperniati sulla eliminazione fisica del "diverso". Un accordo per la riunificazione dei due paesi fu tentato alla conferenza dell'aprile 1962 a Addis Abeba, ma fallì completamente. Lo stesso presidente della Commissione dell'ONU per il Ruanda-Burundi l'haitiano Max Dorsinville riconobbe l'impossibilità dell'unione. Della stessa opinione fu uno dei più prestigiosi dirigenti del socialismo europeo, il belga Paul Henri Spaak.

Ambizioni e volontà di potere delle due classi dirigenti nelle quali le formazioni estremiste e razziste avevano un grande impatto, creavano un abisso tra le due comunità, ognuna delle quali si avviò al suo sanguinoso destino. Unico, modesto risultato fu un accordo economico-finanziario. Il dramma della transizione alla indipendenza, nella reciproca intolleranza, cominciava e non è ancora finito.

BURUNDI


Chi vuole uccidere il suo cane lo accusa di rabbia
(Proverbio del Burundi)

La lotta per il potere - Il colpo di Stato - La repressione - La repubblica - Il partito unico - I complotti - La Chiesa cattolica - Il neocolonialismo - I complotti continuano - L'assassinio dell'ex re - La rivolta hutu - Il travaglio della Chiesa cattolica - La Polonia di Wyszynski - Il Libro Bianco del governo - La Conferenza O.U.A. - La caduta di Micombero - La vittoria degli Hutu - La Comunità di Sant'Egidio - La tragedia continua.

La repubblica del Burundi, sino all'indipendenza chiamato Urundi, con capitale Bujumbura, già Usumbura, fondata dai Tedeschi alla fine del XIX secolo, aveva nel 1999 una popolazione di circa 6.825.000 abitanti, di cui il 46% da zero a 14 anni, su una superficie di 27.830 chilometri quadrati, poco più della Sicilia. L'altitudine media molto elevata é di 1800 metri. Il paese poverissimo, mancante di risorse naturali, con un tasso di crescita del 2,18%, ha un'economia agricola al limite della sussistenza e una densità di 250 abitanti per chilometro quadrato, che lo poneva nel 2000 al secondo posto fra i paesi africani.

Nel 1959 nascono i primi due partiti politici in un clima di forti tensioni che sfoceranno presto in massacri. A giugno l'U.N.A.R.U. (Union Nationale Africaine du Rwanda-Urundi) per il quale si può sintetizzare il programma in "Lotta per l'emancipazione dei Bami dall'autorità tutelare, fissazione d'elezioni sotto il controllo dell'ONU per il mese di marzo 1960, autonomia interna per la stessa data e indipendenza a breve termine".

A settembre sotto la guida di Louis Rwagasore, figlio del Mwami Mwambutsa II, nasce l'U.PRO.NA. (Union du progrès national du Burundi), nazionalista e monarchico, che riuniva esponenti delle due etnie. Il programma era suggestivo. Democrazia e giustizia, lotta alla intolleranza e alla discriminazione sociale, religiosa o di razza. Nell'agosto-settembre 1960 si svolsero a Bruxelles colloqui per l'avvenire del paese. Si fissano le elezioni comunali a novembre e si profila lo scontro tra l'Uprona, il cui fondatore il principe Rwagasore è posto in residenza sorvegliata per ordine del Residente Generale "a seguito della sua attività politica giudicata un pericolo per l'ordine pubblico durante il periodo elettorale" e il Fronte Comune formato dal P.D.C. (Parti Démocrate Chrétien), P.D.R (Parti Démocrate Rural), M.P.B. (Mouvement Progressiste du Burundi), V.P.M. (Voix du Peuple Murundi), P.P. (Parti du Peuple). La vittoria andò al Parti Démocrate Chrétien che raccolse il 32% dei voti contro il 18% dell'Uprona, il 17% del Parti Démocrate Rural, il 7% del Parti du Peuple, il 7% di partiti hutu, il 19% andò ad altre formazioni o a candidati individuali. Astensioni e voti nulli furono notevoli. L'Assemblea legislativa fu eletta dai consigli comunali, nonostante i rilievi dell'O.N.U. che fissò le elezioni politiche per il 18 settembre 1961. Si svolsero in una relativa calma, la vittoria dell'Uprona è schiacciante, conquista 58 seggi mentre al Fronte Comune né vanno sei.

Il principe Louis Rwagasore eletto primo ministro viene assassinato in un ristorante ad opera del suddito greco Jean Karageorgis il 13 ottobre 1961. Le cause della morte rimasero misteriose, la Commissione di inchiesta non riuscì a stabilire se era stata determinata da motivi politici, personali o familiari. Sarà uno dei tanti omicidi che insieme a morti misteriose punteggeranno la vita dei due paesi. L'assemblea legislativa elesse primo ministro André Muhirwa, genero del Mwami il quale chiese la presenza dell'esercito belga "per assicurare la sicurezza del mwami, della sua famiglia, del governo, del presidente e del vicepresidente dell'Assemblea legislativa". Instaura un clima di intensa collaborazione con l'Amministrazione fiduciaria che si riservò la Difesa, gli Esteri e le Finanze, nell'attesa che il trasferimento dei poteri fosse decretato dall'ONU. Il 26 giugno 1962 l'ONU proclama la fine dell'amministrazione fiduciaria belga e il primo luglio scocca l'ora dell'indipendenza.

Il re tentò di avviare una politica d'equilibrio verso le grandi potenze, alternando primi ministri delle due etnie. L'edificio cominciò a scricchiolare quando il presidente onorario dell'Uprona Paul Mirerekano di etnia hutu costituì un gruppo di opposizione cui aderì una parte dei partiti e dell'Assemblea. Sinistri si annunciavano i primi sintomi della divisione razziale del paese. Si susseguirono fino al giugno 1963 il principe André Muhirwa, poi dal giugno 1963 al marzo 1964 Pierre Ngendandumwe hutu, già vice primo ministro dei governi Rwagasore e Muhirwa, che tentò di ricomporre i rapporti tra le due etnie. Deciso anticolonialista, ruppe i rapporti con il Portogallo e il Sudafrica, adottando una politica di equidistanza fra i due blocchi.

Dall'aprile 1964 e sino al dicembre 1964 fu a sua volta sostituito dal tutsi Albin Nyamoya, ma il sette gennaio 1965 ritornò al potere per essere assassinato il 15 gennaio a Bujumbura da un tutsi rifugiato ruandese che lavorava presso l'ambasciata americana. Sulle cause del delitto si parlò di rivalità fra i due politici o dell'adesione e dell'appoggio che Ngendandumwe stava dando ai movimenti contro Ciombe nel vicino Congo, paese in perenne rivolta. Il nuovo primo ministro Joseph Bamina, presidente dell'Uprona, nominato il 25 gennaio, invitava perentoriamente l'ambasciatore cinese a lasciare il Burundi entro 48 ore.

L'ambasciata, dodicesima in Africa, era stata aperta all'inizio dell'anno. Ciu En-lai, primo ministro della Repubblica Popolare di Cina, aveva proclamato: "[…] si è grandemente arricchita la nostra conoscenza e si è molto irrobustito il cameratismo d'armi tra il popolo cinese e i popoli africani. L'avvenire rivoluzionario si presenta eccellente". Meno "eccellente" era l'avvenire del Tibet invaso nell'ottobre 1950 e reintegrato nella Repubblica Popolare Cinese il 23 maggio 1951. Il forte malcontento delle popolazioni scatenò nel marzo 1959 la rivolta sedata con durezza dalle truppe d'occupazione. La rivolta, secondo radio Pechino, era stata provocata da "alcuni membri del governo locale di Lhasa ed alcuni ambienti reazionari, d'accordo con gli imperialisti […] Il governo di Pechino ha deciso lo scioglimento a partire dal 20 marzo del governo locale".

L'afflusso nel paese di migliaia di profughi dal vicino Ruanda, dove gli Hutu avevano preso il potere, aumentò la radicalizzazione dei contrasti fra le due etnie all'interno dell'Uprona. Il leader hutu Mirerekano fugge in Ruanda nel maggio 1964, mentre la situazione diventa sempre più pesante anche alla luce dei massacri che avvengono in quel paese nel Natale dello stesso anno. Seguirono scontri fra gruppi di opposte tendenze, il re, alla ricerca di maggiori poteri, sciolse l'Assemblea e indisse nuove elezioni per il 10 maggio. La contesa aveva ormai perduto il suo carattere di adesione ai due schieramenti internazionali e si era trasformata in una lotta tra le due etnie. Il dato più caratterizzante è che i 2/3 dei deputati sono Hutu e Gervais Nyangoma hutu è primo ministro.

A settembre il re forma un nuovo ministero con sette ministri hutu su 12 con a capo Leopold Bihumugani, detto Biha, suo parente e segretario. Ha lucidamente afferrato la precarietà di un'inefficiente democrazia di tipo europeo, vuole riaffermare il suo potere assoluto incentrato sul millenario motto "Ganza Sabwa" (regna e governa) e comincia col ridurre il numero dei comuni da 171 a 78 avocando a se la nomina dei borgomastri. Nella notte tra il 18 e il 19 ottobre 1965 il segretario di Stato alla gendarmeria Antoine Seruwavu, alla testa di un gruppo di ufficiali hutu, attacca il palazzo reale, è gravemente ferito Bihumugani ma il re riesce a fuggire. Segue una rivolta degli Hutu nella provincia di Muramvya al centro del paese, che porta a massacri di Tutsi, accusati di avere ucciso il re.

La repressione è feroce, dettata anche dalla paura di quanto successo nel Ruanda; migliaia di arrestati, centinaia di morti, esecuzioni di 80 personalità hutu, tra cui Gervais Nyangoma, Emile Bucumi presidente dell'Assemblea Nazionale, Paul Mirerekano e Patrice Mayondo vicepresidenti, Paul Nibirantiza presidente del Parti du Peuple, Joseph Bamina ex primo ministro e presidente del Senato, Ignace Ndymanya e Silvestre Karibwami vicepresidenti, Bernard Niyirikana presidente dei Sindacati Cristiani e degli ufficiali e soldati che hanno partecipato al golpe. Si ha una cura particolare nell'assassinare gli studenti hutu di ogni ordine, con liste preparate con grande anticipo. Veementi accuse furono lanciate contro gli Stati Uniti e il Belgio che avrebbero organizzato il complotto. I militari e la Commissione reale investiti del potere lo cedettero il 20 novembre a Leopold Bihumugani. Ormai la monarchia vacillava, il rifiuto del re di rinunciare alle sue prerogative portò alla sua detronizzazione l'8 luglio 1966 ad opera del figlio diciannovenne Charles Ndizeye, aiutato dal capitano Micombero, promossosi colonnello. Uomo forte del regime, con un nuovo colpo di stato, mentre il sovrano era in visita ufficiale nel Congo lo depose, avendone le felicitazioni del governo ruandese, mentre il pittoresco Ciombe definì "scortese" il momento scelto. Il maresciallo Enrico Caviglia, una delle menti più lucide dell'establishment militare italiano fra i due conflitti mondiali, sosteneva che: "In tutte le rivoluzioni vi è sempre un imbecille di principe il quale crede che i rivoluzionari lavorino per lui". (1)

Il 28 novembre 1966 nasce la repubblica con l'Uprona promosso partito unico dal 23 novembre e un governo composto da militari che assume il nome di C.N.R. (Comitato Nazionale Rivoluzionario). Del partito Micombero, in un discorso per il primo anniversario della rivoluzione preciserà gli obiettivi "L'Uprona sarà il punto di partenza e di sbocco di tutte le nostre istituzioni sia governative sia giudiziarie e militari. Esso potrà […] ispirare e dirigere la politica interna ed estera del Burundi conformemente alla volontà e alla aspirazione del popolo di cui è lo strumento politico". La gioventù fu organizzata nella J.R.R (Jeunesse Révolutionnaire Rwagasore), i sindacati nell'U.T.B. (Union des Travailleurs Burundi), i movimenti femminili nell'U.F.B. (Union des Femmes du Burundi), tutti sotto la direzione del partito. La formula del partito unico avrà una grande diffusione nel continente africano, accompagnata immancabilmente dall'assenza di un dibattito interno, da un diffuso sviluppo della corruzione, dalla mancanza di capaci quadri per creare una società nuova.

Nello stesso periodo l'instabile situazione politica del continente è punteggiata da colpi di stato. Nel solo 1966 si verificarono nella Repubblica Centrale Africana e nell'Alto Volta il dieci gennaio, in Nigeria il 15 gennaio e il 30 agosto, nel Ghana il 24 febbraio preceduti dal Congo ove Kasawubu fu rovesciato e sostituito dal generale Joseph Mobutu il 25 novembre dell'anno precedente. In questo clima nel 1967 il vescovo Bionda, di etnia hutu, è posto in residenza sorvegliata per avere elevato critiche nei confronti del governo. Notevoli furono gli sforzi per stemperare la situazione, la radio e i giornali del partito s'impegnarono a fondo per stigmatizzare i "fomentatori di disordini che sfruttano il cosiddetto pericolo hutu o l'apartheid tutsi". Fenomeno tipicamente africano i nuovi dirigenti sono tutti tutsi Hima, clan del sud del paese. La situazione è lucidamente tratteggiata da Martin Ndayahoze hutu, già ministro dell'Information: "E' la classe dirigente che rinfocola il virus del tribalismo. Effettivamente il male viene dall'alto. Sono quadri poco meritevoli che per mantenersi, per arrivare al potere, hanno bisogno di astuzie e di artifici. … fanno della divisione etnica una strategia politica. Se sono Tutsi denunciano un pericolo hutu, se sono Hutu un apartheid da combattere". A lui si aggiunge l'arcivescovo di Gitega, monsignor Makarakiza tutsi il quale in una lettera pastorale scriveva: "Il flagello che rischia di distruggere la società del Burundi è il problema razziale fra gli Hutu e i Tutsi; due gruppi etnici che si combattono per avere l'egemonia del paese; alcuni conflitti sociali che diventano immediatamente una lotta razziale. Il dialogo fra i due gruppi etnici diventa sempre meno possibile, e la rivolta, l'odio, la repressione ne sono il risultato".

Nella rivista Africa dei Padri Bianchi nell'anno successivo si legge invece "Da 37 anni questa regione privilegiata dell'Africa Centrale è investita da un potente soffio di grazia, senza interruzione". La vita politica si mantiene instabile. Arresti, rimpasti ministeriali, sospensioni di ministri, soppressione del Comitato Nazionale Rivoluzionario, dirigenti arrestati e rimessi in libertà a distanza di tempo con preoccupanti analogie con i "riabilitati" dell'U.R.S.S., sono nemici della Patria tutti coloro che osano criticare la dirigenza.

Nel 1969 è scoperto un nuovo complotto, tra il 16 settembre e il 22 dicembre si susseguirono arresti di congiurati veri o presunti, tutti Hutu, appartenenti all'amministrazione o alla classe militare. Micombero instaurò lo stato d'assedio. Seguono ufficialmente 23 fucilazioni di cui 19 nei confronti di militari. Tra i civili è fucilato il ministro del Piano e dell'Economia Barnabè Kanyaruguru, altri due ministri, più fortunati, ebbero i lavori forzati a vita. Sono lanciate accuse contro l'ambasciatore belga, poi ritirate.

Colpisce come, nello stesso periodo, la vita religiosa fosse fiorente. I battezzati erano nel 1969 1.500.000, circa il 65% della popolazione e 130.000 i catecumeni. La Chiesa, che in tutta l'Africa contava 31.761.000 di battezzati su un totale di 317.000.000 di abitanti, era organizzata in cinque diocesi Kitega, (o Gitega), Ngozy, Bujumbura, Muyinga, Bururi affidate rispettivamente a quattro vescovi africani mons. Makarakiza, mons. Kaburungu, mons. Ntuyahga, mons. Bihonda e a uno belga mons. Martin. I sacerdoti erano 130 aiutati da congregazioni locali. I protestanti erano 110.000 e i musulmani 25.000.

Siamo di fronte a uno dei tanti paesi del Terzo Mondo che tributa grande ammirazione ed entusiasmo per l'U.R.S.S. e la Cina ma che per sopravvivere ha estremo bisogno degli aiuti del mondo occidentale, sempre accusato di neocolonialismo. Il termine, coniato da Jean-Paul Sartre nei confronti dei paesi occidentali ex colonialisti, ebbe grande fortuna presso gli intellettuali africani e i loro sostenitori "progressisti" europei, e, nel tempo, fu esteso a tutti i paesi industrializzati. Divenne un alibi a tutti i fallimenti politici, una giustificazione agli insuccessi delle politiche economiche modellate sul sistema sovietico e alla lentezza del processo di progresso. Gli aiuti, in un clima di risentimento e di frustrazione, pure accettati in quanto assolutamente necessari alla sopravvivenza, erano ritenuti la prosecuzione della politica di dominio colonialista. La condanna del neocolonialismo era stata preceduta da quella del colonialismo che, con un termine coniato da Lenin, veniva anche definito imperialismo. (2) La storiografia sul problema si è sviluppata in un fiume di saggi e pubblicazioni. Riassumendola brevemente si può condensarla in due interpretazioni. La prima sostiene che il colonialismo sia stato dannoso ai popoli colonizzati e ai popoli colonizzatori, l'altra che entrambi i soggetti ne ebbero benefici.

Le persecuzioni si riaccesero nel 1971. A luglio si denuncia un altro complotto antigovernativo. Questa volta le accuse sono contro un gruppo tutsi del centro del paese, accusato di essere liberale e monarchico. Seguono processi che si concludono nel gennaio 1972 con 9 condanne a morte, 9 all'ergastolo, 2 a 20 anni, oltre a condanne a pene minori. Si tratta però di Tutsi, il presidente dello Zaire Mobutu, tre dei cinque vescovi del paese, vasti strati della pubblica opinione intervengono in favore dei condannati a morte che vengono graziati. Altri sono addirittura rilasciati. Il confronto con la durezza usata contro gli Hutu balza evidente. Il governo, sempre preoccupato di non creare un abisso tra i Tutsi usò prima il pugno di ferro e poi la massima condiscendenza. Nello stesso anno i vescovi denunciano le condizioni del paese: "L'odio, la vendetta, gli intrighi, il sospetto, la calunnia hanno ottenuto diritto civile nel Burundi; esiste un pericolo reale che l'ingiustizia diventi legalizzata e questo contamina tutto il paese … coloro che oggi soffrono potrebbero non perdonare e prendere la rivincita domani".

Nel 1972 si ha un altro saggio dello spessore morale del governo. Il 30 marzo Ngare rientra dall'Uganda, ove era ospite del famigerato Idi Amin, raccogliendo l'invito del presidente. Unica prescrizione astenersi da ogni attività politica. All'aeroporto, appena mette piede a terra viene arrestato e posto in residenza sorvegliata. La Voix de la Révolution, radio del paese, con stupefacente improntitudine dichiarò che l'arresto era avvenuto in quanto Ngare era entrato nel paese alla testa di armati.

Il 29 aprile Micombero scioglie il governo, i ministri hutu sono sospettati di preparare un golpe e fa assassinare il re. In un primo tempo si comunica che era stato ucciso negli scontri tra soldati e ribelli che lo volevano rimettere sul trono, poi, a giugno, il presidente dichiara personalmente che era stato processato e giustiziato. Di certo dopo la fine del secondo figlio del vecchio Mwambutsa le speranze dei sostenitori della monarchia tramontano per sempre.

La sera stessa scoppia la rivolta. Elementi hutu, calcolati in circa 15.000, attaccano i Tutsi nelle loro case, uccidendoli sistematicamente, in un numero calcolato dal governo in 50.000, 20.000 secondo gli osservatori internazionali. La reazione fu violenta, feroce, con lo stesso "percorso" che caratterizzerà tutti gli scontri fra le due etnie. L'esercito, al quale nel clima di terrore e nello spirito di vendetta creatosi si aggiunsero civili e membri della Jeunesse Révolutionnaire Rwagasore, reagì mirando all'eliminazione dell'intera classe dirigente hutu, degli intellettuali, professori, maestri e degli studenti che furono uccisi strappandoli dalle aule scolastiche. Le vittime furono valutate in una cifra che va dai 100.000 ai 300.000, tra cui 21 religiosi hutu, ma sono conteggi, come avviene sempre negli accadimenti africani, molto approssimativi. Hanno come dato fisso l'enfatizzazione della malvagità dell'altro, del "diverso".

L'esodo verso la Tanzania, lo Zaire, il Ruanda, è la logica conseguenza del conflitto. Gli Stati democratici e totalitari, l'opinione pubblica internazionale, le organizzazioni non governative rimasero sostanzialmente indifferenti al dramma. L'Africa non era una minaccia per la loro sicurezza come avverrà in seguito nel Kosovo, manca l'apparato di immagini che emozionano i cittadini del Nord del mondo. I governanti hanno imparato a gestire gli avvenimenti,la stampa internazionale non è ammessa nel paese. Furono moltissimi i guerriglieri hutu che affrontarono gli scontri a fuoco dopo essersi sottoposti al rito Simba consistente in abluzioni che avrebbero comportato la trasformazione delle pallottole in acqua al contatto col corpo. Nei combattimenti il loro grido era "May, may" (acqua, acqua). Con la stessa sicurezza, negli gli anni a cavallo tra i due secoli, nella grande ribellione alla penetrazione tedesca passata alla storia come la guerra "Maji-Maji", così chiamata per l'uso dell'acqua magica "Maji-Maji", si erano battuti altri africani. Il mito dell'invulnerabilità alle armi da fuoco con l'uso di pozioni magiche è ricorrente nelle popolazioni primitive. E' interessante notare come questa credenza fosse radicata anche tra gli Indiani d'America che attaccarono più volte i "soldati blu", nella certezza di essere invulnerabili.

Sui fatti si contrapponevano le versioni governative e quelle dei profughi, nel paese regna la pace dei morti, in un clima di paura, diffidenza e odio. Le conseguenze economiche sono gravissime, i raccolti restano a marcire nei campi, nessuno osa uscire da casa, il commercio langue. A luglio nuovo governo senza militari. Primo ministro e ministro degli Interni è Albin Nyamoya, grande amico di Pechino, che inizia l'opera di pacificazione con invito al ritorno dei rifugiati la cui presenza è essenziale per la vita economica. Molti non tornarono, specialmente fra le classi superiori, ricostruendosi una vita in altri paesi. L'incapacità di interpretare gli avvenimenti fu e sarà una costante degli ambienti politici belgi e della Chiesa cattolica che, nelle sue diverse componenti, né diedero valutazioni contrastanti. Si trattava del paese la cui popolazione era stata definita da monsignor Maury ex nunzio apostolico: "il popolo più cattolico del mondo".

I vescovi in una lettera del 24 maggio "'aux chretiens du Burundi et a tous ses habitants, desirant la paix dans la justice" deplorarono gli avvenimenti. Dopo aver dichiarato che il capo dello Stato aveva fatto il suo dovere respingendo "les ennemis du pays" dichiararono che quello che stava avvenendo: "est une honte pour les chrétiens" e invitavano le autorità a una politica di perdono. Con estrema durezza e grande coraggio si espressero nella stessa data alcune coraggiose Superieurs Majeurs in una "Note confidentielle à l'episcopat du Burundi au sujet des evenements actuel". Dopo aver condannato "sans réticence" le atrocità commesse dai ribelli si espressero duramente contro la repressione. Condannavano le migliaia di fucilati senza giudizio, e, dopo i combattimenti, l'esecuzione senza giusti processi di preti, religiosi, laici, le torture "inimaginables" inflitte ai prigionieri che ricordavano i metodi nazisti e comunisti, i massacri di rifugiati nelle missioni, dei feriti negli ospedali, lo spirito di vendetta della Jeunesse Révolutionnaire e di alcune autorità locali, i massacri di studenti di scuole superiori, i saccheggi, il rifiuto di assistenza alle vedove e agli orfani, la mancanza di assistenza spirituale per i condannati a morte, la caccia all'uomo trattato come una bestia. Gli avvenimenti lasciavano intuire che s'intendeva liquidare tutta l'élite hutu. Ci si doleva che, con la mancata reazione dei cristiani tutsi davanti ai massacri fosse affiorato il grave problema della divisione nel clero e dei religiosi indigeni, anche se, dopo un periodo di smarrimento, gli abati tutsi avevano reagito "très chrétiennemen". Concludevano chiedendo che le autorità cattoliche prendessero una posizione ferma e senza ambiguità intervenendo efficacemente presso le autorità.

La rivista cattolica Il Regno-Attualità Cattolica andava ancora oltre titolando apoditticamente il numero del 15 giugno: "Altri 40.000 morti sulla coscienza del colonialismo". I contrasti tra i religiosi si acuirono. Il 7 giugno il vescovo André Makarakiza, avvertendo i fermenti esistenti nella comunità religiosa tormentata dai tragici eventi, rendeva pubblica una lettera "A tous les prêtres. A toutes les communautés de soeurs et de frères". In essa rigettava le accuse rivolte alle autorità ecclesiastiche facendo rilevare che numerosi erano stati i messaggi di deplorazione, che molti sembravano ignorare, inviati al governo sulle violenze perpetrate e ricordava che il vescovo di Bujumbura il 5 maggio aveva diffuso attraverso la radio e fatta leggere in tutte le chiese una nota nella quale s'invitavano i dirigenti del paese a non farsi trascinare dalla collera e di limitarsi a punire i veri colpevoli agendo con discernimento. In una lettera del successivo dieci comunicava di avere fatto dei passi per conoscere il grado di colpevolezza dei preti, dei religiosi e delle religiose arrestate, di avere condannato la vendetta, le torture, le violenze tutte, di avere sollecitato l'autorizzazione ad assistere i prigionieri. Questi sforzi erano stati ignorati e si era affermato che gli Hutu non perdonavano alla Chiesa di aver lasciato massacrare la loro gente senza intervenire. La gravità di queste accuse così nefaste non poteva sfuggire, così come non poteva sfuggire il fenomeno dell'abbandono del paese da parte dei pastori di anime che stava avvenendo. Invitava per l'avvenire a un'atmosfera di dialogo, di collaborazione e non di "désolidarisation ou d'accusation". Sulla stessa lunghezza d'onda si poneva Nestor Bihonda vescovo di Muhinga il quale, in un'aspra nota del 23 giugno, rilevava che in alcune parrocchie affidate ai Pères Blancs e ai prètres Fidei Donum la lettera pastorale dei vescovi del Burundi del 24 maggio "aux chretiens du Burundi et a tous ses habitants, desirant la paix dans la justice" in alcuni casi non era stata letta per esteso ma riassunta con commenti a volte inappropriati, mentre in altri si era avuta "l'inqualificabile audacia" di ometterne la lettura. Continuava con amarezza sostenendo che evidentemente la nota "accolta come una vecchia carta di imballaggio", non aveva soddisfatto il "votre état d'esprit divisioniste par excellence" come aveva dimostrato la lettera dei loro Superiori ai vescovi del Burundi. Terminava intimando di leggerla integralmente o di rileggerla puramente e semplicemente in tutte le messe, poiché missione della Chiesa era di mirare alla pacificazione e alla riconciliazione, invitandoli a una maggiore collaborazione e obbedienza ai loro superiori, capi della chiesa del Burundi.

Il 29 agosto un gruppo di laici e missionari del Centro Missionario Diocesano di Brescia in Italia "per un periodo di riposo o per non aver accettato una scuola su basi razziste o per aver terminato il loro servizio" indirizzavano una lettera al Papa in cui descrivevano i sanguinosi avvenimenti, svoltisi nei mesi di maggio e giugno, le cui vittime, tra di essi 18 sacerdoti, otto religiosi, medici, professori, maestri elementari, studenti universitari e studenti delle scuole superiori erano "… segnate tutte su una lista già preparata: persone ignare e innocenti eliminate senza processo. … Non c'è dubbio per noi che si tratta di un vero genocidio perpetrato da elementi della razza tutsi che detiene tutto il potere politico, amministrativo e militare contro la razza hutu temuta come rivale … fanno pensare a un piano preparato da tempo e tolgono all'attuale governo del Burundi ogni legittimazione umana e giuridica ... un governo criminale … noi ci rendiamo conto di passare per ingenui e idealisti quando parliamo di questi fatti in questi termini. Per questo ci chiediamo chi mai rappresenta S.E. il Nunzio presente alle cerimonie ufficiali in Burundi". Continuavano affermando che il silenzio della gerarchia ecclesiastica li aveva lasciati abbandonati senza direttive oltre a "generici inviti alla pazienza, alla rassegnazione, alla pacificazione", gerarchia dalla quale si attendevano "un indirizzo chiaro, forte, coraggioso; una presa di posizione, un intervento in difesa dei prigionieri, una condanna di qualsiasi violenza, se non altro un interessamento per i Sacerdoti che pure dipendevano dai Vescovi e dei quali i Vescovi devono rispondere, o per i catechisti". Ricordavano il turbamento dei sacerdoti tutsi che si erano limitati a generiche giustificazioni "Il Governo esagera ma bisogna capirlo … La situazione è sfuggita di mano al governo e ogni governatore militare fa per conto suo … E' la volontà di Dio". Esprimevano in un angoscioso interrogativo il loro tormento, "la Chiesa stessa non stia fallendo nella sua opera? Questo nostro scritto è un grido di dolore che rivolgiamo alla Santità Vostra perché, nell'uragano che si è abbattuto sulla Chiesa del Burundi e su di noi che ci sentiamo parte di essa, abbia a 'confermare' la nostra fede".

Per risolvere il profondo malessere che permeava gli ecclesiastici fu organizzato un consiglio presbiterale nel seminario di Bujumbura il quattro e il sette settembre cui parteciparono 80 religiosi. Il vescovo faceva un rapido sommario degli avvenimenti, descriveva la sorpresa, la confusione, la richiesta d'informazioni, leggeva la "Note confidentielle a l'episcopat du Burundi au sujet des evenements actuels" delle Supérieurs Majeurs del 24 maggio, ricordava i consigli alla prudenza, la vana richiesta di un colloquio col presidente della repubblica, la dichiarazione governativa che i 18 preti assassinati erano invece fuggiti, la comunicazione governativa di un elenco di sacerdoti da espellere con l'invito al vescovo a procedervi personalmente. Faceva presente come i luttuosi avvenimenti avevano segnato tutti. Ricordava come era stato toccato nei suoi affetti con la perdita di due Hutu mariti di sue nipoti e tre cugini tutsi, invitava alla penitenza a non accusare nessuno pubblicamente: "Sì nous continuons ce langage, nous préparons une autre guerre", a svolgere una funzione di pacificazione tra le due etnie, poiché non si vivevano tempi di pace ma tempi di guerra. Concludeva osservando che la vita di tutti era sacra, che non bisognava portare rancore, che bisognava abbandonare un certo linguaggio per evitare reazioni contrastanti.

Il decorso degli avvenimenti veniva equilibratamente esposto nel Dossier Burundi del Secretariat Permanent du Clerge dello stesso anno. Bande di Hutu, convinti che una pozione magica li avrebbe resi invulnerabili, avevano invaso il paese provenienti dagli Stati confinanti prendendo di sorpresa le forze governative e sterminando tutti i Tutsi che incontravano senza fare distinzioni di sesso o di età. La reazione governativa era stata immediata e si era estrinsecata in tre fasi. Nella prima i poteri pubblici avevano ancora la situazione in mano, poi la reazione della popolazione violenta e sanguinosa era sfuggita di mano e infine con la campagna di pacificazione si erano impedite le violenze e le vendette private. Il guasto provocato tra le due etnie era stato profondo, tutti avevano pianto dei parenti morti e cercato la vendetta "La répression fut brutale. On ne peut pas le nier".

Vi era stata una guerra civile e gli eccessi erano difficili da contenere. Il nuovo governo composto di esponenti delle due etnie si batteva per la riconciliazione ed era necessario anche agli amici stranieri il silenzio per continuare nella pacificazione, respingendo gli inviti alla violenza di alcuni gruppi. Ancora una volta si manifestava la realistica diplomazia della Chiesa che di fronte a un fatto compiuto cercava l'unica via di uscita per continuare nella sua opera.

In un contesto storico agli antipodi, la cattolicissima Polonia del secondo dopoguerra, non diversa fu la posizione del primate della Chiesa cattolica Stefan Wyszynski. Di fronte alla sanguinosa repressione di ogni dissenso, di fronte alla decisa volontà di stroncare la vita della Chiesa, pur arrestato nel 1953 e posto al confino per tre anni, con realismo iniziò e portò avanti una politica di dialogo con le autorità comuniste, ricavandone uno spazio nel quale far vivere i cattolici. Questa politica sollevò fortissimi malumori e perplessità tra i massimi responsabili della politica estera del Vaticano, nell'episcopato e tra i cattolici polacchi, e, all'estero, tra i soldati dell'armata del generale Anders che, dopo aver combattuto nell'armata polacca che aveva risalito lo Stivale lasciando cimiteri in molti angoli d'Italia, non poterono tornare in patria.

Il governo tentò di giustificarsi con un libro bianco "Le papier blanc sur les vraies causes et consequences de la tentative de genocide contre les tutsis au Burundi" indirizzato alle Nazioni Unite il 6 giugno 1972. Premesso che la pace era stata ristabilita su tutto il territorio e che il nemico "a été mis hors d'état de nuire", che lo Zaire e la Tanzania avevano fornito un aiuto militare, che la Somalia e il segretario generale dell'O.A.U (Organization of African Unity) avevano assicurato la loro solidarietà, passava alla descrizione degli avvenimenti. Il 29 aprile nella stessa ora da più direzioni circa 10.000 uomini avevano invaso il paese, abbandonandosi ad atrocità nei confronti dei cittadini tutsi. Per inciso vale la pena di notare che provenivano dalla Tanzania e dallo Zaire, paesi che avevano offerto un aiuto militare.

Nella città di Kitega durante i combattimenti era morto l'ex re Ntare V. In tutte le regioni assalite gruppi di autodifesa composti di Tutsi e Hutu avevano valorosamente collaborato con l'esercito e in nove giorni la rivolta era stata soffocata e i ribelli "avevano avuto quello che si meritavano". Le vittime erano state 50.000, tra cui 40 funzionari dello Stato, medici, magistrati. Dai documenti ritrovati era chiaro che obiettivo degli aggressori era lo sterminio sistematico dei Tutsi concordato con elementi all'interno del paese e con la presenza di numerosi elementi stranieri, in un complotto studiato a diversi livelli dagli imperialisti contro tutti i paesi africani rivoluzionari.

Virtuosamente si aggiungeva che, nonostante i massacri, i poteri pubblici non avevano applicato la legge del taglione perché "Notre pays, de culture humaniste séculaire, sait que la responsabilité est individuelle. Seuls les coupables ont été condamnés" Si stigmatizzava la stampa estera, particolarmente quella belga, colpevole di avere dato un falso quadro degli avvenimenti, con lo scopo di "faire executer leurs plans diaboliques confectionnés depuis 1959 pour faire du Burundi una chasse-gardée, un bastion du néo-colonialisme et de l'impérialisme glouton"'. Giova notare come riecheggino gli stessi leitmotiv della stampa comunista nei confronti dell'Occidente.

Il Libro Bianco si concludeva con una ammonizione alla stampa estera e alle oscure mene del mondo Occidentale con vaneggiamenti sull'ancestrale mondo precoloniale "Ne l'oubliez pas, le génocide est inconnu dans notre histoire, dans notre culture, et le terme est même inexistant dans notre langue. Comment en serait-il autrement? Le tribalisme était inconnu avant l'arrivée des Blancs. Avant les colonisateurs, notre Societé était parvenue à un degré de cohésion et d'unitè nationales que plusieurs pays européens ignoraient chez eux. … S'il faut parler de tribalisme, c'est du vôtre, celui-là que vous avez inoculé à notre société. C'est vous qui avez abusè de la naîveté ou de la cupidité de certains de nos concitoyens. Vous avez détruit en quelques années l'oeuvre séculaire de nos ancêtres. De citoyens Burundais, vous êtes parvenus à en faire des hutu et des tutsi. Mais vous ne vous êtes pas attêtés là. Vous avez convaincu les hutu de la nécessité de massacrer les tutsi. Et tout cela avec la meilleure coscience du monde, puisque c'est au nom de la démocratie!!! Oh! Démocratie, que de crimes on a commis en ton nom: mais la providence n'est pas démocrate comme vous. Aussi le massacre des tutsi "minoritaires" par les hutu "majoritaires" échoua en 1960-1961. L'échec se répete en 1965. Un triple échec en 1969. Et un quadruple en 1972".

Restano misteriose le ragioni che avrebbero spinto il Belgio e il mondo Occidentale ad oscure trame in un paese miserrimo, privo di ricchezze naturali, con una popolazione analfabeta in tumultuoso sviluppo, infradiciata dall'A.I.D.S. che andava sviluppandosi a macchia d'olio nei paesi africani.

La nona Conferenza dell'O.A.U., organismo africano costituito nel 1963 per il mantenimento della pace, si svolse a Rabat dal 12 al 15 giugno. Si raggiunsero accordi di pace tra Marocco e Algeria, Senegal e Guinea, Guinea e Ghana, ma i conflitti all'interno degli Stati, come quello etiopico tra Eritrei e governo centrale, in Biafra, nel Sudan del Sud e nel Burundi non furono presi in esame, per il principio della non ingerenza nella vita interna dei paesi membri. Osservava Le Monde del 16 giugno: "Ma se l'O.A.U. non vuole essere considerato uno strumento al solo servizio degli interessi dei governi al potere, i suoi dirigenti non dovrebbero dimenticare che la giustizia e la pace interna sono anch'esse un'opera comune".

Il regime cadde nel novembre 1976, il colonnello Jean Baptiste Bagaza, nuovo presidente, tentò la carta della pacificazione tra le due etnie divise dalla memoria dei morti. Mentre la situazione economica dava segni di miglioramento, con una propaganda martellante dichiarò superate le divisioni del paese e, attuando la classica politica del nemico immaginario sul quale scaricare le tensioni, i problemi economici e i rancori popolari, nella Germania nazista o nella Russia zarista gli ebrei, nell'Unione Sovietica i traditori venduti all'imperialismo, accusò le gerarchie religiose, distinguendosi nella persecuzione della chiesa cattolica, confiscandone i beni ed espellendo i sacerdoti. Nel 1981 fece approvare con una maggioranza tipica delle defunte "democrazie popolari" (99%) una nuova costituzione fondata ancora una volta sul partito unico. Nel 1991 è stipulata una nuova costituzione che condannava "tutte le discriminazioni o esclusioni nei confronti di una parte della popolazione per il fatto di appartenere a una etnia". Finalmente la componente hutu nel governo passa dal 20% alla parità.

Dopo un decennio il maggiore Pierre Buyoya con il terzo colpo di stato pose fine alla politica di riappacificazione del suo predecessore e reagì con estrema durezza alle infiltrazioni di guerriglieri hutu, riuniti in un nuovo partito il P.A.L.I.P.E.H.U.T.U. (Parti pour la liberation du peuple hutu). Di fronte a una situazione divenuta insostenibile, alle pressioni internazionali, agli interventi del delegato delle Nazioni Unite il 27 dicembre 1990 fu approvata una Carta dell'Unità Nazionale e si elesse un Comitato che assunse la guida del paese. Con il primo ministro Adrien Sibomana hutu si tentò una nuova politica di equilibrio fra le due etnie, il 9 marzo 1992 con un referendum venne adottata una nuova costituzione e nel 1993 si permise il ritorno dei profughi hutu. Questi, riuniti nel F.R.O.D.E.B.U. (Fronte per la Democrazia nel Burundi) inaspettatamente vinsero le elezioni che si svolsero nel mese di giugno dello stesso anno con il 64,79% dei voti.

Il nuovo presidente di etnia Hutu Melchior Ndadaye, funzionario di banca, per la prima volta un civile arrivava alla presidenza, in uno sforzo di conciliazione offrì la carica di primo ministro ad una donna, Sylvie Kinigi, tutsi dell'U.P.R.O.N.A., il partito sconfitto passato all'opposizione con 16 seggi su 81. Ndadaye apparteneva all'ala moderata del Frodebu ed era stato candidato alla presidenza con un solo voto di maggioranza, opponendosi gli estremisti.

Il governo resse nonostante le infiltrazioni di guerriglieri del Palipehutu (Parti pour la Libération du peuple Hutu) provenienti dal Ruanda e dalla Tanzania e tentativi di colpi di stato. Il nuovo movimento era nato nel 1980 nel campo profughi di Mishamo in Tanzania ad opera di Rémi Gahutu, con l'obiettivo di riportare al potere gli Hutu. Le prime azioni importanti risalgono all'agosto 1988, precedute da dissidi interni fra l'ala politica guidata da Etienne Karatasi e l'ala militare nota come Forces Nationales de Libération (F.N.L.). La pace durò poco, l'esercito, composto nella quasi totalità da una etnia del sud, i Tutsi Hima, che man mano estendeva il suo potere, tre mesi dopo le elezioni, passò all'azione.

Il 20 ottobre 1993 Melchior Ndadaye è assassinato insieme a numerosi dirigenti politici, la violenza si diffuse a macchia d'olio, ancora una volta divampò la guerra civile. Gli hutu si scatenarono contro i tutsi, l'esercito intervenne pesantemente anche con bombardamenti d'artiglieria dei villaggi hutu, in un vortice di reciproche distruzioni. I golpisti affidarono il governo ad un parlamentare dell'Uprona, François Ngeze, ma non si trovarono personalità che accettassero di parteciparvi. A questo punto intervengono le Nazioni Unite che riescono a far stipulare un accordo tra le parti, la cosiddetta Convenzione di Governo, basata su una complicata spartizione delle cariche in un clima di violenza reciproca che non accennò a diminuire. Ne fa le spese l'arcivescovo di Gitega Joachin Ruhuna, che invocava la riconciliazione nazionale, assassinato nell'ottobre dello stesso anno. Nasce nel frattempo un nuovo partito hutu il C.N.D.D. (Consiglio Nazionale per la Difesa della Democrazia) guidato da Leonard Nyangoma che scatena la guerriglia e si impone come il principale movimento di guerriglieri, con una forza valutata a 10.000 combattenti. Sorgono all'interno del movimento immancabili dissenzi quando Nyangoma impone uomini della sua regione, il Bururi.

Sotto la pressione francese si trattò fra le due parti in un clima di sfiducia e di sospetto. Il nuovo presidente Cypren Ntaryamira, hutu del Frodebu, morirà il 4 aprile 1994 in un misterioso incidente aereo insieme con il presidente del Ruanda. Nell'estate 1994 la M.I.P.R.O.B.U. (Mission de Protection en Burundi) lascia precipitosamente il paese a seguito dell'aggravarsi della situazione. Era stata costituita nel novembre 1963 con 180 ufficiali osservatori e 20 diplomatici di 20 paesi africani, ai quali si aggiunsero nel febbraio 1994 funzionari civili, per preparare le auspicate elezioni. Nel luglio 1996 tornò al potere Bugoya. I paesi vicini decretarono un durissimo embargo nel tentativo di arrivare ad una soluzione. é' del 10 marzo 1997 il primo accordo tra il governo e il C.N.D.D. firmato presso l'italiana Comunità di Sant'Egidio che, senza nessun potere politico, svolse, non solo in Burundi, una straordinaria azione di pacificazione. Fu inoltre firmato un calendario per i successivi incontri.

RUANDA


Decimare significa uccidere una persona ogni dieci, e tra la primavera e l'estate del 1994 una serie di eccidi ben organizzati ha decimato la Repubblica del Ruanda.
Gli assassini si sono serviti di una tecnologia poco sofisticata- soprattutto di machete- ma hanno ammazzato a una velocità sconvolgente; su una popolazione di circa sette milioni e mezzo di persone, in appena un centinaio di giorni ne sono stati eliminati almeno ottocentomila. I ruandesi spesso parlano di un milione di morti, e forse non sbagliano.
In Ruanda i cadaveri si sono accumulati a un ritmo tre volte più rapido di quello dello sterminio degli ebrei durante l'Olocausto.
Era dai tempi dei bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki che un massacro non riusciva così bene.
Philip Gourevitch

Manifeste des Bahutu - L'A.P.R.O.S.O.M.A. - La morte del re - La nascita dei partiti - L'Ognisante ruandese - Le prime elezioni - La repubblica - Le elezioni del 1963 - La rivolta - La seconda repubblica - Nascita del F.P.R. - Gli Accordi di Arusha - L'assassinio del presidente - La grande mattanza - Gli uomini "giusti" - Morire a ventotto anni - I testimoni - I morti - Il governo dei golpisti - La Chiesa cattolica -- L'offensiva del Front Patriotic Ruandese - Paul Kagame - La grande fuga - L'Operation Turquoise - Il Tribunale Internazionale - La guerra nel Congo - Il nuovo Ruanda - La vita continua

Il Ruanda con capitale Kigali, una popolazione di 7.235.000 abitanti nel 1999, 8.387.000 nel 2003, si estende su una superficie di 26.340 chilometri quadrati, all'incirca il Piemonte e la Lombardia, con l'eccezionale densità per l'Africa di 310 abitanti per chilometro quadrato e un tasso di crescita del 1,84, il tutto favorito da un clima molto più fresco in relazione alla latitudine equatoriale del paese. Paese eminentemente agricolo ha come principale risorsa il caffé, seguito dal tè, dal tabacco, oltre a un consistente patrimonio zootecnico. E' caratterizzato da un livello medio che va da 1200 a 2000 metri e da altissime montagne come il Karisimbi di 4506. Nella catena vulcanica dei monti Virunga i gorilla di montagna, difesi a spada tratta dalla specialista americana Diane Fossey che pagherà con la morte il suo attaccamento, costituiscono una attrazione per i turisti.

Nel marzo 1957 nove intellettuali tra cui Grégoire Kayibanda, futuro presidente della repubblica, firmarono il testo fondamentale delle aspirazioni del popolo hutu, il "Manifeste des Bahutu. Note sur l'aspect social du probleme racial indigene au Ruanda", indirizzato all'autorità belga e pubblicato con l'appoggio della Chiesa cattolica. E' la presa di coscienza del popolo hutu.

Inizia con: "Des rumeurs seront déja pervenues à l'Autorité du gouvernement par la presse et peut-être aussi par la parole au sujet de la situation actuelle des relations muhutu-mututsi au Ruanda". Elogiata l'opera: "si grandiose que la Belgique réalise au Ruanda" pone una domanda: "Le problème racial indigène est sans doute d'ordre intérieur mais qu'est-ce qui reste intérieur ou local a l'âge où le monde en arrive". Continua lamentando che alle problematiche politiche, sociali ed economiche si aggiunge l'elemento razziale il cui "aigreur" sembra accentuarsi sempre di più. Vi è un accenno al complesso di inferiorità degli Hutu conseguente al sistema feudatario imposto dai Tutsi, le cui virtù sociali li fanno considerare come "natus ad imperium". Si ritiene trattarsi di un conflitto sociale e razziale, si denuncia il monopolio politico, sociale e culturale dei Tutsi che si manifestava anche nell'accesso ai posti di responsabilità e all'istruzione superiore. pur con una percentuale del 17% sul totale della popolazione. Si legge: "[si rigetta] il costume tradizionale di feudalità, di servaggio pastorale e di servili corvè che sottomette i Bahutu alla dominazione tutsi alla stregua di un popolo vinto. Questo feudalesimo ha permesso al colonizzatore tutsi di dominare il suo colonizzato hutu". Si pone una domanda-ricatto che sicuramente colpisce la sensibilità dell'amministrazione belga e della Chiesa: "Le regret des Bahutu de voir comment les leurs sont refoulés quasi systématiquement à des places subalternes. Toute politique employés a ce refoulement n'échappe plus qu'à quelques cas. De tout cela à la guerre civile 'froide' e à la xénophobie il y a qu'un pas. De la à la popularité des idées communisantes il n'y a qu'un pas". Vibrante è la denuncia della "colonizzazione dei Neri sui Neri" da parte di un popolo venuto da lontano. Si propone l'abolizione delle corvées che gravavano solo sugli Hutu, il riconoscimento della proprietà fondiaria individuale, l'istituzione di un fondo per il credito rurale, l'unione economica dell'Africa belga e della metropoli, la libertà d'espressione contro una certa stampa che tende a dividere le razze, la promozione degli Hutu a funzioni pubbliche, una istruzione che, in mancanza di posti sufficienti, sia rapportata alle due etnie evitando che le borse di studio siano destinate ai soli studenti tutsi. Ci si oppone all'abolizione sui documenti di identità della menzione "muhutu, mututsi, mutwa". "Leur suppression risque de favoriser encore davantage la sélection en la voilant et en empêchant la loi statistique de pouvoir établir la vérité des faits". Si concludeva reclamando la promozione integrale degli Hutu per la quale "La Belgique a fait beaucoup dans ce sens".

In soccorso degli Hutu arriva un veemente articolo della rivista belga Témoignage Chrétien del 5 giugno 1958 la quale accusa i Tutsi di essere arrivati nel paese come conquistatori, asservendo gli Hutu. I toni sono attenuati dal Vicario Apostolico del Rwanda mons. Bigirumwami sulla stessa rivista il 5 settembre che tenta di stemperare le tensioni, accenna al grande numero di meticci fra le due etnie e conclude con inspirate parole: "là où est la charité et l'amour, là Dieu est".

Gli Hutu formarono nella seconda metà del 1958 una prima associazione politica l'A.P.R.O.S.O.M.A (Association pour la promotion sociale de la masse) per tutelare i loro diritti mentre i Tutsi nel giugno 1958 reclamarono l'indipendenza con un proclama intitolato: "Figli del Rwanda siate pronti al combattimento".

L'atteggiamento dell'influente chiesa cattolica è di totale comprensione per i negati diritti degli Hutu, incoraggiandone le aspirazioni. Il Kinyamateka, giornale stampato nel vescovado di Kapgayi, pubblica editoriali sempre più favorevoli. Nel 1959 la situazione si radicalizza. Gli Hutu diventano sempre più intolleranti, i Tutsi sono pronti a difendere i loro privilegi. Il nuovo vicario apostolico mons. Perraudin della congregazione dei Padri Bianchi, di fronte alla tempesta che si profilava, ha parole accorate. In una orazione dell'11 febbraio 1959 riconosceva che le differenze e le ineguaglianze sociali erano legate in grande parte alle differenza di razza e che il potere politico e giudiziario era in proporzione notevole nelle mani di uomini della stessa etnia, il tutto eredità del passato ed invitava nel nome della legge di Dio a permettere a tutti l'accesso e la partecipazione alla vita pubblica. Il 25 luglio Mutara III Budahigwa muore improvvisamente, forse per avvelenamento, lasciando rimpianti e costernazione nelle due etnie delle quali godeva l'illimitata fiducia. Sarà una costante del paese l'attribuire la morte dei potenti ad oscure mene colonialiste o del nemico di turno. Il 28 luglio, giorno dei funerali, su precipitosa proposta dei dignitari tutsi e senza la preventiva autorizzazione dell'amministrazione belga viene proclamato il successore nella persona del fratello il venticinquenne Jean Baptistye Ndahindurwa che assume il nome di Kigeri V Ndahindurwa. Subito si rileva un fautore dell'indipendenza immediata, appoggiato dai dirigenti tutsi. Il suo sarà un breve regno di un anno.

Il 13 settembre 1959 fu fondato l'U.NA.R (Union nationale rwandaise), nazionalista e monarchica, di sentimenti "progressisti". Il programma auspicava "migliori relazioni umane", negando però lo sfruttamento degli Hutu, richiedeva l'immediata indipendenza, una riforma agraria e amministrativa e la laicizzazione delle scuole delle missioni cattoliche. Modello di riferimento era il premier congolese Lumumba che, in quel periodo, imperversava nel vicino Stato, con la sua politica nettamente contraria all'Occidente. La Carta costitutiva datata 15 agosto 1959 inizia con: "Tous les membres qui adhèrent au Parti sont convaincus qu'une indèpendance immédiate est indispensable. Ils rejettent toute idée de collaborationnisme [...] L'Occidental veut toujours asservir l'Afrique, l'exploiter sans pitié ni répit, et nier ainsi a l'homme noir les droits fondamentaux de l'homme". Dopo aver stigmatizzato l'infamia dei colonialisti ed elencati minutamente i loro delitti: i linciaggi dei negri in America, gli avvenimenti nell'Africa del Sud, una non meglio precisata -guerre des bacteries au Kenya- la guerra di Indocina, l'opposizione sistematica tra Kasai e Bakongo, tra Baluba e Lulua, tra Bahutu e Batutsi proclamava che: "l'orgueil de l'Occidental ne lui permet pas de supporter un autre homme qui lui est egal". Questi poco rassicuranti principi, anche alla luce degli avvenimenti nel Congo, si guadagnarono la netta opposizione delle gerarchie ecclesiastiche, che in una lettera circolare al clero ne evidenziavano la pericolosità. A loro volta le autorità belghe contrastarono in tutti i modi i dirigenti.

Nello stesso periodo nacquero altri due partiti i quali auspicavano la collaborazione col Belgio. Il RA.DE.R (Rassemblement démocratique rwandais) pubblicò il suo manifesto programmatico il 1 ottobre dello stesso anno. Ispirandosi ai principi della civiltà cristiana, rendeva omaggio all'azione civilizzatrice dei missionari cattolici e protestanti e all'azione del governo belga al quale manifestava una profonda riconoscenza e una amicizia indefettibile. Si dichiarava per una monarchia costituzionale in un contesto democratico. Sulla questione più incandescente i rapporti Hutu-Tutsi auspicava un clima di concordia nazionale perché: "est profondément erroné de penser que le bonheur des uns dépend de l'écrasement des autre" ma la democratizzazione delle istituzioni doveva portare all'abolizione del: "monopole de fait des tutsi". Si dichiarava favorevole alla elezione a suffragio universale diretto, nello spirito della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo e della Carta delle Nazioni Unite. Richiedeva l'autonomia per il 1964 e l'indipendenza: "dans un délai raisonnable" che fissava nel 1968.

Un nuovo partito il PAR.M.E.HUTU. (Parti du mouvement de l'émancipation des Bahutu) fece sue tutte le rivendicazioni più massimaliste del popolo hutu e riscosse grande successo nelle masse contadine con la sua propaganda razzista. Il manifeste-programme pubblicato il 9 ottobre 1959 a firma di 25 notabili, tra cui Grégoire Kayibanda, ebbe grande rilevanza. Non si dichiarava contrario all'istituto monarchico purché favorisse il sistema democratico, proclamava "comme c'est le cas aujourd'hui" che nessuna razza doveva dominare le altre, constatava che solo i Tutsi avevano accesso al Consiglio, alla magistratura, alle scuole superiori e che "la veritable indépendance" era quella preceduta dall'abolizione "de la colonisation du noir par le noir" e di tutte le leggi favorevoli alla perpetuazione della colonizzazione dei Tutsi sugli Hutu e sui Twa. Rivolgeva un ringraziamento al Belgio, potenza tutelare, per la sua opera, realisticamente riconoscendo la necessità del suo aiuto finanziario, ma le relazioni dovevano evolversi nell'indipendenza. Per la scuola sosteneva che i documenti di identificazione degli scolari dovevano portare la razza di appartenenza "au fins de renseigner tous ceux qui combattent la discrimination raciale en matière d'enseignement".

Negli osservatori più avveduti destava però inquietudine l'insistere sulla necessità della indicazione della razza sui documenti scolastici, il pensiero correva alla stella gialla degli Ebrei nell'Europa nazista. Vi era naturalmente il virtuoso rifiuto della lotta tribale, la risoluzione dei rapporti tra le due etnie con "une saine démocratie", l'attribuzione delle cariche in modo proporzionale tra le tre etnie. Il problema dell'indipendenza "est difficile" e andava preparato con un referendum sotto il controllo dell'ONU. Si trattava di un partito che, proclamando idee e valori del mondo occidentale, tutelava gli interessi e le aspettative degli esponenti hutu. Il suo carismatico capo Grégoire Kayibanda, Hutu del sud, assunse la carica di primo ministro. La sua storia è esemplare. Ex seminarista, presidente della cattolica Légion de Marie, redattore del giornale cattolico Kinyamateka, primo firmatario del "Manifeste des Bahutu. sur l'aspect social du probleme racial indigene au Ruanda", insegnante in un istituto di formazione artigianale, giornalista, nel 1955 segretario personale del nuovo arcivescovo del Ruanda, lo svizzero mons. Perraudin.

Il primo novembre 1959 iniziano i primi scontri, i primi incendi, i primi saccheggi, i primi morti. Saranno ricordati come "l'Ognisanti ruandes" e ciclicamente continueranno fino al settembre 1961, mentre il tessuto sociale del paese andava a brandelli. Bande armate hutu attaccano, trucidano o cacciano i Tutsi senza distinzione di classe, le case vengono bruciate, la terra e il bestiame divisi tra i vicini. Tra i fuggiaschi vi è un bambino di quattro anni, Paul Kagame che si rifugiò in Uganda con la sua famiglia, 35 anni dopo diventerà il presidente del Ruanda. Le truppe belghe non intervengono, le autorità sono a favore della maggioranza hutu, capovolgendo il vecchio ordine. Sostituiscono più della metà dei borgomastri con elementi hutu, mentre un milione di Tutsi dal 1959 al 1964 in più ondate si misero in salvo rifugiandosi in Uganda, Zaire, Burundi e Tanzania. Nel laboratorio ruandese si comincia ad applicare una sinistra politica razziale di discriminazione da parte di una maggioranza alla ricerca di una identità collettiva nei confronti di una minoranza già sopraffattrice, alla quale si negava l'assimilazione.

Nel maggio 1960 il comitato nazionale del partito proclama trionfalmente che "il Ruanda è il paese dei Bahutu e di tutti quelli bianchi e neri, Tutsi, europei o di altre provenienze che si sbarazzeranno di una visione feudale-colonialista". I Tutsi, considerati come stranieri, sono appena tollerati e invitati a "ritornare ai loro padri in Abissinia". Non sono più la razza superiore ma una minorità di invasori, mentre i rifugiati all'estero sono, con un linguaggio mutuato dalle democrazie progressiste dell'est: "cricca di feudatari ostili alla democrazia".

Il Residente Generale Harroy costituisce il Consiglio Speciale Provvisorio con i quattro partiti che si contendono il potere: Parmehutu, Rader, Aprosoma e Unar che, messo sempre in minoranza, abbandona le sedute. Si accendono contrasti tra i tre partiti rimasti nel Consiglio e il Mwami, difeso dall'Unar, il quale continua a godere di un ampio prestigio nel paese.

Nel giugno-luglio 1960 le elezioni comunali diedero una grande vittoria al Parmehutu con 2390 seggi, 233 andarono all'Aproma, 209 al Rader, 56 all'Unar. Viene punita la politica dell'Unar che aveva tentato di boicottarle. Immancabili sono le proteste per presunti brogli, caratteristica di tutte le tornate elettorali dei paesi in via di sviluppo. Va però rilevato che la stragrande maggioranza degli elettori era analfabeta e si organizzò un sistema di "accompagnatori alle urne" da parte di volontari accusati di essere tutti parmehutisti. Nel successivo ottobre si instaura un governo provvisorio con Kayibanda presidente e un Consiglio Speciale Provvisorio composto da 48 membri, di cui 31 sono del Parmehutu, dieci del Rader, sei dell'Aprosoma, uno Twa. Le violenze continuano, intere comunità tutsi si rifugiano nelle missioni, in centri di raccolta, all'estero. Anche Kigeri V sentendosi minacciato si rifugia nel Congo, abbandonando il paese nel quale non tornerà più. Malgrado le perplessità internazionali e dell'ONU il Parmehutu continua nella sua politica.

Il primo febbraio 1961 viene promulgata la prima costituzione che riconosceva l'Amministrazione Fiduciaria belga, attribuiva il potere di nomina del presidente della Corte Suprema al presidente della repubblica, vietava il divorzio e la propaganda comunista. Il successivo sei il governo belga riconosceva formalmente il primo governo del Ruanda. Nel settembre altra clamorosa vittoria del Parmehutu che conquistò 35 dei 44 seggi dell'Assemblea Legislativa, all'Unar ne vanno sette, all'Aprosoma e al Rader uno. Il referendum imperniato nel quesito: "Desiderate conservare l'istituzione del Mwami in Ruanda?" ha una risposta negativa dell'80% degli elettori. Viene proclamata la repubblica degli Hutu, con la nomina di Grégoire Kayibanda a presidente. Il Belgio si affrettò a riconoscerla e il primo luglio 1962 l'ONU abolì l'amministrazione fiduciaria. Dietro pressioni delle Nazioni Unite il Parmehutu concede all'Unar due dicasteri, Sanità e Allevamento, due prefetture su 10 e due posti di sottoprefetto. Due anni dopo i ministeri vengono aboliti per "ragioni di economia". Il presidente dell'Unar François Rubeka, in contrasto con un'ala del partito pronta a collaborare col governo, abbandonò il paese e si mise a capo dei profughi fuggiti in Uganda, in Congo e in Burundi, il cui numero, dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite, viene calcolato nel 1963 in circa 150.000; avranno il triste primato di essere i primi profughi in Africa e aumenteranno di anno in anno.

Nell'agosto 1963 le elezioni si conclusero con una grande vittoria del partito al governo, che si avvia ad essere il partito unico del paese. Il trionfo è completo: 140 seggi di borgomastro su 141 e 1112 posti di consigliere comunale su 1138. Ma le autorità sono preoccupate, l'ancestrale complesso che attanaglia la loro etnia non può essere cancellato in pochi anni. I Tutsi, osteggiati in tutti i modi, è dell'aprile 1972 una circolare che interdice la loro assunzione nella pubblica amministrazione, dimostrano le loro capacità eccellendo nel commercio e negli studi. Nel Burundi, nel Congo, in Uganda, in Europa e negli Stati Uniti gli ex "feudatari" raggiungono posizioni di prestigio per le loro indubbie qualità. Gli Hutu sono orgogliosi di sposare donne tutsi più belle, moderne e acculturate, ma l'esercito, da sempre baluardo della ortodossia, espelle immediatamente dai suoi quadri gli ufficiali che sposano donne tutsi. Il primo luglio, festa nazionale, il presidente reclama il rispetto delle proporzioni etniche nelle scuole, proclama che la dominazione tutsi è all'origine di tutti i mali del Ruanda. Si teorizza l'equazione Tutsi uguale a traditore. L'impatto che questa propaganda ha su popolazioni analfabete è devastante. Ancora una volta il potere denunciando il pericolo provocato dalle mene di una minoranza nasconde la sua debolezza politica, le sue lotte interne, il fallimento della politica economica. E' una tecnica consolidata nei secoli, basta pensare ai pogrom contro gli Ebrei nella Russa zarista.

Si sviluppa nuovamente in tutto il paese un movimento antitutsi organizzato dai Comitati di Salute Pubblica. Nelle università, nelle scuole secondarie, nei seminari si scatena una campagna che non ha niente da invidiare alla Germania nazista degli anni Trenta. Il personale tutsi è espulso dagli ospedali e dalle imprese private, unitamente a cittadini hutu di sangue misto. La violenza si espande. Religiosi vengono assassinati a Kabgayi nei pressi dell'arcivescovado, provocando una presa di posizione della Chiesa che alza la sua voce contro le violenze. Ma vi è anche una lotta per il potere tra le fazioni hutu, tutte caratterizzate dall'appartenenza a un determinato territorio. Siamo di fronte a un fenomeno tipicamente africano, nel quale il concetto di Stato è sostituito dall'etnia e nel suo seno dall'appartenenza a una tribù. Ne è un esempio Grégoire Kayibanda nominato dal congresso per un nuovo mandato presidenziale. Si tratta di un Hutu del sud contro il quale si attivano i dirigenti del nord del paese, in una guerra di élites alla ricerca di potere e promozione sociale. Dopo varie incursioni negli anni 1961 e 1962, nella notte dal 20 al 21 dicembre 1963 alcune centinaia di Tutsi provenienti dal Burundi, penetrano nel paese e occuparono Bugesera, posta sul confine, ma vengono bloccati a sud della capitale da reparti dell'esercito coadiuvati da consiglieri militari belgi.

La reazione fu sanguinosa, arrestate le personalità tutsi più influenti, una parte fu rilasciata dopo maltrattamenti vari, un'altra fucilata senza processo a Ruhengeri. Tra essi Michel Rwagasana, Jean Chrysostome Rutsindintwarame, Etienne Afrika, Ncogoza Xavier, leader dell'Unar unitamente a dirigenti del Rader che da tempo avevano abbandonato l'attività politica. I Tutsi residenti nel paese sono accusati di essere una quinta colonna, moltissimi fuggirono nei paesi vicini, particolarmente in Uganda. A Gikongoro nel sud del paese, dal 24 al 28 dicembre sono circa 10.000 i massacrati, in tutto il paese vengono calcolati in 100.000. Ci si pente pubblicamente della "mitezza" usata nel passato: "Anziché ferirli, accontentarsi di bruciare le loro case e obbligarli a partire avremmo dovuto liquidarli sin da piccoli, visto che ora sono tornati …". Contro la violenza l'arcivescovo Parraudin e tre vescovi, elevano una vibrata protesta ma per le gerarchie ecclesiastiche sono i "piccoli" Hutu a raccogliere le simpatie a scapito dei "grandi" Tutsi. I Vescovi dichiarano: "[…] ma quando il paese si è pronunciato per più dell'80% a favore di un governo non è mediante gli attacchi terroristici di una minoranza che la situazione può migliorare". Invitano i paesi vicini "di non accettare sotto alcun pretesto che nei loro confini si preparassero guerriglie terroristiche".

Sulle vittime la Civiltà Cattolica dà cifre diverse: "I morti non furono quelle decine di migliaia, né con quelle efferatezze denunciate da alcune parti […] furono intorno ai duemila", gli Hutu non si sono fatti intimidire: "dalla statura eccezionale dei loro nemici". Venti anni dopo in un articolo del gesuita Angelo Macchi i morti vengono stimati in 20.000. (3) Ci si prepara a futuri macelli, vengono organizzate strutture di autodifesa popolare contro i ribelli in tutte le prefetture del paese coinvolgendo i borgomastri. A seguito delle ritorsioni dal 1966 la guerriglia rinuncia alla lotta armata. Bertrand Russell, non ancora dedicatosi a tempo pieno ai "massacri" USA nel Vietnam, stigmatizzò l'eccidio definendolo: "il più orribile e sistematico dopo lo sterminio degli Ebrei ad opera dei Nazisti". Per la prima volta l'opinione pubblica internazionale si interroga sugli avvenimenti ruandesi, ma le autorità sono rassicuranti, i morti sono solo 800. Il presidente dell'assemblea nazionale Makuza, in un testo diffuso a Bruxelles nel febbraio 1964, ironizzando sui "pretesi massacri di Tutsi" che vengono attribuiti ai guerriglieri spregiosamente definiti "cafards", denuncia: "i giganteschi piani di aggressione terroristica" parlando della: "fatalità della risposta popolare dovuta al furore degli antichi schiavi hutu".

Intanto la vita religiosa scorre serena, nel 1968 1.350.000 abitanti, il 42,90% della popolazione, sono di fede cattolica con 400.000 catecumeni. Cinque sono le diocesi, Butarè, Kabgayi, Nyundo, Ruhengeri, Kibungo rispettivamente affidate a mons. Ntuyahaga, mons. Martin belga, mons. Makarakiza, mons. Kaburungu e mons. Bihonda. Martin e Makarakiza appartengono alla congregazione dei Padri Bianchi. Le parrocchie sono 81, 176 i preti locali.

Con uno dei ricorrenti colpi di stato che hanno caratterizzato l'instabile vita politica della stragrande maggioranza dei paesi africani, sempre attribuiti alle oscure mire dei paesi occidentali, Kayibanda, che aveva prospettato l'ipotesi della formazione di due paesi per le due etnie, fu rimosso nel luglio 1973 dal comandante in capo dell'esercito generale Juvénal Habyarimana, Hutu del nordovest, già sergente nell'esercito belga, capo del partito M.R.N.D.. (Mouvement Révolutionnaire National pour le Dévelopement), che lo accusò di ruberie e di essersi contornato di nativi della sua regione, due delle tante ragioni per cui gli stati africani non riescono a decollare. Veniva invece comunemente riconosciuta a Kayibanda, "Padre della Nazione", fanatico antitutsi, una cristallina onestà che lo distingue dalla stragrande maggioranza dei capi africani. Morirà nel 1975 con il solito, ricorrente sospetto di essere stato avvelenato.

Il fondatore della seconda repubblica e del partito unico che, secondo l'articolo sette della costituzione, rappresenta "il popolo ruandese politicamente" è un uomo di bell'aspetto, fervente cattolico, che gode dell'amicizia del cristianissimo re del Belgio Baldovino e della regina Fabiola. La moglie Agate, di una potente famiglia hutu, era a capo della cricca che gli aveva conferito il potere ed era l'eminenza grigia del governo. Si affretta a migliorare i rapporti con il Burundi e, invocando la riconciliazione nazionale, promette la fine delle persecuzioni, offre ai Tutsi il 10% dei posti nell'amministrazione e nell'insegnamento. Il suo programma riscosse ampi consensi tra la comunità tutsi, si sperava che la pace tornasse nel paese. Sostanzialmente è uno dei tanti dittatori che affollano l'orizzonte africano, nomina personalmente i prefetti e i borgomastri, tiene, con una onnipotente polizia segreta, tutto il paese nelle sue mani. Nella seconda repubblica il potere passa a quelli del nord che costituiscono la maggioranza nell'esercito e che a loro volta vengono privilegiati negli impieghi pubblici, nelle scuole, nelle borse di studio.

Nel 1979 nasce in Kenia la RA.N.U. (Rwandese National Union) ad opera di esiliati che si trasforma nel 1987 nel F.P.R. (Rwandese Patriotic Front). Tito Ruteremara ne era il capo politico e Fred Rwigyema ne aveva la direzione militare. Le infiltrazioni, i colpi di mano si reiterano, destano apprensioni tra gli Hutu, molti dei quali si sono distinti in eccidi e vessazioni, che si scatenano in rappresaglie. Juvénal Habyarimana resta saldo al potere, nel dicembre 1988 viene rieletto con il 99,88% dei suffragi, solo nell'Unione Sovietica e nelle democrazie popolari il potere riesce a fare altrettanto. Il paese riceve grandi sussidi economici dal Belgio, dalla Svizzera, dalla Comunità Europea alle quali si aggiunge la Francia, interessata a introdurlo nella comunità francofona, che dal 1975 gli fornisce imponenti aiuti militari. La maggioranza di questi sussidi finisce nelle tasche del clan del presidente che ha in prima fila la moglie.

Nel 1988 il Ruanda e l'Uganda tentano di raggiungere un accordo sul problema dei profughi, che nel tempo sono saliti a 500.000 con un peso fortissimo per l'economia ugandese, ma ciò significherebbe per la classe dirigente hutu perdere i privilegi e per i contadini le proprietà usurpate e il tentativo abortisce. Una nuova costituzione viene promulgata nel dicembre 1988 ed emendata nel giugno 1991. Si limitano a due i mandati presidenziali, si consente la nascita di partiti purché non tribali, saranno 12 agli inizi del 1992, se ne vieta l'iscrizione a militari e magistrati. Nel gennaio 1990 i rapporti diventano conflittuali, truppe ruandesi inseguono i guerriglieri oltre i confini provocando la fuga delle popolazioni.

Il 14 ottobre 1990 iniziano le ostilità quando 2500 aderenti al F.P.R. gli Inkontanys, partendo dal confine ugandese occupano la città di Ruhengeri. L'esercito, addestrato da istruttori francesi, passa al contrattacco, la città viene riconquistata in 24 ore, le perdite sono pesanti, l'F.P.R. è costretto a limitarsi ad azioni di guerriglia dalle basi in Uganda. Il giornale Kangura di Hassan Ngeze, noto per il suo estremismo, titola un ritratto di Mitterand: "Un vero amico si vede nel momento del bisogno". I massacri continuano, bene organizzati. Nell'ottobre a Kibilira le autorità istigano il popolo alla violenza, trecento Tutsi vengono uccisi, altri costretti a fuggire. Nel 1991 pacifici pastori tutsi del gruppo Bagowes vengono sterminati, il ministro degli Interni ordina: "Andate a fare un umuganda (lavoro comunitario speciale). Distruggete tutti i cespugli e tutti gli Inkontanys che vi si nascondono. E soprattutto non dimenticatevi che colui il quale taglia l'erba cattiva deve anche distruggere le radici". Di fronte alle proteste internazionali vengono giustificati come atti di collera popolare, autodifesa, reazioni a provocazioni.

Il 29 marzo 1991 finalmente si ebbe il cessate il fuoco, ma dal settembre 1991 sono organizzati gruppi di "Autodifesa Popolare", organizzati in tutti i comuni, ai quali vengono distribuiti armi. Il cinque marzo del 1992 altro grande massacro nella regione del Bugesera ai confini col Burundi. Sono gli abitanti a indicare agli assassini venuti da fuori le case dei Tutsi che insieme saccheggiano e incendiano dopo avere stuprato le donne e gettato le vittime nelle latrine. Antonia Locatelli volontaria italiana residente nel paese da vent'anni insorge contro queste violenze pagando con la vita il suo coraggio. La situazione di sostanziale insicurezza sociale, la necessità di stabili ordinamenti politici, le pressioni dell'opinione pubblica internazionale che si manifesta con l'energico intervento dell'ambasciatore belga contro l'arresto di circa 10.000 oppositori, portarono la dirigenza del paese a ricercare un accordo con gli esuli, violentemente osteggiato dagli estremisti.

Il Comitato centrale del M.R.N.D. nel maggio 1992 organizza formazioni paramilitari giovanili, le "Interhamwa" (Coloro che uniscono i loro sforzi), nelle quali affluiscono anche ex militari, che eccitavano lo spirito nazionalistico. Nell'estate si sviluppa l'opposizione interna, nascono giornali liberi, a luglio il presidente ammette la necessità del pluripartitismo, a settembre convoca una "commissione nazionale di riconciliazione". Nascono nuovi partiti politici, tra cui il più importante è il Mouvement démocratique républicain (M.D.R.), di cui è presidente Faustin Twagiramungu, genero dell'ex presidente Kayibanda, ennesimo esempio del familismo africano. Il 30% dei firmatari della dichiarazione di intenti è della stessa regione del vecchio presidente. Il Parti Social Démocrate (P.S.D.), imbevuto di socialismo, trova i suoi aderenti nella regione del Butara a sud del paese, il Parti Liberal (P.L.), fondato da uomini di affari ha per presidente un Tutsi Landoald Ndassingwa, cosa che ingenera subito dei sospetti. Nella proliferazione partitica nascono anche il Partito Ecologista (PE-CO.) e il Partito Democratico Islamico (P.D.I.). Sono tutti caratterizzati dall'ambizione di dividere il potere e da una impronta regionale, in lotta con il Nord monopolizzatore.

A novembre Leon Mugesera, ideologo dello "hutu power", in un sinistro discorso invita gli Hutu a rimandare i Tutsi in Abissinia per mezzo del fiume Nyabarongo, affluente del Nilo. Aggiunge: "Noi gente del popolo abbiamo l'obbligo di assumerci le nostre responsabilità e spazzare via questa feccia". Verrà preso alla lettera, due anni dopo il fiume sarà intasato di cadaveri. La guerriglia diventò sempre più forte ed estesa, un milione di contadini abbandona il nord e si rifugia nei pressi di Kigali, provocando il terrore nella popolazione per una possibile resa dei conti. Passano dieci mesi e i partiti di opposizione riuniti stabiliscono rapporti con il F.P.R., iniziano manifestazioni di piazza in nome della libertà, le prime da moltissimi anni.

Nel 1992 il presidente Habyarimana, sotto l'alto patronato del presidente dello Zaire, l'inossidabile Mobutu, considerato il prototipo negativo del politico africano, fu costretto a negoziare. Mobutu, con i suoi occhiali scuri e un berretto di pelle di leopardo, anche nel variopinto paesaggio africano, è un personaggio unico. é un cultore delle origini africane, cambia il nome del Congo in Zaire, che significa fiume, invita i suoi sudditi a rinnegare i loro nomi cristiani e ad assumerne di africani, sostituisce il Crocifisso con la sua effige, come Fidel Castro abolisce la festa di Natale e si appropria del potere assoluto. Strappa sempre un sorriso la ferma volontà dei dittatori di turno di voler eliminare la festa natalizia incapaci, nel loro delirio, di afferrarne il significato, il senso, il valore.

Si firmano a luglio i primi accordi di Arusha, con il cessate il fuoco. Per la prima volta i partiti all'opposizione si affacciano alle stanze del potere. Nel gennaio 1993 viene firmato il protocollo degli Accordi di Arusha per la costituzione di un governo di transizione. Continuano i massacri, a febbraio il F.P.R. lancia una nuova offensiva, a marzo a Dar-es-Salaam si raggiunge un ennesimo accordo per il cessate il fuoco e si accetta la risoluzione delle N.U. per l'arrivo di una forza di interposizione. A maggio nuovi accordi per la rinnovazione dell'esercito roccaforte hutu, ma l'hutu Emmanuel Gapysi, uno dei principali esponenti del Mouvement Démocrate Républicain il più grande partito di opposizione, viene assassinato. A giugno nuovo governo di transizione guidato da una donna, Agathe Uwilingiyimana del M.D.R., al quale il F.P.R. non aderisce.

Il quattro agosto, nel palazzo dei congressi di Arusha, finalmente si sottoscrivono gli Accordi di Arusha che avrebbero dovuto portare alla formazione di un nuovo governo con esponenti delle due etnie. Sembra che finalmente, con la fine della guerra e con l'arrivo a Kigali di un battaglione di 600 uomini dell'F.P.R., scortato da truppe belghe del contingente ONU, un avvenire diverso si affacci per il paese. Gli accordi sono estremamente dettagliati, prevedono il ritorno dei profughi tutsi, la restituzione delle terre di loro proprietà, elezioni per il 1995, l'unificazione dell'esercito con una composizione al 60% di reparti governativi, comando in capo alternato, una forza di 19.000 uomini di cui 13.000 soldati e 6000 gendarmi. Tra gli innumerevoli problemi da affrontare vi era anche quello della smobilitazione ammontando l'esercito, senza gendarmi, a 20.000 uomini e i guerriglieri del F.P.R., che sono di gran lunga meglio addestrati, comandati e disciplinati, a circa 15.000. Su richiesta del nuovo governo, l'ONU, che finalmente ha dato segni di vita, a metà del 1993 istituì l'O.N.O.M.U.R. (United Nations Observer Uganda-Ruanda) con il compito di controllare che dal vicino Uganda non giungessero clandestinamente rifornimenti militari alle opposte fazioni. Nell'estate una commissione delle Nazioni Unite visitò il paese e raccomandò l'istituzione di una forza di interposizione fra le parti, il 5 ottobre nasce l'U.N.A.MI.R. (United Nations Observer Uganda-Rwanda).

Ma gli estremisti hutu si oppongono violentemente. Accusano di tradimento il presidente, costituiscono delle milizie con l'appoggio della Guardia presidenziale, nasce un nuovo partito estremista il C.D.R. (Coalition pour la défence de la République), che non firma gli Accordi, schierandosi a destra dell'ex partito unico di cui critica aspramente la politica di apertura. Vi è un malessere generalizzato, sono molti a temere di perdere cariche pubbliche e prebende o a doverle dividere con i Tutsi e i nuovi partiti. Regnano l'odio, la paura, si sviluppano bande di miliziani, la legalità è ormai una parvenza. Una fazione di militari, uniti nell'Amasasu scrive al presidente il 20 gennaio 1993: "[occorre] individuare e distruggere, se occorre, tutti i politici ipocriti che fanno di tutto per gestire questa guerra al fine di conservare illegalmente oppure di conquistare con l'inganno il potere […] Chi vuole la pace prepara la guerra. Noi proponiamo che in ogni comune del Ruanda vi sia almeno un battaglione di giovani robusti iniziati sul posto, anche solo sommariamente, all'arte militare. Questi giovani resteranno là sulla collina, ma pronti a costituire una armata regolare nel caso in cui gli "Inkontanys" non si decidano a rinunciare alle loro ambizioni di conquistare il potere con la forza. I ministeri della Gioventù, della Difesa e dell'Interno si daranno carico di inquadrare questa armata popolare". In ogni comune formazioni di 200-300 giovani sono pronti alla eliminazione del "nemico interno". La macchina del genocidio è predisposta, si aspetta la scintilla.

A fine 1993 arriva la M.I.N.U.A.R. forza di pace dell'O.N.U, agli ordini del generale canadese Dallaire, accolta con belle parole dal presidente. La presenza dei soldati belgi non è vista di buon occhio dai militari, i parà avvertono il clima di ostilità e le difficoltà del loro mandato: "Siamo solo agenti di polizia senza nessun potere. Il mandato che ci è stato affidato dalla risoluzione 872 delle Nazioni Unite ci costringe a sottometterci all'autorità ruandese. Siamo solo peace keeping forces incaricate di mantenere la pace, non abbiamo il potere di imporla". E a ragione: si presume che la pace sia stata conclusa tra i ruandesi, il distaccamento delle Nazioni Unite è sul posto solo per sovrintendere all'applicazione degli accordi. Quando disarmano un uomo sono invitati a restituirgli l'arma perché, viene loro spiegato, ogni soldato in licenza o in congedo ha il diritto di detenerla. Il pericolo viene segnalato al governo belga che muove passi presso Boutros Boutros-Ghali ma il segretario dell'ONU non ritiene opportuno intervenire. Erano passati tre mesi dall'operazione Somalia, nessun paese avrebbe mandato i suoi soldati in Ruanda, nessun paese vuole impegnarsi nella fornace africana. Le ex potenze coloniali, come i paesi africani, si tengono alla larga, anche per i riflessi elettorali che porterebbero eventuali perdite tra i "i soldatini", "i nostri ragazzi" e per le pressioni dei movimenti pacifisti, appoggiati da gruppi politici della estrema sinistra. Intanto mentre il vescovo di Nyundo ammonisce che nella città di Gitarama di 144.000 abitanti vi sono 50.000 fucili, il governo importa dalla Cina, un altissimo numero di machete, considerati "prodotti civili, che distribuisce a contadini, donne, impiegati. La situazione si deteriora giorno dopo giorno.

Il 1994 si apre sotto tristi auspici. Il 18 gennaio Mitterand scrive a Habyarimana: "La Francia appoggia gli accordo di Arusha che devono permettere di stabilire le condizioni della transizione e di fissarne i limiti nel tempo … Mi auguro che continui a prevalere la preoccupazione di risolvere politicamente la vertenza che oppone le due parti". A febbraio vengono assassinati l'hutu Félicien Gatabazi del P.S.D. e Martin Bucyana della C.D.R. in un susseguirsi di omicidi che ricordano i prodromi della guerra civile di Spagna. Nello stesso mese il ministro degli Esteri belga scrive al frastornato presidente, "E' mezzanotte meno cinque …", di rincalzo il suo collega della Difesa Nazionale lo scongiura : "Prenda una iniziativa, la prenda il più presto possibile". Si unisce il segretario di Stato americano: "Bisogna applicare gli accordi di Arusha, accettare di dividere il potere". La Banca Mondiale minaccia di tagliare i fondi per lo sviluppo, il Segretario delle Nazioni Unite, suo buon amico, a sua volta gli fa pressioni.

Gli accadimenti del vicino Burundi gettano benzina sul fuoco. L'hutu Melchior Ndadaye, eletto presidente del paese con libere elezioni, viene assassinato da militari tutsi e la successiva rivolta viene repressa in un mare di sangue. Trionfalmente gli estremisti si impadroniscono della notizia e ammoniscono che quanto successo si potrebbe ripetere in Ruanda. Gli sviluppi degli avvenimenti allarmano i paesi vicini. Il presidente della Tanzania convoca una assemblea a Dar-es-Salaam invitando i presidenti del Ruanda e del Burundi. Habyarimana, strattonato da tutte le parti, accetta di dare esecuzione agli Accordi, ma nel volo di ritorno l'aereo un Mystère-Falcon, si disintegra in una palla di fuoco mentre è in procinto di atterrare. Con lui muore il presidente del Burundi Cyprien Ntaryamira, la cui moglie lo attendeva a Kigali. Le cause del sinistro, un mistero tra i misteri africani, resteranno misteriose. Si parla di un missile o di una bomba sull'aereo. La notizia si diffonde in tutto il paese, del delitto sono accusati i Belgi.

E' la desiderata scintilla per un nuovo sistematico sterminio che coinvolgerà anche gli esponenti Hutu moderati. Nelle prime ore vengono assassinati Agathe Uwilingiyimana primo ministro e Joseph Kavaruganda presidente della Corte Costituzionale, massime autorità alle quali spetta ora il potere, il ministro dell'Informazione Faustin Rucogosa, Boniface Ngulinzira del M.D.R., Lando Ndassingwa ministro del Lavoro con la moglie e la madre. Le truppe, la Guardia presidenziale, i miliziani dell'ex partito unico Parmehutu, gli appartenenti all'Interhamwa, la popolazione iniziano il massacro sistematico dei Tutsi e degli oppositori hutu. Lo sterminio inizia a Kigali, pianificato, organizzato e attuato dalle autorità a tutti i livelli, con dettagliati elenchi delle persone da uccidere, si estende a tutto il paese con la partecipazione della popolazione, incitata dalla Radio Television Libres des Milles Collines, ascoltata con transistors giapponesi in tutto il paese. Vengono lanciati messaggi deliranti: "Muovetevi, datevi da fare, le tombe sono solo piene a metà, non basta, bisogna finire il lavoro!".

Sistematicamente si estende alle scuole, alle chiese, agli ospedali, in una serie di episodi atroci che vedono turbe di contadini armati di machete, di masu mazze guarnite di chiodi, degli strumenti più disparati dare la caccia, inseguire, ferire, uccidere i loro vicini, i loro ex amici tutsi, per cancellarne la presenza e la memoria. Si accompagna al saccheggio, incendio e distruzione delle loro case. I bambini assassinati sono numerosissimi, si vuole colpendoli sradicare la razza. Altri, risparmiati o fuggiti, telefonano ad amici di famiglia: "Papà e mamma sono stati uccisi, che dobbiamo fare?". Spesso nessuno risponde. Quando giunge la sera gli hutu sfiniti tagliano i tendini alle vittime e vanno a riposare dopo essersi ubriacati di birra di banane. E' stato loro spiegato che devono colpire la nuca, la fronte, i tendini, i polsi. Ci si vanta "A coloro che non abbiamo ucciso almeno abbiamo impedito di correre […] le mani che abbiamo tagliato non imbracceranno più fucili contro di noi". Continueranno a sterminare l'indomani metodicamente per giorni e giorni.

Si susseguono atrocità ad atti di eroismo. Come per gli Ebrei nell'Europa nazista sono molti gli Hutu che tentano di aiutare a rischio della morte i loro amici. Tra essi sacerdoti, funzionari governativi, borgomastri e prefetti che spesso, come a Butare e a Kibungo, pagano con la vita. Tra gli uomini "giusti" spicca Paul Rusesabagina, direttore dell'hotel Diplomates della capitale. Quando inizia lo sterminio la Sabena proprietaria dell'albergo si preoccupa solo di rimpatriare il direttore olandese dell'hotel Milles Collines, il più lussuoso di Kigali, che gli viene affidato. E' una strana situazione, nell'hotel vi sono i leader governativi con i loro familiari, il comando militare delle F.A.R. (Forces Armées Rwandaises), i residui della M.I.N.U.A.R. e centinaia di famiglie di Tutsi e Hutu moderati che sono riusciti a raggiungerlo superando i numerosi posti di blocco. Rusesabagina comincia a rifornire regolarmente i dirigenti e i militari di alcool, elargisce somme di denaro, giostra diplomaticamente con gli assassini, si rivolge a generali e colonnelli per negoziare quando la pressione e le minacce diventano insostenibili e, nel frattempo, cerca di ricoverare il maggior numero di Tutsi, li sfama con patate dolci e l'acqua della piscina, il tutto in un paesaggio di morte con gli interahamwe che, con machete e mazze grondanti di sangue, circondano l'albergo in attesa dell'agognato ordine di potervi irrompere. Non si perderà mai di coraggio, telefona, invia fax, chiede soccorsi internazionali. Resisterà fino all'arrivo dei reparti tutsi.

Ma sono eccezioni, tutte le autorità a tutti i livelli, il loro numero sarà in seguito calcolato in 32.000, partecipano, dirigendolo, al genocidio in un clima di esaltazione che li porta a pensare di combattere per una giusta causa. Nell'università di Butare, il preside della facoltà di medicina fratello del defunto presidente e il suo coniuge dirigente della Banca Commerciale del Ruanda preparano liste di colleghi da eliminare. Ne vengono assassinati 87 fra essi molti Hutu originari del Sud. Dal vicino Zaire si elevano vibranti proteste perché si teme l'inquinamento del lago Kivu, che si va intasando di cadaveri. Il saccheggio è sistematico, tutto quello che non può essere asportato viene distrutto.

I sacerdoti stranieri che non hanno accettato di essere evacuati assistono impotenti agli eccidi che non risparmiano nemmeno le chiese, nelle quali tradizionalmente i fedeli si rifugiavano nel momento del pericolo, sicuri della protezione dei pastori. Vedono i loro parrocchiani, che a messa si scambiavano segni di pace, assassinare i loro fratelli in Cristo. A Kigali nel Centro di Spiritualità della Compagnia di Gesù sono uccisi cinque sacerdoti, undici suore e tre gesuiti tutti africani, tre gesuiti europei vengono risparmiati, sarà lo stesso per la maggioranza del clero europeo.

A Mugonero nel Kibuye nella sede degli Aventinisti del Settimo Giorno il massacro è organizzato dal presidente della Chiesa aventinista il pastore Elizaphan Ntakirutimana, il cui nome significava "niente è più grande di Dio". Quando sette pastori aventinisti, scrive Philip Gourevitch, giornalista americano corrispondente dall'Africa, resisi conto che la missione era stata circondata, che i poliziotti addetti alla loro protezione si erano dileguati, gli scrissero: "Desideriamo informarla che domani moriremo con le nostre famiglie" e di intercedere nel nome di Dio per la loro salvezza rispose: "Dovete essere eliminati, Dio non vi vuole più". (4) Moriranno in duemila. Ntakirutimana, fuggito negli Stati Uniti, dopo vari tentativi di sottrarsi all'arresto, verrà consegnato al Tribunale Internazionale di Arusha.

Un commando di dieci parà belgi di guardia alla casa del primo ministro viene fronteggiato da un centinaio di soldati ruandesi che, pazzi di furore, ne chiedono la resa. Il tenente Thierry Lotin chiede ordini al comando che lo invita a trattare: "Fate come gli africani, chiacchierate, guadagnate tempo". Insiste il tenente: "Ci stanno per linciare […] cosa viene a dirci?". La risposta è gelida: "Mi sembra di essere stato chiaro". Verranno seviziati e massacrati dai soldati inferociti che li ritengono complici della morte del presidente. Lotin è l'ultimo, ha il tempo di comunicare: "E' il mio turno: Fine". Muore a 28 anni. L'eccidio suscita in Belgio indignazione, stupore e rabbia.

Ma viene presto dimenticato. Si tratta di uomini definiti sbrigativamente dai sociologi progressisti "professionisti della violenza", la commozione, lo sdegno sono riservati a giornalisti politicamente impegnati. D'altronde in un contesto socioculturale non troppo diverso, l'Italia "repubblicana, democratica e antifascista" un onorevole non rieletto, il sociologo Manconi, portavoce dei Verdi, ha chiesto lo scioglimento della Folgore perché affetta dal culto della violenza.
Il tenente colonnello Dewez si assume la responsabilità dell'accaduto, ha ritenuto necessario rispettare il mandato dell'ONU che poneva i Caschi Blu sotto il comando delle autorità ruandesi. In una vibrante lettera aperta dei militari belgi che hanno partecipato alle operazioni si sostiene: "Accusiamo il comando di mancata assistenza a persone in pericolo, di assenza di spirito di corpo, e mettiamo in discussione la competenza di certi ufficiali in situazioni critiche". Quando il Senato belga istituisce una commissione sull'eccidio dei parà, Kofi Annan rifiutò di testimoniare e impedisce al generale canadese Dallaire, comandante della Minuar, di presentarsi alla commissione. In una lettera spiegò che la Carta dell'ONU concedeva ai suoi funzionari "immunità dai procedimenti giudiziari in merito ai loro atti ufficiali". Il 14 aprile il Belgio ritirò i suoi Caschi Blu, con grande esultanza del governo ruandese, il 21 il Consiglio di Sicurezza dell'ONU, dando un ulteriore ma scontato esempio delle sue capacità, disponeva la riduzione del contingente della MINUAR a 270 uomini, impegnatissimi a salvare la propria pelle.

Va notato che il governo ruandese in quel periodo occupava uno dei seggi temporanei del Consiglio di Sicurezza. Si dovrà arrivare ai primi di giugno affinché il Segretario Generale dell'ONU si accorgesse e affermasse esplicitamente che in Ruanda era in corso un genocidio, mentre l'Alto Commissariato per i Diritti Umani dell'ONU con sottile distinguo giuridico parlava di "possibile genocidio". Viene alla mente la britannica signora Thatcher.

La percezione, le dimensioni del genocidio, che di questo ormai si tratta, sfuggono al resto del mondo. Scrive La Civiltà Cattolica del 21 maggio 1994: "In un comunicato congiunto i vescovi cattolici del Ruanda sollecitavano le autorità governative a neutralizzare tutti i perturbatori della pace sociale. Rendevano omaggio alle forze armate del Ruanda che prendono a cuore il problema della sicurezza e chiedevano loro di continuare a proteggere tutti i cittadini, senza distinzione di etnia, di partiti e di religione".

Il missionario belga Dando Litrick, messo in salvo dai parà belgi, racconta: "Più di mille tutsi (soprattutto donne e bambini) si erano rifugiati nella chiesa di Musha, a 40 chilometri dalla capitale Kigali, cercando di sottrarsi alle bande di civili Hutu. Sono arrivati all'improvviso alle 6,30. Hanno preso a calci la porta, l'hanno spalancata e subito aperto il fuoco a raffica sulla gente inerme, lanciando bombe a mano. Poi si sono accaniti sui superstiti con machete, bastoni e lance. Solo pochissimi ne sono usciti vivi. C'erano 1180 corpi sul pavimento della mia chiesa, 650 dei quali bambini". Padre Henryk Pastuszka, missionario polacco, descrive quanto avvenuto nella sua chiesa a Kigali il 9 aprile: "80 le vittime, quasi tutte Tutsi in gran parte donne e bambini: civili armati di machete, coltelli e bombe a mano si sono accaniti senza pietà contro una massa di indifesi. Si sentiva il rumore delle lame che squarciavano la carne e poi urla, grida di aiuto, gemiti […] Solo pochi Tutsi sono sopravvissuti al massacro, avvenuto poco dopo la messa. E tre giorni dopo gli Hutu sono tornati alla missione e hanno incendiato la cappella dove si erano rifugiati i superstiti che sono morti arsi vivi. E' stato terribile. Le urla della gente che bruciava viva erano intollerabili. Erano in 12, credo, c'erano due donne con i loro piccoli, uno di 2 e l'altro di 3 anni".

E' tutto un popolo cristiano che impazzisce: "Il diavolo è tornato sulla terra". Un ufficiale polacco delle N.U., i cui genitori sono stati uccisi dai tedeschi, (breve parentesi: chi scrive resta sempre perplesso per la trasformazione della parola tedesco in nazista quando si parla delle germaniche efferatezze nella seconda guerra mondiale), alla vista dei massacri commenta: "E' la stessa cosa, con la differenza che i tedeschi, popolo industrializzato, uccidevano con mezzi sofisticati. Qui con i loro machete e i loro coltelli sono più efficaci ancora dei tedeschi". Un prete scrive: "Hitler ha ancora molto da imparare dai ruandesi".

Numerosi e atroci sono le testimonianze del genocidio, ma chi potrà "raccontare" i sentimenti di uomini e donne che sentivano i passi dei massacratori e sapevano che i loro figli sarebbero stati fatti a pezzi? Il numero dei morti in soli due mesi non è mai stato accertato con sicurezza. In un macabro balletto di cifre vengono valutati in 500.000 dalle Nazioni Unite, 1.000.000 secondo le organizzazioni umanitarie e la Croce Rossa Internazionale, tra un milione e due secondo il vincitore Fronte Patriottico. Subito dopo la morte del presidente un gruppo di militari forma un governo militare provvisorio ma, quando il rappresentante delle Nazioni Unite lo rifiuta, si ripiega su esponenti civili che, terrorizzati alla vista dei militari, vengono prelevati nelle loro case.

Il nuovo governo, con Théodore Sindikubwabo presidente della Repubblica, è formato da Jean Kambanda primo ministro, Augustin Bizimana ministro della Difesa, Justin Mugenzi ministro del Commercio, Eleazar Niytegeka ministro dell'Informazione. Di Sindikubwabo, medico di professione, si ricordano le parole: "Eliminate coloro che credono di sapere tutto. Potete fare senza di loro". Saranno accusati dalla Commissione dei Diritti dell'Uomo delle Nazioni Unite insieme con il presidente del M.R.N.D. Mathieu Ngirumpatse, del presidente della C.D.R. Jean-Bosco Barayagwiza, del generale Bizimungu, dei colonnelli Bagosora, Nkundiyee e Mpiranya, del capitano Simbikangwa di genocidio. Dopo l'inizio del genocidio la fuga è generale.

Per porre in salvo circa duemila cittadini occidentali inizia l'operazione Silver Back. Parà francesi e belgi, incursori del Col Moschin dell'Esercito e Teseo Tesei della Marina Militare portano a termine con successo l'operazione. Calorose sono le manifestazioni di riconoscenza verso i salvatori, anche tra coloro che provano una istintiva idiosincrasia per "i professionisti della violenza", le donne sapevano a che cosa erano sfuggite. Vengono alla mente le parole di un ignoto soldato inglese: "Quando gli uomini hanno paura invocano Dio e chiamano i soldati, poi, quando la paura passa, si scordano di Dio e dei soldati". Per i collaboratori e gli uomini politici ruandesi non vi è spazio sugli aerei, verranno nella maggior parte massacrati. Sorte diversa avrà la vedova del presidente e i suoi numerosi familiari che verranno spediti in Francia con un aereo speciale. Tecnicamente l'evacuazione è un successo, moralmente e politicamente una catastrofe per il prestigio delle N.U. che si assomma a una lunga serie di precedenti umiliazioni.

Intanto il F.P.R. sotto il comando di Paul Kagame, passa all'offensiva generale, correndo in aiuto dei Tutsi macellati. Nel 1961 Paul Kagame a quattro anni con la sua famiglia fuggì in Uganda nel corso dei primi disordini scoppiati nella prefettura di Gitarama. Vi restò per tutta la giovinezza in un clima di ostilità verso il "diverso", che si accentuò nel periodo delle dittature del famigerato Idi Amini e di Milton Obote. Ufficiale dell'esercito ugandese si recò negli Stati Uniti per un corso di addestramento a Fort Leavenworth. Quando gli giunse la notizia della morte di un amico di infanzia Fred Rwigyema, caduto nei primi scontri, ritornò in Uganda e si arruolò nei guerriglieri. Assunse in seguito il comando delle forze del F.P.R. che, trasformato in un solido strumento militare e condusse alla vittoria con un misero armamento di mortai, bazooka e Kalashnikov, un'arma popolare tra i soldati perché: "Istintiva, di facile manutenzione e soprattutto perché funzionava sempre". (6) Schivo, riservato, adorato dai suoi soldati, dimostrò grandi doti di stratega, impose una rigida disciplina inusitata negli eserciti africani, vietando ai guerriglieri di sposarsi, come nell'esercito partigiano di Tito, prima della fine delle ostilità.

Dopo i primissimi scontri, con grande stupore degli istruttori francesi e degli esperti militari internazionali, l'esercito ruandese e le milizia Interhamwa si dissolsero. Un esercito bene armato cedette di schianto di fronte a truppe con armamenti ed effettivi di gran lunga inferiori ma con capacità militari di gran lunga superiori. Bisogna ricordare Clausewitz: "L'entità dei mezzi potrebbe venire approssimativamente determinata, poiché dipende (sebbene non completamente) in gran parte da elementi numerici. La forza di volontà è invece assai meno determinabile; si può tuttalpiù congetturarla secondo l'importanza delle cause di guerra". Alla forza morale si associava l'addestramento. Del F.P.R., scriveva il comandante dell'U.S. Army School for Advanced Military Studies: "Sa che cos'è la disciplina. Cosa significa la velocità. Cosa significa la mobilità". Ancora una volta una società intellettualmente superiore dimostrava le sue superiori capacità militari. Il ricordo va alla Germania dei conflitti mondiali e allo Stato israeliano del dopoguerra.

Il 4 luglio 1994 Kigali e Butare vengono conquistate, il 17 con l'arrivo a Gisenyi finisce la brevissima guerra, viene formato un governo di unità nazionale, si invitano i profughi a tornare in patria. Alla notizia dell'avanzata inizia una precipitosa, generale fuga. I primi reparti entrati nel paese si trovarono di fronte a uno spettacolo allucinante. Infrastrutture, scuole, servizi sanitari e strutture pubbliche saccheggiati e distrutti, mezzi pubblici asportati, servizi idrici e di energia elettrica smantellati, impianti e fabbriche in totale abbandono con macchinari e utensili fracassati, strade deserte, case abbandonate e cadaveri, cadaveri, cadaveri ovunque, in fosse comuni, per le strade, nelle case, nelle chiese, nelle latrine, seviziati, mutilati, decapitati, bruciati vivi o da morti. Molti erano privi delle mani e dei piedi, gli assassini si sarebbero vantati di averli "accorciati".

La tragedia é fatta anche di piccoli particolari. Quando i rappresentanti della stampa internazionale si precipitarono nel paese furono colpiti dalla mancanza di cani, una delle componenti della quotidiana vita africana. Dovette essere spiegato loro che erano stati sistematicamente abbattuti perché traevano abbondanti pasti dai cadaveri abbandonati. I sopravvissuti, in stato di gravissima prostrazione, con un numero di suicidi altissimo, vagavano alla ricerca di familiari, spesso fortunati a non trovarli. Tra essi torme di bambini senza genitori, uno studio dell'U.N.I.C.E.F. accertò che cinque su sei ne avevano assistito alla morte. Molti rimpiansero di non essere stati uccisi, secondo Pacifique Kabarisa dell'African Rights.

Con i vincitori tornarono, in un numero calcolato in 750.000, i Tutsi della diaspora, festanti e festosi, ansiosi di costruire un nuovo paese al quale apportare le loro indubbie qualità che avevano messo in mostra nei paesi dell'esilio. Con loro portarono circa un milione di bovini. Alla notizia delle prime vittorie dell'F.P.R. la popolazione hutu fugge in massima parte verso lo Zaire, preceduta dai suoi difensori, i soldati e i miliziani. Il numero è calcolato approssimativamente in due-tre milioni, ma le cifre, ancora una volta va ribadito, nel contesto africano sono sempre puramente indicative. Fuggono tutti, governo, autorità, burocrati di tutti i livelli, intellettuali, la stragrande maggioranza della popolazione che temeva le conseguenze della quasi totale partecipazione a quello che fu chiamato "genocidio popolare". I contadini fuggono obbedendo agli ordini dei loro capi e padroni. Nel contesto sociale ruandese per il popolo l'obbedienza è rituale, accompagnata alla riverenza per il potere. Il presidente Mobutu, grande protettore dell'etnia hutu, amico del defunto Habyarimana, accolse le torme di profughi che si riversavano nei suoi confini invocando l'aiuto della comunità internazionale per il loro sostentamento.

Nel mese di luglio solo nella piccola città di Goma, in una zona di origine vulcanica assolutamente inadatta a sopportarne il peso, si ammassarono 800.000 rifugiati, in un paesaggio di inferno dantesco, con il conseguente collasso delle strutture. Per un fenomeno mediatico di non difficile spiegazione il mondo civile scoprì dai telegiornali all'ora di cena, la tragedia non del massacro dei tutsi ma dell'esodo delle popolazioni hutu. L'esodo è un avvenimento "visibile" che commuove gli spettatori. Nella sovrabbondanza dei mezzi di informazione che provoca l'insicurezza dell'informazione il messaggio è semplice, spettacolare, influente, facilmente percettibile e raggiunge tutto "il villaggio globale". Le foto di bambini dall'aspetto emaciato che fanno il giro del mondo, abilmente manipolate dalle autorità mandanti dei massacri, suscitano grande commozione in una società afflitta dal complesso "dell'uomo bianco", autore o incapace di impedire tutto il male passato, presente e futuro del mondo. Gli "opinion leader" non sono in grado di interpretare le cause e le motivazioni che sono dietro. Almeno in Italia mancano storici, studiosi, esperti in grado di spiegare gli avvenimenti e gli inviati speciali che si riversano sul territorio sono dei "tuttologi" che esprimono opinioni su tutti gli accadimenti, senza nessuna specializzazione.

L'esodo di quasi una intera popolazione in un paese vicino, in questo caso lo Zaire, determinò l'occupazione di fatto di una parte del territorio, fenomeno già rilevato in Libano con i profughi palestinesi e come nel Libano negli estesi campi profughi si mimetizzarono i capi e i resti dell'esercito e delle milizie sconfitte. Ben presto "l'Hutu power" si organizza, ricrea l'organizzazione militare che si era dissolta, acquista armamenti, organizza reparti di guerriglieri nell'acquiescenza delle organizzazioni umanitarie e dell'ACNUR dell'ONU che le dirige. Diventeranno "santuari" da cui iniziare la guerriglia. Nasce una nuova organizzazione l'R.D.R. (Rassemblement Démocratique pour le Retour) che rivolge roventi accuse al nuovo governo e invoca una amnistia generale. L'ACNUR, che dovrebbe limitare l'aiuto ai rifugiati politici, persone che per le loro idee sarebbero perseguitati nei paesi di provenienza, li calcola in un milione e duecentocinquantamila, l'Alto Commissariato per i Rifugiati a un milione, ma il numero resta un mistero, i dirigenti hutu rifiutano ogni censimento e si oppongono minacciosamente a ogni tentativo dei cooperanti.

Di certo il costo per il mantenimento dei campi è di circa un milione di dollari al giorno, ne beneficiano anche i dipendenti delle circa duecento organizzazioni umanitarie, molte in cerca di pubblicità e i fornitori dei materiali. Si stabiliscono proficui commerci con gli abitanti delle zone limitrofe che vi arrivano per acquisti o per baratti. Sono in molti a pensare che la vita nei campi è meno difficoltosa di quella dei superstiti Tutsi in Ruanda. La situazione può essere riassunta da un delegato della Croce Rossa Svizzera: "Se l'aiuto umanitario diventa una cortina fumogena che impedisce di vedere le conseguenze delle proprie scelte, e se gli stati ci si nascondono dietro usandolo come strumento politico, allora dobbiamo ammettere di essere parte del conflitto".

Il crollo delle forze armate ruandesi sotto la spinta dei ribelli provoca grave imbarazzo nel governo francese che aveva incluso il paese nella comunità francofona e ne era il migliore amico, succedendo ai belgi. I rapporti erano così amichevoli che nel 1995 il defunto Habyarimana verrà ricordato con un minuto di silenzio all'annuale riunione dei leader dell'Africa francofona che si svolse a Biarritz, dalla quale il presidente del Ruanda era stato escluso. Il presidente Mitterand, di fronte al disastro ruandese, spinto dalle critiche alla la sua politica africana, aveva dichiarato il 18 giugno nell'assemblea dell'ONU: "Comunque sia, andremo, è una questione di giorni e di ore". Con la Risoluzione 929 del Consiglio di Sicurezza si autorizza una operazione di mantenimento della pace da parte della Francia. Il ministro degli esteri Juppé invita gli occidentali a scuotersi dal torpore e dall'inerzia. A lui si uniscono l'opinione pubblica internazionale turbata all'ora dei pasti dai telegiornali e le potenti organizzazioni nonviolente di tutto il mondo, che, come per la Jugoslavia, chiederanno l'intervento dei militari quando l'orrore ha superato il loro convinto pacifismo, le loro remore morali. Saranno però sempre pronte a stigmatizzarne aspramente gli scontri a fuoco che portino a vittime tra le popolazioni civili, a perdite nemiche, a perdite amiche e, nel futuro come per il passato, a opporsi a stanziamenti finanziari.

A luglio inizia l'operazione Turquoise, che durerà due mesi. 2500 soldati francesi, affiancati da contingenti senegalesi, si interposero fra le due parti, portando soccorso e assistenza. Stabiliscono nel territorio a sud-ovest del paese una "zona umanitaria di sicurezza" nella quale si rifugiano centinaia di migliaia di hutu insieme con gli autori del genocidio, i quali nella sicurezza dei campi pianificano nuove offensive. La missione durerà due mesi e sarà sostituita da quella dell'ONU.

L'ONU, come la Società delle Nazioni, è un campionario di occasioni fallite. Il Ruanda si assomma alla ex Jugoslavia e alla Somalia, mentre, nell'impotenza dell'organizzazione mondiale, nel Kosovo dovrà intervenire la NATO. L'Organizzazione è una scatola vuota che può essere riempita solo con l'impegno delle grandi potenze, impegno condizionato sempre dall'opinione pubblica e dagli interessi nazionali. La sua collaudata impotenza si accompagna a quella dell'O.A.U., definita con involontaria ironia "la piccola ONU africana". E' sufficiente notare per dare una idea dello "spessore" dell'organizzazione, priva di ogni credibilità militare, che diversi paesi furono sospesi dalla partecipazione alle attività istituzionali per il ritardato pagamento delle quote di finanziamento. I reparti militari, carenti in strutture, organizzazione, armamenti, equipaggiamenti e addestramento, possono schierarsi solo con il supporto delle potenze occidentali.

La situazione sarà fotografata in un discorso di Paolo Fulci, ambasciatore italiano alle Nazioni Unite, nel successivo 1997: "Non bisogna dimenticare quella tragica immagine trasmessa dalla CNN in Somalia: il cadavere di un marine trascinato per i piedi nella polvere di Mogadiscio da un gruppo di energumeni. Da quel giorno le operazioni internazionali sono cambiate: nessun Paese vuol vedere i suoi soldati ridotti a fantocci sanguinolenti per aver cercato di riportare ordine in un posto dove l'ordine non lo vogliono".

Anche il comportamento della Chiesa, timido, incerto e contraddittorio, non fu all'altezza degli accadimenti e si prestò a critiche roventi. Si può riassumere nelle parole di un prelato, padre Ugirashebuya: "Con questi precedenti, è stato difficilissimo collaborare con il nuovo governo tutsi. Ma la Chiesa ha veramente istigato gli Hutu al genocidio? O ha colpa per non aver fatto nulla per fermare gli assassini? La Chiesa è stata assente, forse colpevole. Ancora oggi siamo a metà strada. Timidi e incerti". In una intervista concessa al quotidiano De Morgen del 16 aprile 1994 padre Walter Aelvoet, direttore del collegio di Kapgayi, sostiene: "Per noi la storia è cominciata nel 1959. Tutto quello che ci ha preceduto era la cultura dei Tutsi. Ho vissuto in modo molto doloroso la rivolta degli Hutu poiché vi sono stati dei morti. Ma in fondo ero felice. Si trattava di un momento storico: la liberazione di un popolo. Ricordo ancora la morte del Mwami: ho comunicato la notizia ai miei alunni del collegio. Ho detto loro che il giorno dopo avremmo celebrato una messa di Requiem. Ma ho aggiunto che in realtà era un Te Deum che avremmo dovuto cantare. […] Ho sotterrato i primi capi tutsi a Gitarama. Gli Hutu gesticolavano con i loro machete e gridavano: "Devono tornare in Abissinia. Non ce l'avevano con noi che seppellivamo questa gente".

Una indicazione della incapacità della Chiesa ruandese di "leggere" gli avvenimenti si può trarre da un articoletto pubblicato sulla rivista dei Padri Bianchi nel 1969. L'autore padre Enzo Maida da un anno parroco in una parrocchia "sperduta sulle montagne di una regione del Ruanda" ove "era arrivato quando tristi avvenimenti che andarono poi sotto il nome di 'rivoluzione del 59', volgevano quasi alla fine e che assieme a tanto bene avevano lasciato morti, famiglie divise, case e campi distrutti e tanto e tanto odio […] trovò la gente molto spaurita, divisa, astiosa anche con la Chiesa! […] il tempo a poco a poco aveva sanato quelle ferite […] Sembrava che tutto procedesse bene in quella parrocchia. L'odio, la divisione, la paura, l'astio erano quasi scomparsi del tutto […] Eppure il buon parroco non era contento, non era soddisfatto. Da certe parole, da certi gesti, da certi rapporti capiva che nella sua parrocchia c'era il male, un male profondo e diffuso. Il diavolo lavorava sodo in mezzo alla sua gente. Il buon parroco lo sentiva nell'aria ma non sapeva individuarlo. […] Decise di riunire il Consiglio parrocchiale e metterlo al corrente delle sue pene e delle sue preoccupazioni. […] I membri del Consiglio parrocchiale stavano ad ascoltare impalati come tante statue, […] infine una brava donna prese la parola per denunziare che il parroco aveva ragione […] che il diavolo c'era e che lavorava sotto la forma della donna e della birra. La birra e la donna […] ecco il male! Ecco la tentazione!!! Infatti da dopo i famosi avvenimenti, molte bettole erano sorte sulle colline e lungo le strade ed erano sempre frequentate … molti mariti non rispettavano più le loro legittime mogli, molti giovanotti avevano dimenticato le antiche buone usanze e i comandamenti di Dio e molte signorinelle svolazzavano come tante farfalle attorno alle bettole e soprattutto nei mercati. […] la donna e la birra erano il male che minava le anime della parrocchia. Tutti i movimenti di Azione Cattolica, e soprattutto la Legione di Maria, furono mobilitati per sensibilizzare le masse su tale problema. […] E nella Parrocchia qualcosa cambiò. Certamente il diavolo non era contento di tale iniziativa che ne metteva a nudo la sua opera perniciosa e maligna. Ancora una volta il diavolo era stato vinto e questa volta vinto dai laici". (5)

Colpisce l'ingenuità di un sacerdote, armato di tutto l'amore per i fratelli neri, che, di fronte a un vulcano apparentemente addormentato, il Ruanda della fine degli anni sessanta, pur avvertendo istintivamente lo stato di tensione, di malessere che esisteva tra i suoi parrocchiani non riesce ad afferrarne le motivazioni risalenti ai "tristi avvenimenti che andarono poi sotto il nome di - rivoluzione del 59 -" e le attribuisce al diavolo e alla corruzione sessuale che allignava tra i suoi parrocchiani. D'altronde uno storico di valore, il missionario Louis de Lacger, in una storia del Ruanda scritta negli anni '50' osservava: "Uno dei fenomeni più sorprendenti della geografia umana del Ruanda è certamente il contrasto tra la pluralità delle razze e il sentimento di unità nazionale. I nativi di questo paese nutrono un sincero sentimento di appartenenza a un unico popolo" aggiungendo "Ci sono pochi popoli in Europa tra i quali sia possibile trovare questi tre fattori di coesione nazionale: un'unica lingua, un'unica fede, un'unica legge".

Nel corso di una commemorazione il presidente del Ruanda Bizimungu si scagliò con veementi parole contro il vescovo Augustin Misago della diocesi di Gikongoro di etnia Hutu accusandolo pubblicamente di essere uno dei mandanti delle stragi avvenute il 7 aprile 1994 a Kibeho, sede della sua diocesi, dove ventimila Tutsi furono massacrati: "Abbiamo atteso a lungo che la chiesa intervenisse, se non lo fa, lo faremo noi!". Privat Rutazibwa un ex prete, con lo zelo degli spretati, scriveva sul giornale filo governativo New Times: "Il Vaticano ci deve chiedere scusa, riconoscere il fallimento, ammettere le responsabilità". Il giornale è in prima fila nella campagna contro la Chiesa cattolica, pubblica una vignetta in cui si vede il vescovo con la croce uncinata sulla mitra che cammina fra i teschi. Arrestato il 19 aprile 1999 il processo si svolge dopo 13 mesi di detenzione a Kigali; il 6 luglio 2002 è assolto e restituito alla sua diocesi. Ha passato la detenzione in un carcere dove ottomila persone vivono: "nello spazio di un campo di calcio", come scrive il giornalista Gabriele Romagnoli e dove nel 1999 muoiono 761 detenuti.

Le incertezze che regnano nella Chiesa cattolica possono essere riassunte nelle parole del presidente del Comitato degli Istituti Missionari padre Desouter, che aveva passato 26 anni in Africa, pronunciate il 20 luglio 1994 quando i corpi degli assassinati sanguinavano ancora: "Sono quelli che hanno conquistato il potere con le armi che hanno incitato tanti hutu disperati ai massacri […] L'attuale conflitto non è tanto politico bensì etnico. Il Fronte si occupa solo della riconquista brutale del potere perduto nel 1959 durante la rivoluzione hutu". Quello della Chiesa cattolica è un dramma nel dramma.

Un altro dramma si consuma, è il dramma personale di un soldato. Si legge sul quotidiano Il Foglio di sabato 5 marzo 2005 a firma di Guglielmo Verderame: "A capo della missione dell'ONU, nel 1994, c'era un generale canadese, Roméo Dallaire, che si rifiutò di accettare la logica del silenzio del Palazzo di Vetro. Nelle sue memorie di recente pubblicazione "Shake Hands with the Devil: The failure of Humanity in Ruanda", Dallaire racconta che alcuni mesi prima dell'inizio del genocidio era riuscito a scoprire i piani di sterminio dell'Hinterahamwe, le milizie hutu. Riferì il tutto sia a Kofi Annan, allora sottosegretario generale incaricato di peacekeeping, sia al capo politico della missione ONU in Ruanda ma la reazione di entrambi fu nello spirito della peggiore mentalità burocratica onusiana: essere cauti, non divulgare queste informazioni, non disturbare il segretario generale, Boutros-Ghali, scordarsi d'ogni tipo di missione preventiva. Più tardi Dellaire chiese rinforzi, ma ottenne invece una riduzione del suo contingente. Il generale canadese rimase in Ruanda salvò migliaia di persone. Ma l'esperienza lo segnò per sempre: dopo un tentato suicidio nel 2000, gli fu diagnosticata la sindrome di disordine da stress post-traumatico e l'esercito lo congedò. Per gli spettatori internazionali della tragedia ruandese la vita e la carriera sono continuate. Per i diretti responsabili del genocidio non è stato così: Dallaire ha testimoniato al processo contro il colonnello Bagosora, il diavolo la cui mano Dallaire dovette stringere più volte durante i mesi del genocidio. La leaderdship è finita sotto processo e, in parte, é stata condannata. L'umanità non avrà ancora imparato a prevenire e impedire il genocidio, ma ha almeno imparato a punirlo".

I nuovi dirigenti auspicarono una giustizia applicata da tribunali ruandesi assistiti da giuristi stranieri, ma il Consiglio di Sicurezza dell'ONU istituì nel novembre 1994 l'I.C.T.R. (International Criminal Tribunal for Rwanda), con una struttura gemella del Tribunale dell'Aja per l'ex Jugoslavia, stabilendo la sede ad Arusha in Tanzania e una sede distaccata a Kigali, per la parte investigativa. Obiettivo era il perseguimento degli autori delle violazioni alle leggi umanitarie per il periodo dal primo gennaio al 31 dicembre 1994. Sarà un relatore nominato dal Consiglio, il preside della facoltà di diritto di Abidjan della Costa d'Avorio, a inchiodare i responsabili con un dettagliato rapporto sul terzo genocidio del secolo passato. Come per i crimini commessi nell'ex Jugoslavia la pena di morte non è prevista.

Alla fine del 1999, 32 sono gli imputati detenuti da quattro anni, i processi si svolgono con straordinaria lentezza. Nel 1997 il dittatore keniano Daniel Arap Moi, che aveva rotti i rapporti col Ruanda dopo la morte di Habyarimana, ricevette Kagame e, in seguito, fece arrestare sette dei maggiori ricercati per il genocidio consegnandoli al Tribunale internazionale. Tra essi il generale Gratin Kabiligi ex comandante nel Congo dei guerriglieri hutu e Georges Ruggiu, belga di origine italiana, che aveva imperversato dai microfoni della R.T.L.M, incitando al massacro: "Voi scarafaggi dovete capire che siete fatti di carne. Non vi permetteremo di uccidere. Vi uccideremo noi". Stessa sorte per Ngeze Hassan che nel dicembre 1990 aveva scritto i farneticanti "Dieci Comandamenti Hutu", nei quali parla della purezza della razza hutu, del pericolo rappresentato dalle donne tutsi per la loro bellezza, dei disegni dei nemici di sempre: "Il loro unico scopo è la supremazia del loro gruppo etnico". Ancora invitava a non avere con loro rapporti di affari, a mantenersi "uniti e solidali", a "mantenere tutte le posizioni strategiche, politiche, amministrative, economiche" in un parossismo ideologico che ricorda i sinistri Goebbels e Rosemberg. Nel 1998 l'ex primo ministro del governo hutu, Jean Kambanda, fuggito in Tanzania, è condannato all'ergastolo. Estradato dal Kenia è il primo esponente hutu ad ammettere di avere ordinato il genocidio. Le pene inflitte saranno scontate nelle carceri svedesi. Nel periodo in cui erano a disposizione del Tribunale Internazionale i detenuti elevarono una formale, educata richiesta per ottenere per la prima colazione una zuppa ruandese invece di croissant.

Nel tempo tornò la massima parte di coloro che erano precipitosamente fuggiti, moltissimi assassini e pochi spettatori. Per circa due anni il problema aveva permeato la vita pubblica, aggravato dalla guerriglia che veniva scatenata dal confine zairese, con l'esercito che effettuava rapide puntate nei campi profughi in un contesto che ricorda le operazioni israeliane in Libano e nella Striscia di Gaza. Il ritorno in massa durò anni per l'opposizione violenta dell'"Hutu power", terrorizzato dal prosciugamento del mare in cui nuotava.

Il 19 novembre 1996, data che viene ricordata come l'inizio del ritorno in massa dallo Zaire, il presidente del Ruanda si recò a riceverli al confine, parlò della grandissima gioia per tutti i ruandesi, aggiunse: "Lasciate che faccia appello a coloro che hanno scelto il sentiero della violenza e del conflitto per ricordare loro che anch'essi sono ruandesi. Voglio chiedervi di abbandonare i vostri propositi genocidi e distruttivi, di riavvicinarvi agli altri ruandesi e di volgere le vostre energie a miglior uso […] Ancora una volta, benvenuti a casa". Con i programmi di inserimento molti vennero ricoverati in "campi di solidarietà" e per due mesi sottoposti a un "processo di rieducazione alla tolleranza", sui cui limiti, modalità e fini nulla si sa, anche se richiamano alla memoria i sinistri campi istituiti, per limitarsi a tempi recenti, in Cina e in Vietnam.

Mentre per il genocidio perpetrato dalla Germania nazista fu concorde la volontà internazionale perché imperituro ne restasse la Memoria nei secoli, per quello ruandese la società internazionale, le grandi organizzazioni umanitarie, la Chiesa cattolica invitarono al perdono, a girare pagina, all'oblio, ad accogliere i profughi senza animosità, con la straordinaria qualità degli uomini di perdonare le offese non ricevute, ma perdonare era doloroso. Il razzismo è fatto anche di sfumature?

Le parole di un uomo, che vide la sua famiglia fatta a pezzi a colpi di machete, sono macigni: "Ma come si può accettare che gli assassini tornino ad abitare alla porta accanto?". Il problema della giustizia, della punizione si pose in tutta la sua gravità e in modo non diverso da altri sventurati paesi, il Cile di Pinochet, l'Argentina dei militari e dei desparacidos, l'Unione africana dei razzisti bianchi, l'Unione Sovietica e le ex democrazie popolari con i loro sinistri apparati repressivi, la Cambogia di Pol Pot. Solo a Taba, località piccolissima che non risulta sulla carta geografica, i detenuti per genocidio erano 640. Nell'aprile 1995 secondo dati governativi i detenuti erano 33.000, salirono a 60.000 alla fine dell'anno, 125.000 alla fine dell'anno successivo. Nell'agosto 2001 erano scesi a 115.000. Secondo Amnesty International nel suo Rapporto per il 1999 i detenuti erano 130.000.

Paul Kagame, che era stato il principale artefice della vittoria, parlando degli assassini disse: "Credo che non ci si debba arrendere con quel genere di persone […] Possono imparare. […] secondo me alcune persone possono trarre giovamento dal fatto di essere perdonate, di vedersi concessa un'altra opportunità" e aggiunse, centrando quello che era il punto focale del problema: "E comunque non abbiamo altra scelta". Fare giustizia era difficilissimo in un paese in cui il sistema giudiziario si era dissolto, paralizzato, come tutte le strutture statali, dalla mancanza di fondi finanziari interamente asportati dal governo in fuga. Per due anni e mezzo non si tennero processi in quanto non era tecnicamente possibile istruire le procedure. Si decise infine di punire solo i mandanti stabilendo diversi gradi di responsabilità. "Con gli ideatori del genocidio non avremo pietà, devono affrontare la giustizia, invece non mi preoccupano altrettanto i semplici contadini che hanno impugnato i machete e fatto a pezzi la gente come animali" sostenne Kagami.

Il vice ministro della Giustizia Gerald Gahima aggiunse: "In pratica stiamo cercando di evitare guai alla maggior quantità di gente comune possibile, ma questa non è giustizia, non è vero? Non è la giustizia prevista dalla legge. Non è la giustizia desiderata dalla maggioranza delle persone. E' solo la miglior giustizia possibile nelle attuali circostanze". Con questi criteri alla fine del 1999 erano stati celebrati 800 processi, con 74 condanne a morte e 22 giustiziati, resistendo a una ondata di invocazioni da tutto il mondo civile che, in uno schieramento trasversale che andava dal papa agli schieramenti più agguerriti contrari alla pena di morte, invocava clemenza per gli assassini. Va aggiunto che le pressioni non raggiunsero l'acme che caratterizza le campagne contro le esecuzioni negli Stati Uniti ma non furono nemmeno blande come quelle avanzate contro le esecuzioni in Cina o, ultimissimo caso, a Cuba. Nessuno uccida Caino, ma vi sono "caini e caini".

Nel corso dell'avanzata in Germania le truppe alleate in molti casi obbligarono gli abitanti dei paesi nei pressi dei campi di sterminio a procedere alla raccolta e alla sepoltura dei morti. Lo stesso avvenne in Ruanda. In pubbliche cerimonie alla presenza delle autorità i contadini hutu dovettero disseppellire i morti, ricomporli, sistemarli in tendoni di plastica e nuovamente seppellirli in fosse comuni mentre si domandava loro dove erano quando i loro vicini erano stati uccisi. Alla politica della vendetta si sostituiva l'unica possibile, quella del perdono. L'epitaffio funebre di questo genocidio è riassunto dalla responsabile di una associazione di donne ruandesi: "Il dramma del nostro paese è che il genocidio è stato commesso dai ruandesi. I vicini si sono scagliati l'uno contro l'altro, e oggi siamo tornati a vivere insieme. E' una situazione difficile. La comunità degli aggressori e quella delle vittime devono spartire la stessa casa". Il tempo pietoso stenderà una coltre su uccisori e uccisi in un paese le cui piaghe sanguineranno per molto?

Sul genocidio vale la pena di soffermarsi, ricordando le parole di Victor Hugo: "Da quando in qua l'orrore esclude lo studio?" La parola genocidio secondo il professore Raphael Lemkin dell'Università di Yale in un libro pubblicato nel 1944 significa: "un piano coordinato [di uno Stato] di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali per annientare questi gruppi stessi". L'undici dicembre 1946 l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, alla luce degli orrori nazisti, dichiarò il genocidio crimine secondo il diritto internazionale.

Il nove dicembre 1948 l'Assemblea adottò la risoluzione n.260 A III), Convenzione sulla prevenzione e punizione del crimine di genocidio che obbligava le "parti contraenti" a "impegnarsi nel prevenire e punire […] atti commessi nell'intento di distruggere, del tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso". I firmatari si dichiararono uniti nel proposito di evitare la ripetizione dell'Olocausto e si impegnavano a intervenire in caso di denuncia del crimine. In Ruanda, l'Assemblea Generale dell'ONU, il Consiglio di Sicurezza, le nazioni "civili" non mossero un dito per prevenire, impedire, fronteggiare, ridurre, porre fine a quello che è stato definito, con approssimazione, il terzo genocidio del secolo che si è appena chiuso.

In una lunga, dolorosa cadenza gli Armeni nell'impero ottomano, gli Ebrei nella Germania nazista, i Serbi, i Croati, i Bosniaci, gli Albanesi nell'ex Jugoslavia di Tito, i Ceceni nell'Unione Sovietica, i Cambogiani di Pol Pot e dei khmer rossi, i Tutsi ruandesi uomini, donne, bambini muoiono non per quello che fanno ma per quello che sono. Come è possibile che gruppi di uomini compiano atti orrendi senza esitazioni? Sono uomini normali, che nutrono normali sentimenti. Le foto di Stalin che abbraccia teneramente la figlia Svetana fanno parte della storia, le S.S. scrivevano tenere lettere alle loro mamme lontane. Esiste un confine invalicabile alla irrazionalità dell'uomo che sfugge al giudizio degli storici? Sicuramente il genocidio è una costante che, come un piano inclinato, travolge individui nell'annientamento totale di un determinato insieme sociale.

Cercare di capire a ciglio asciutto le origini, le cause, le motivazioni del genocidio perpetrato nel Ruanda è cosa ardua, perché ha caratteri di atipicità, non rientra nei canoni classici. Non può essere attribuito a questioni di confini, sia pure sempre malamente tracciati dalle potenze coloniali. Non nasce da motivazioni ideologiche come avviene in Mozambico e Angola nella dogmatica divisione tra movimenti che si rifacevano a principi collettivistici di ispirazione comunista e fautori del mondo libero. Non nasce dalla lotta dei neri contro la volontà sopraffattrice dei bianchi come in Sudafrica. Non nasce come logica manifestazione di due totalitarismi, il nazismo e il comunismo, lebbra del secolo ventesimo, ideologicamente basati sulla eliminazione di una razza o di determinate classi sociali. Sono due popoli uniti dalla lingua, dalla religione, dalla cultura che da secoli convivono pacificamente sullo stesso territorio, uniti dalla lotta unitaria contro una potenza coloniale per raggiungere la libertà. "Senza materie prime appetibili dalle grandi nazioni industriali", scriveva La Civiltà Cattolica nel luglio 1972, rivista alla quale va riconosciuto il merito di avere sempre seguito con partecipazione gli avvenimenti. (7) Per gli analisti marxisti le difficoltà di incasellare il fenomeno sono evidenti. Manca il petrolio o altre ricchezze minerali e quindi non può essere attribuito a oscure mire statunitensi o delle multinazionali che, nell'immaginario "progressista", hanno preso il posto della già odiata borghesia. L'ipotesi di una alleanza tra l'imperialismo e locali gruppi borghesi non é portata avanti, anche se immancabili sono i richiami al neocolonialismo.

Un esempio di queste difficoltà si evidenzia in uno studio di Carlo Carbone, accreditato studioso dell'Istituto Gramsci: "In Burundi […] il minore contrasto tra le caste e quindi la minore presa che tale contrasto offriva alle influenze colonialiste, permise che l'azione di emancipazione fosse condotta unitariamente e con successo. E' vero che il Burundi soffre ancora del suo passato, che esso è stato preda, come si è visto, di gravi turbamenti interni, ma le sue capacità di risollevarsi, non sono inferiori a quelle dei paesi africani che hanno subito un'analoga condizione coloniale". (8) Carbone scriveva queste parole nel 1967 quando la profonda sicurezza della Sinistra europea sul radioso avvenire che la fine del colonialismo avrebbe portato alle risorte nazioni africane non era ancora stata scalfita dal peso della storia.

Il genocidio nasce dall'avidità di potere di gruppi dirigenti hutu, in lotte anche intestine per prebende, posti pubblici, prestigio e ricchezze al di fuori di ogni motivazione morale o ideologica. Nasce dal complesso di inferiorità, dalla sudditanza psicologica, dall'odio verso il "diverso" che si percepisce superiore. Protagonista e attore principale è il popolo hutu, i contadini delle mille colline legati da una sottomissione, da una obbedienza totale ai capi dell' "Hutu power" dai quali vengono manipolati. Il genocidio nella Germania di Hitler è perpetrato dai reparti S.S. composti da soldati animati da un fortissimo credo ideologico, nell'Unione Sovietica di Stalin dalle formazioni del N.K.V.D. con la loro terrorizzata acquiescenza ai voleri del despota, in una parola minoranze armate di popolazioni indifferenti, conniventi, avverse o terrorizzate, nel Ruanda degli Hutu è un intero popolo che volontariamente vi partecipa con tutte le sue componenti, con azioni di massa alle quali nessuno vuole o può sottrarsi, perché il "diverso" deve scomparire, deve essere annientato, per continuare a vivere. Non vi sono carnefici e spettatori ma solo carnefici i quali ritengono la carneficina un oggettivo rimedio ad una situazione di necessità.

Il carismatico arcivescovo di Città del Capo Desmond Mpilo Tutu, premio Nobel per la Pace nel 1984, combattente per l'abolizione dell'appartheid in Sudafrica, visitò il paese nel luglio 1995. Ebbe parole accorate: "[in Sudafrica] avevamo lingue differenti, avevamo razze differenti, avevamo culture differenti […] Voi invece siete tutti neri. Voi parlate un'unica lingua". In seguito in un colloquio con i leader governativi aggiunse: "Vengo come africano. Vengo come uno che, volente o nolente, si sente coinvolto dalla vergogna, dalla disgrazia, dai fallimenti dell'Africa. Perché io sono africano, e quanto accade qui, quanto accade in Nigeria, quanto accade in ogni angolo del continente, diventa parte della mia esperienza". Propose la formazione di due Stati etnicamente omogenei, trasferendo completamente un'etnia in uno dei due, con una emigrazione organizzata, ma la soluzione, già avanzata in precedenza, era impossibile per la somma di problemi che andavano affrontati. Il sistema era già stato applicato con accordi internazionali negli anni Venti tra le popolazioni greche che vivevano in Turchia e quelle turche in Grecia. Non era stato sparso sangue tra le due collettività, divise da un odio inestinguibile, ma solo lacrime per esseri umani che dovevano lasciare la terra e le case in cui erano vissuti da secoli. L'esodo si era svolto in modo molto diverso per le popolazioni germaniche e italiane costrette con la violenza, il terrore e la morte a lasciare terre abitate da secoli e incorporate nei nuovi confini della Polonia, dell'ex Cecoslovacchia e della defunta Jugoslavia, imposti dai vincitori dopo il secondo conflitto mondiale. I tedeschi espulsi furono calcolati in circa dieci milioni.

Paul Kagame presidente ad interim dal 24 marzo 2000 fu riconfermato nella carica dal parlamento il 17 aprile, Bernard Nazuka del N.D.R. è primo ministro dall'otto febbraio. L'anno successivo, il 26 maggio, si svolse un referendum e venne approvata la nuova costituzione, la quinta dalla raggiunta indipendenza e Kagame fu rieletto presidente con un mandato di sette anni, rinnovabile una sola volta. La costituzione garantisce l'inviolabilità dei diritti umani, libertà di espressione e un sistema multipartitico. Soccorre Caio Flacco: "Prudentemente Giove nasconde tra tenebrose caligini gli eventi dei tempi futuri".

NOTE

1. Caviglia, Enrico. Diario (aprile 1925-marzo 1945). Roma 1952 [torna su]

2. Lenin. L'imperialismo, fase finale del capitalismo. 1917 [torna su]

3. Macchi Angelo. Guerra civile in Ruanda e inquietudine in Burundi. La civiltà cattolica 21 maggio 1994 [torna su]

4. Gourevitch Philip. Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con le nostre famiglie. Torino 2000. [torna su]

5. Maida Enzo. Come è organizzata una parrocchia in Africa. Africa Nov.dic.1969. [torna su]

6. Luttwak Edward e Koehl Stuart L. La guerra moderna. Milano 1992 [torna su]

7. Rulli G. La tragedia del Burundi. La civiltà cattolica 15 luglio 1972] [torna su]

8. Carbone Carlo. Sul colonialismo belga in Rwanda e in Burundi. Studi storici 1967 [torna su]

Glossario

O.N.U. Organizzazione delle Nazioni Unite
O.A.U. Organisation African Unity

Burundi
C.N.D.D. Conseil Nationale pour la Défense de la Démocratie
C.N.R. Comitè Nationale Révolutionnaire
F.D.D. Forces pour la Défense Démocrate
F.A.B. Forces Armées Burundaises
F.L.N. Front de Liberation Nationale
F.R.O.D.E.B.U. Front pour la Démocratie en Burundi
J.R.R. Jeunesse Révolutionnaire Rwagasore
M.I.P.R.O.B.U. Mission de Protection en Burundi
M.P.B. Mouvement Progressiste du Burundi
P.A.L.I.P.E.H.U.T.U. Parti pour la Liberation du Peuple Hutu
P.D.C. Parti Démocrate Chrétien
P.D.R. Parti Démocrate Rural
P.P. Parti du Peuple
U.F.B. Union des Femmes du Burundi
U.PRO.NA. Union du Progrès National du Burundi
U.N.A.R.U. Union Nationale Africaine du Rwanda-Urundi
U.N.U.B. Operazione N.U. in Burundi
U.T.B. Union des Travailleurs Burundi
V.P.M. Voix du Peuple Murundi

Ruanda
A.D.F.F. Alliance of Democratic Forces for the Liberation of Congo/Zaire
A.P.R.O.S.O.M.A. Association pour la promotion sociale de la masse
C.D.R. Coalition pour la défence de la République
F.A.R. Forces Armées Rwandaises
I.C.T.R. International Criminal Tribunal for Rwanda
M.D.R. Mouvement démocratique républicain
M.R.N.D. Mouvement Révolutionnaire National pour le Dévelopement
N.K.V.D. Narodnji Komissariat Vnutrennich Del
O.N.O.M.U.R. United Nations Observer Uganda-Ruanda
PAR.M.E.HUTU. Parti du mouvement de l'émancipation des Bahutu
P.D.I. Parti Démocratique Islamique
P.L. Parti Liberal
P.S.D. Parti Social démocrate
PE-CO. Parti écologiste
RA.DE.R. Rassemblement démocratique rwandais
RA.N.U. Rwandese National Union
R.D.C. Repubblica Democratica del Congo
R.D.R. Rassemblement Démocratique pour le Retour
R.P.F. Rwandese Patriotic Front
R.T.L.M. Radio Television Libres des Milles Collines
S.S. Schutz-Staffeln
U.N.A.M.I.R. United Nations Assistence Mission for Rwanda
U.NA.R. Union nationale rwandaise
U.N.I.C.E.F. United Nations International Children's Fund

BIBLIOGRAFIA

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