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Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C.
di Francesco Lamendola ©
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Presentiamo alcuni capitoli - 1, 2, 3, 4 - del libro di Francesco Lamendola «Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d. C.», Poggibonsi (Siena), Antonio Lalli Editore, 1984. L'opera è da tempo esaurita ma un numero limitato di copie può essere richiesto direttamente all'Autore.

Cap. 1 DA NERONE A GALBA

1.1 Le cause della caduta di Nerone

Il lungo regno di Nerone, dal 54 al 68 d. C., vide un sotterraneo accumularsi di quegli elementi di contraddizione che già da tempo lavoravano e che sarebbero sfociati nella caduta della dinastia Giulio-Claudia. Quando si prendono in esame le cause della caduta di Nerone bisogna comunque in primo luogo distinguere quelle specifiche del governo neroniano da quelle generali dell'istituzione del principatus così come si era venuto delineando sotto la casa giulio-claudia. Tra le prime ricorderemo almeno le tendenze monarchico-assolutistiche, la persecuzione del Senato dopo la scoperta della congiura pisoniana, il malcontento dell'elemento militare per il disinteresse del sovrano mostrato per le cose militari in genere e l'ampliamento dei confini in specie, nonché lo scanalo costituito per la mentalità latina tradizionalista dalle esibizioni teatrali e dall'ostentato gusto ellenizzante di Nerone. A ciò si devono aggiungere i delitti da lui perpetrati nell'ambito della stessa famiglia imperiale, delitti che avevano prodotto scalpore sia fra l'aristocrazia romana che fra la plebe, gli odiosi sospetti originati dall'incendio di Roma del 64, aggravati dall'esproprio di vasti terreni pubblici sul Celio e sull'Esquilino per la costruzione della fastosissima Domus Aurea; e infine la "liberazione" della Grecia e il taglio del canale di Corinto, che minacciavano una riduzione della base tributaria dell'Impero proprio nel momento in cui le folli spese del sovrano per la sua politica di prestigio accentuavano le difficoltà economiche dello Stato.

Questo per quanto riguarda le ragioni di scontento che possono farsi risalire, direttamente o indirettamente, allo stesso Nerone. Vi erano poi altri fattori di debolezza, che egli aveva ereditati da Claudio insieme al supremo potere: la dipendenza sempre maggiore del sovrano dal favore della propria guardia personale, i pretoriani, e più specificamente dal loro comandante, il prefetto del Pretorio; la scarsa base socio-economica del governo, costituita ancora essenzialmente dai ceti medio-alti della capitale e di alcuni municipi italici; l'avversione tenace del popolo e, più ancora, dell'aristocrazia per una forma di governo scopertamente monarchica; le tensioni sociali e culturali dell'immenso Impero, delle quali la persecuzione anticristiana non era che un episodio, e delle quali l'asperrima guerra giudaica fu una tipica manifestazione.

Non è qui il caso né il luogo per analizzare singolarmente e minutamente queste molteplici cause di indebolimento del potere imperiale nella seconda metà del I sec. d. C. E sarà appena il caso di sottolineare come Nerone, con la sua grossolana mancanza di tatto politico, non fece nulla per correre ai ripari ma, anzi, moltiplicò le ragioni di malcontento, specialmente da parte del Senato e degli eserciti provinciali. Ed è piuttosto notevole come proprio tra i pochi scampati ai suoi sospetti vi fossero, quali rappresentanti di questi due gruppi, due uomini destinati a rappresentare una parte di grande rilievo negli sconvolgimenti del 68-69. Uno era Servio Sulpicio Galba, di nobilissimo casato romano, tipico rappresentante del Senato tradizionalista e di gran lunga il più notevole tra gli scampati alla persecuzione antisenatoria, che nel 68 ricopriva la carica di governatore della Spagna Tarraconense. L'altro era Tito Flavio Vespasiano, generale di notevoli capacità personali ma di umili origini, già caduto in disgrazia presso Nerone per essersi addormentato o allontanato mentre quegli cantava e messo a capo, non senza riluttanza, dell'esercito romano impegnato in Palestina. Pare oggi accertato che Nerone si risolse ad affidargli un incarico di tale importanza, che comportava, fra l'altro, il comando di tre intere legioni, proprio in considerazione delle modeste origini di Vespasiano, parendo allora quasi impensabile che un homo novus potesse nutrire ambizioni superiori a quelle di un privato cittadino. A Nerone, ormai apertamente in conflitto col Senato e con la classe aristocratica in genere, non restava che appoggiarsi sempre più all'elemento pretoriano da un lato, alla plebe di Roma dall'altro: donde le spese sempre crescenti per gli spettacolosi ludi e per le frumentazioni, divenute abituali in questo periodo storico.

Ma i pretoriani non erano che una minuscola razione dell'esercito, quantunque posta a contatto immediato coi gangli vitali dello Stato, e dunque di enorme peso politico nei riguardi dell'imperatore; e la plebe di Roma non era che una delle tante plebi municipali dell'immenso Stato, la cui passione per la politica derivava principalmente dal fatto di essere - essa sola fra tutte - mantenuta gratuitamente e, dunque, tanto oziosa quanto parassitaria e turbolenta. Ma oltre ai pretoriani c'erano i numerosi e formidabili eserciti legionari e oltre alla plebe di Roma c'erano le popolazioni provinciali, gli uni e le altre desiderosi di miglioramenti economici e giuridici, gelosi dei privilegi della capitale e naturalmente maldisposti del sovrano che su quei privilegi faceva leva quasi esclusivamente per conservare il potere.

In altri termini, al tempo del principato neroniano era giunta l'ora in cui le lancette del sistema istituzionale erano rimaste indietro sul quadrante del progresso storico; e legioni e province, ansiosi di recuperare il ritardo, spiavano l'occasione per contendere il potere a quei piccoli gruppi privilegiati che sino allora lo avevano gestito in forma esclusiva ed egoistica. E' vero che qualche tentativo di allargare la base socio-economica dell'Impero era stato fatto da alcuni membri della dinastia Giulio-Claudia, e dall'imperatoe Claudio in particolare; ma era ancora troppo poco, e la riprova palese di ciò stava nel fatto che il Senato era composto quasi esclusivamente da membri dell'aristocrazia romana ed italica, e da pochissimi provinciali. Per quanto riguarda l'altro grande gruppo di esclusi, gli eserciti limitanei, Nerone non aveva saputo o voluto far nulla per rendersi popolare e i suoi atteggiamenti istrioneschi di cantante e attore tragico non avevano fatto altro che accrescere il disprezzo dei rudi legionari per l'«imperatore greco». Era nella tradizione stessa del principato che l'imperatore, oltre che primo cittadino dello Stato, fosse anche duce di eserciti e godesse fra questi di una sentita popolarità. Ricordiamo per tutti il caso di Tiberio, del cui valoroso contegno quale comandante degli eserciti germanici è traccia commovente l'ammirazione di un ex legionario come lo storico Velleio Patercolo e che pure, con l'atto stesso di salire al trono, si trovò a dover fronteggiare due gravissime insurrezioni militari: quella degli eserciti del Reno, che volevano proclamare imperatore suo nipote Germanico, e quella degli eserciti del Danubio superiore, che venne fronteggiata dal figlio stesso di Tiberio, Druso. Con tutto ciò, non sarebbe esatto affermare che il disinteresse e l'incompetenza di Nerone per gli affari militari dovevano necessariamente condannare alla rovina il suo governo, nella cornice di uno Stato militarista per eccellenza. Imperatori altrettanto 'borghesi' , come Claudio, furono in grado di conservare il potere con il favore dell'esercito, né mai furono minacciati da movimenti militari. Ma Claudio aveva personalmente partecipato alla spedizione in Britannia, guadagnandosi la simpatia dei legionari per una doppia ragione: la ripresa della politica aggressiva di ampliamento dei confini, tanto cara agli ufficiali, e la partecipazione diretta alle operazioni di guerra, appezzata specialmente dai soldati.

Nerone non seppe mai fare né una cosa né l'altra. Risolse più con la diplomazia che con la forza delle armi l'intricata questione dell'Armenia, facendosi tenere a lungo in scacco dalle modeste forze avversarie e quantunque disponesse di un ottimo comandante nella persona di Corbulone; e, con la rivolta della regina Boudicca in Britannia, repressa in extremis dal generale Svetonio Paolino, fu addirittura sul punto di perdere anche l'unico guadagno territoriale fatto dal suo predecessore. Verso la fine del suo regno accarezzò il progetto di una fantastica campagna alle Porte Caspie o addirittura in Etiopia, atteggiandosi a continuatore di Alessandro Magno in un momento in cui le province e gli eserciti occidentali erano già abbastanza disgustati dal suo esasperato filo-ellenismo. A tutto questo si aggiunga che Nerone si mosse due sole volte da Roma: una volta per un viaggio nella greca Napoli, ove per la prima volta si esibì in pubblico; la seconda per il fatale soggiorno in Grecia, che si può considerare la causa occasionale della sua caduta. Altri imperatori avevano viaggiato ben poco al di fuori della capitale, ma Nerone compromise ulteriormente la propria popolarità con le sue preferenze ostentate per l'Ellade e per l'Oriente in genere.

Infine tra le cause della sua caduta non si può passare sotto silenzio il fatto che egli si privò deliberatamente dei più validi collaboratori per sostituirli con personalità grigie, i cui unici o principali titoli di merito consistevano nell'applaudire con calore le sue esibizioni di attore e di auriga e di farsi compagni di tutte le sue dissolutezze. E' noto come i primi cinque anni di governo neroniano, trascorsi sotto la guida del prefetto del Pretorio, Burro, e del maestro dell'imperatore, Seneca, passassero nostalgicamente alla memoria dei sudditi e dello stesso Senato come il felice quinquennium Neronis. Morto Burro, l'imperatore allontanò anche Seneca che poi fece assassinare, e pose al comando dei pretoriani un siciliano di Agrigento, Ofonio Tigellino, uomo straordinariamente perfido e crudele che divenne tristemente famoso per la sanguinaria repressione della congiura pisoniana, per la quale ebbe in premio da Nerone gli onori trionfali. Ma Tigellino era, personalmente, un uomo di scarso valore e di nessuna fedeltà; devoto all'imperatore nella buona fortuna, non esiterà ad abbandonarlo nell'ora del pericolo. Le principali ragioni del suo straordinario potere sembrano essere state la debolezza di Nerone, la propria inesauribile piaggeria nei confronti del sovrano megalomane e, soprattutto, la sua estrema determinazione e mancanza di scrupoli nello stroncar sul nascere qualunque tentativo di fargli concorrenza nel favore di Nerone. Fu così che trovò la morte quel Petronio di cui parla Tacito, raffinato maestro di dissolutezza a corte e che da tanto tempo gli studiosi si arrovellano per identificare con l'autore del Satyricon, voluminoso romanzo che rispecchia fedelmente - e forse esagera - la corruzione morale e materiale per cui questa età divenne famosa.

Tra gli altri compagni di Nerone troviamo pure i futuri protagonisti della guerra civile del 69. In primo luogo Salvio Otone, marito della bellissima Poppea Sabina, che il sovrano gli tolse mandandolo quale governatore nella lontana Lusitania; e Aulo Vitellio, guidatore di cocchi fin dal tempo di Caligola e particolarmente caro a Nerone per averlo supplicato in pubblico di recitare i suoi versi. In tali condizioni, fu una vera fortuna che gli eserciti posti a difesa degli estesissimi confini avessero dei capi abili e professionalmente competenti: Corbulone in Armenia, Paolino in Britannia, Vespasiano in Giudea; perché l'Impero, in apparenza così formidabile, era in verità divenuto un colosso dai piedi d'argilla, con un governo centrale demagogico e inefficiente, talvolta addirittura irresponsabile.

1.2 Il viaggio in Grecia e la rivolta dell'Occidente

Nerone partì per il suo agognato viaggio in Grecia nell'autunno del 66. Lo accompagnavano il prefetto Tigellino, ministro di tutte le sue crudeltà e di tutti i suoi piaceri, uno stuolo di artisti, piaggiatori e parassiti, e i fantasmi di suo fratello Britannico, di sua madre Agrippina, delle sue mogli Ottavia e Poppea e del suo maestro Seneca, tutti da lui personalmente uccisi o fatti assassinare. Scopo principale del viaggio era raccogliere un ricco bottino di preziose opere d'arte e mietere facili successi esibendosi come cantante e attore, ciò che non aveva mai osato fare in pubblico a Roma, a parte i ludi quinquennales. Così, mentre i suoi agenti saccheggiavano con barbarica avidità le vestigia del grande passato artistico dell'Ellade, Nerone nel mezzo dei Giochi Istmici, a Corinto, il 28 novembre del 66 proclamò con pompa solenne la libertà dei Greci. Lo fece da istrione, qual era, nel luogo medesimo ove analoga dichiarazione era stata fatta da T. Quinzio Flaminino, quando l'entusiasmo dei Greci per l'imperatore filelleno era giunto al colmo nell'atmosfera frivola ed eccitata dei giochi. Ma il tripudio dei Greci, benché giustificato dall'evidente soggezione di Nerone nei confronti della loro civiltà superiore, era politicamente del tutto fuori luogo: quell'annunzio solenne non significava in alcun modo che la Grecia riacquistasse la sua antica indipendenza, perduta senza rimedio sui campi di Cheronea sotto i colpi della falange macedone. Significava semplicemente che, d'ora innanzi, la provincia di Acaia sarebbe stata esentata dal pagamento delle imposte al fisco romano e che le singole comunità municipali avrebbero goduto della giurisdizione di magistrati propri, status che, del resto, sia Atene che Sparta godevano già per l'innanzi e che Vespasiano, al termine della sua vittoria dopo la guerra civile del 69, si affretterà a revocare per tutta la provincia.

Pur entro questa più modesta cornice, però, rimane il fatto che la teatrale dichiarazione contribuì ad aggravare le condizioni del tesoro, già dissestato dalle sue demagogiche prodigalità, e soprattutto destò non poco risentimento fra le altre popolazioni provinciali, consce di rappresentare nel tessuto economico-sociale dell'Impero una parte ben più vitale degl'imbelli ed altezzosi Greci, il cui maggior vanto risiedeva ormai nella gloria del passato, ma Nerone, che solo in Grecia si sentiva capito e apprezzato nella sua vanità di artista, spensieratamente prolungava quel pericoloso soggiorno, continuando a mietere tutti i successi che volle.

A Olimpia organizzò un concorso di musica, e al principio del 67 fece iniziare i lavori per il taglio dell'Istmo di Corinto, che avrebbe abbreviato enormemente la navigazione fra l'Egeo e l'Adriatico e consentito una traversata rapidissima da Brindisi al Pireo e viceversa. Per tutto il 67 Nerone continuò a folleggiare per la Grecia, facendo anche ripetere i Giochi Istmici e ricevendo ovunque imponenti manifestazioni di popolarità e simpatia. Tigellino lo assecondava e lodava il suo canto e la sua interpretazione di Euripide, mentre da Roma il liberto Elio, lasciato a rappresentare gli interessi del principe, cominciava a inviare allarmati messaggi affinché Nerone ponesse fine al soggiorno in Grecia e facesse ritorno nella capitale. Questo avveniva verso la fine del 67, dapprima in base a semplici indizi di diffuso malumore contro l'imperatore, indi con tono sempre più allarmato, tanto che alla fine Elio ritenne di venire personalmente in Grecia per convincere Nerone a tornare.

Non conosciamo gli elementi precisi che indussero Elio a sollecitare con tanta insistenza il rientro immediato dell'imperatore; è certo, comunque, che nessuna notizia del movimento di Vindice poté giungere a Roma o in Grecia mentre Nerone si trovava ancora fuori della capitale. Molto probabilmente le vere ragioni dell'ansia di Elio vanno ricercate nel clima politico generale e nella malcelata insofferenza che sempre più ingigantiva in Occidente per l'imperatore matricida e istrione, che con tanta inopportuna ostentazione manifestava i suoi estremistici sentimenti di filoellenismo. Ma poiché la superficie era tuttora tranquilla in tutto l'Impero, con la sola eccezione della guerra giudaica (della quale ben poco si preoccupava), Nerone, con la sua caratteristica incoscienza politica e mancanza di buon gusto non seppe trattenersi dal dare al suo viaggio di ritorno una grottesca impronta trionfalistica. Fece il viaggio con tutta calma, come se nell'Impero regnasse la pace più profonda, e sostò lungamente a Napoli, ov'era entrato su di un carro tirato da magnifici cavalli bianchi. Di lì, avanzando lungo la Via Appia a piccole tappe, entrò a Roma su di un carro trionfale di Augusto, tra due ali di immensa folla che lo osannava come in delirio.

Traversato il Circo Massimo, il Velabro e il Foro, andò al tempio di Apollo Palatino, indi al Palazzo imperiale, ove depose le 1.808 corone guadagnate in Grecia. Per farci un'idea dello sfarzo e dell'imponenza del folle corteo, basterà ricordare che Nerone, vestito di porpora, la fronte cinta della corona olimpica e la corona pitica in mano, era preceduto dalla processione delle sue quasi duemila corone, ciascuna delle quali accompagnata da un servo che reggeva un cartello con scritto il luogo, le circostanze e il titolo della canzone o della recita che lo avevano portato alla vittoria; e che un'arcata del Circo Massimo e, forse, le stesse mura di Roma erano state abbattute davanti al suo passaggio.

Era il marzo del 68 e Nerone, tornato a Napoli, giaceva ancora immerso nel suo sogno voluttuoso, allorché gravissime notizie provenienti dalle province occidentali, in un crescendo allarmante, vennero a riscuoterlo bruscamente alla realtà. La prima riguardava l'insurrezione del governatore della Gallia Lugdunense, Caio Giulio Vindice, che aveva preso le armi in nome del Senato e del popolo romano e aveva lanciato proclami ingiuriosi contro Nerone e sollecitato l'adesione al suo movimento degli altri governatori provinciali. L'imperatore, in verità, sulle prime commise il fatale errore di sottovalutare il pericolo; poi, impressionati dalle notizie sempre più gravi provenienti dalla Gallia, e umiliato dai proclami di Vindice che lo additavano al pubblico disprezzo, chiamandolo attivo citaredo ed Enobarbo, si riscosse e prese qualche misura militare. Ordinò di costituire una nuova legione coi marinai di Miseno, la I Adiutrix, e convocò ad Aquileia le legioni danubiane; le truppe ammassate in Oriente per l'improbabile spedizione alle Porte Caspie vennero, del pari, richiamate indietro. Provvedimenti tardivi, perché ormai la situazione stava precipitando e neppure una di quelle unità sarebbe giunta in tempo per salvare lo sciagurato imperatore.

Il governatore della Spagna Tarraconense, Servio Sulpicio Galba, aveva accolto l'invito di Vindice, mobilitando le sue forze militari e, con l'appoggio di tutta la provincia, dichiarava di voler vendicare il Senato e il popolo di Roma contro il principe degenerato. Subito il governatore della Lusitania, Marco Salvio Otone, l'ex amico di Nerone ed ex marito di Poppea, aveva messo le sue forze e le sue sostanze a disposizione di Galba. E non bastava. Nella Betica il questore Alieno Cecina e, nell'Africa Proconsolare, Clodio Macro, armavano a loro volta delle truppe con scopi non molto chiari, ma diretti evidentemente contro Nerone.

Così, nel giro di poche settimane, nell'aprile del 68 la più gran parte dell'Occidente transalpino era insorta contro il governo irresponsabile dell'imperatore.

1.3 La fine di Nerone

Pure, per un attimo, la situazione di Nerone sembrò rischiararsi quasi miracolosamente. Il governatore della Germania Superiore, Verginio Rufo, si era messo in movimento con le sue legioni, piombando sui cantoni gallici insorti e mettendoli a ferro e fuoco. Vindice non aveva potuto mettere insieme che un esercito raccogliticcio, formato in massima parte di Galli male armati e male addestrati, col quale assediava Lugdunum (Lione). Tuttavia, quando seppe che le legioni di Rufo assediavano Vesontim (Besancon), ritenne che, se non fosse accorso in aiuto della città ma avesse assistito inattivo alla sua distruzione, il movimento insurrezionale si sarebbe in breve disgregato. Perciò mosse a sua volta su Vesontium con tutte le sue forze e accettò la battaglia campale, nel quale le provate truppe del Reno annientarono l'improvvisato esercito dei Galli. Allora Vindice non volle sopravvivere a quel disastro irreparabile e si tolse la vita. Subito dopo anche Vesontium fu presa e distrutta.

Si è a lungo discusso, fra gli storici moderni, se il movimento di Giulio Vindice debba considerarsi un sussulto d separatismo celtico ovvero un movimento antineroniano perfettamente "romano"; cioè se il gallo romanizzato Vindice intendesse staccare le Gallie da Roma oppure farsi campione della romanità oltraggiata dal tiranno orientalizzante. Tuttavia, se si scorrono anche velocemente le fonti antiche, bisognerà ammettere che un tale dubbio non ha ragione d'essere e che il movimento di Vindice fu diretto contro la persona di Nerone e non contro l'Impero come istituzione; ma un esame più approfondito richiederebbe uno studio a parte.

Subito dopo la vittoria di Vesontium i legionari offrirono l'Impero al loro comandante, Verginio Rufo, ma questi rifiutò e ribadì la sua fedeltà incondizionata al Senato, senza peraltro assumere una posizione ben chiara nei confronti di Nerone. E' certo che la sconfitta e la morte di Vindice fecero scricchiolare per un istante tutto il vasto movimento insurrezionale dell'Occidente e che un imperatore dai nervi più saldi e dalla visione politica più netta di Nerone avrebbe potuto sfruttare il momento favorevole con buone prospettive di successo. Invece, mentre già Galba meditava il suicidio, Nerone ondeggiava paurosamente dall'estremo ottimismo al fondo della scoramento, senza saper fare nulla di concreto e tempestivo. Col Senato era già silenziosamente in rotta, tanto che, nell'imperversare della rivolta di Vindice, non aveva osato convocarlo personalmente, ma si era ridicolmente ridotto a pregarlo per lettera di vendicare il proprio onore offeso contro il ribelle. Adesso perfino la fedeltà dei pretoriani vacillava, mentre il prefetto Ninfidio Sabino si accingeva al tradimento e l'altro prefetto, il crudele Tigellino, altra volta così pronto ed energico a intervenire, non faceva nulla e sembrava spiare il risultato finale di così incalzanti avvenimenti. Nerone sprecava le sue ultime carte e il tempo prezioso che ancora gli restava ora inviando sicari per far assassinare Galba, ora facendo armare le sue concubine per farle combattere in sua difesa come Amazzoni; ora meditava di supplicare il Senato che gli lasciasse almeno il governo dell'Egitto, ora avrebbe voluto far massacrare l'intero ordine curule, incendiare la città e far liberare le bestie feroci per rendere impossibile lo spegnimento delle fiamme.

Ai primi di giugno del 68 la popolazione di Roma apprese con stupore e indignazione che l'imperatore era fuggito, non si sapeva dove, e che il Senato lo aveva dichiarato hostis publicus. Nerone, infatti, dopo aver presieduto un'ultima volta l'assemblea ed essersi reso conto dei suoi reali sentimenti e, soprattutto, sentendo venirgli meno la fedeltà dei pretoriani, aveva lasciato precipitosamente il palazzo sul Palatino. Con un piccolo seguito di centurioni e soldati andò a rifugiarsi dapprima negli Horrea Galbiana, sull'Aventino; poi, abbandonato anche da quegli ultimi partigiani, andò a supplicare rifugio, casa per casa, agli amici dei tempi della buona fortuna, ma solo per vedersi chiudere tutte le porte in faccia. Forse, presentandosi di persona ai pretoriani e promettendo un cospicuo donativo, avrebbe avuto ancora qualche possibilità di stornare la catastrofe; invece fuggì nuovamente dagli Horrea Galbiana, la notte fra l'8 e il 9 giugno, avendo finalmente ricevuto un'offerta di ospitalità dal liberto Faone. Indossando un semplice mantello, accompagnato dal suo amante Sporo e da altre tre persone, senza alcuna scorta militare si avviò a cavallo verso il suo nuovo, estremo rifugio: una villa situata tra le vie Salaria e Nomentana, a quattro miglia da Roma.

Mentre la comitiva passava al galoppo nei pressi dei castra Praetoria, vicino alla Porta Collina, poté udire distintamente nel silenzio della notte le grida dei suoi soldati, i fedelissimi del giorno innanzi, che lanciavano insulti contro Nerone e acclamavano Galba imperatore. Era accaduto infatti che il prefetto Nifidio Sabino, profittando della fuga dell'imperatore e della passività del collega Tigellino, aveva promesso ai pretoriani un donativo di 30.000 sesterzi per ciascuno, se riconoscevano Galba al posto di Nerone. Quest'ultimo raggiunse la notte stessa la villa di Faone e si nascose dapprima in uno scantinato, dove, dopo molte insistenze da parte dei suoi compagni, e molte esitazioni, appreso che il Senato l'aveva dichiarato nemico pubblico, si diede la morte, piantandosi una spada nella gola; ed anche per compiere questo supremo passo ebbe bisogno dell'aiuto del liberto Epafrodito. Era tempo, perché alcuni cavalieri erano già arrivati a spron battuto alla villa; un centurione, accorso all'interno, lo trovò ancora agonizzante.

Il potente liberto di Galba, Icelo, che era stato gettato in prigione alla notizia della rivolta Spagna, rimesso in libertà diede il permesso che il corpo di Nerone venisse cremato secondo le sue ultime volontà, senza subire oltraggi o mutilazioni. E fu la fedele Atte, l'unica donna che amò veramente l'imperatore megalomane e crudele, che ne compose i resti nella tomba dei Domizi in Campo Marzio, il 9 giugno del 68.

1.4 L'avvento di Galba

Pochi uomini oscillarono come Galba, nel breve arco di pochi giorni, fra l'abisso della catastrofe e il successo più clamoroso. Giulio Vindice, quando lo aveva invitato a unire le loro forze contro Nerone, lo aveva esortato per lettera a farsi "liberatore e guida del genere umano"; e Galba, pur accettando la direzione del movimento, aveva rifiutato il titolo di Cesare, assumendo invece quello di "luogotenente del Senato e del popolo romano". Galba puntava gran parte delle sue speranze sull'armata gallica di Vindice, alla quale avevano aderito anche importanti città come Vienne e potenti tribù quali gli Edui e i Lingoni. Evidentemente non credeva possibile che le tribù germaniche avrebbero preso le armi per salvare la causa di un uomo come Nerone e, in ogni caso, riteneva che il movimento gallico avrebbe vincolato le forze che, eventualmente, l'imperatore avesse inviato dall'Italia, offrendogli al tempo stesso una base d'appoggio per imbastire una spedizione dalle Spagne verso Roma.

La realtà è dunque che Galba, vecchio di settantatré anni, ambizioso ma al tempo stesso irresoluto e tutt'altro che sicuro del successo, si era lasciato coinvolgere nell'insurrezione principalmente perché sapeva che Nerone, comunque finisse la rivolta di Vindice, lo aveva già condannato a morte, in quanto lo riteneva uno dei suoi più pericolosi avversari ancora in vita dopo la repressione seguita alla scoperta della congiura dei Pisoni. Uomo di nobilissime origini, severo in fatto di disciplina militare, all'antica nelle vedute politiche, irreprensibile governatore per otto anni della Tarraconense, già alla morte di Caligola era stato fatto il suo nome quale possibile successore all'Impero, elementi questi già più che sufficienti per spingere Nerone a decidere la sua eliminazione.

Dagli avvenimenti successivi risulta del resto che, se Galba avesse immaginato la rapida repressione del movimento gallico, forse non avrebbe mai osato accettare la direzione della rivolta antineroniana. Fu perciò in conseguenza di un errore di valutazione politico-militare che Galba prese le armi contro l'imperatore; egli non previde affatto che l'insurrezione gallica avrebbe provocato la reazione delle legioni del Reno e sarebbe apparsa loro come una specie di tradimento dei Celti contro Roma; piuttosto si adagiò in una strategia puramente opportunistica, lasciando che Vindice sostenesse l'urto principale della reazione neroniana, mentre lui organizzava le sue modeste forze nella Penisola Iberica. Con l'appoggio del giovane e intraprendente Otone, che da dieci anni svolgeva le funzioni di legato per la provincia lusitana, e protetto anche alle spalle dall'adesione di Alieno Cecina nella Betica, egli provvide a indire nuove leve di truppe e ad ammassare armi per una eventuale spedizione sull'Italia.

Costituì inoltre una sorta di Senato spagnolo, formato dai membri più eminenti dell'aristocrazia locale, il quale, riunitosi nella città di Nova Carthago, sul Mediterraneo (oggi Cartagena), approvò formalmente le sue decisioni e poi gli conferì il titolo di legato del Senato e del popolo di Roma. Ma che, allora, Galba e i suoi seguaci pensassero più alla difesa che a prendere l'offensiva contro Nerone, risulta - fra l'altro - dai lavori di fortificazione delle città spagnole, che vennero subito avviati a ritmo febbrili, nonché dalla costituzione di una guardia del corpo formata da giovani fedelissimi, che avrebbe dovuto seguire ovunque il "legato": né si può dire che si trattasse di misure eccessive, dal momento che alcuni sicari inviati da Nerone ebbero il tempo di raggiungere Nova Carthago e per poco non riuscirono ad assassinare Galba.

Subito dopo, come una mazzata, giunse anche in Ispagna la notizia della disfatta di Vesontium e del suicidio di Vindice. Essa lasciò Galba, per qualche giorno, come annichilito; nessuno poteva immaginare a quale estremo di pusillanimità e vigliaccheria fosse arrivato Nerone, e come, padrone di forze militari enormi, non fosse più nemmeno sicuro nella propria dimora sul Palatino. Per Galba, che aveva puntato le sue migliori carte sul movimento di Vindice, il disastro di Vesontium fu un colpo durissimo. Egli disperò al punto da meditare il suicidio e si ritirò a Clunia, nell'interno della sua provincia, come se si aspettasse un'invasione delle Spagne da un momento all'altro. Quanto fosse stata angosciosa e apparentemente senza speranza la sua situazione, lo si può desumere in maniera retrospettiva dalla durezza spietata con cui, arrivato al potere, colpì le città e le tribù galliche che avevano aiutato Verginio Rufo, se è vero - come è vero - che quando viene superato il pericolo la rabbia è sempre proporzionata alla paura.

Da un giorno all'altro arrivò da Roma la notizia che Nerone era stato deposto e si era suicidato e che tanto il Senato quanto i pretoriani avevano riconosciuto Galba quale nuovo imperatore. Fu solo allora che questi, passato repentinamente dalla disperazione all'esultanza, assunse il titolo di Cesare e si mise in moto verso l'Italia, via terra, passando attraverso la Gallia meridionale. Così, fin dai suoi esordi, si poté vedere chiaramente che il governo di Galba era il frutto di un compromesso: il riconoscimento era giunto in primo luogo dai pretoriani, per opera di Ninfidio Sabino, e subito dopo dal Senato, quando Nerone era ancor vivo e si nascondeva come una fiera braccata alla periferia di Roma. Ma è importante rilevare che né gli uni né l'altro erano stati completamente sinceri nel loro riconoscimento: i pretoriani avevano agito all'ultimo momento, sotto la spinta degli eventi, più che altro per rimanere padroni della situazione e far mostra di scegliersi un candidato, peraltro imposto loro dalle circostante; il Senato per non dover subire l'imposizione dei pretoriani ed essere ancora capace di prendere decisioni autonome. Ma in realtà bruciava ai pretoriani il fatto che Galba fosse stato scelto dall'esercito spagnolo, e ai senatori il fatto che Galba fosse diventato il candidato dei pretoriani. Tra Senato e pretoriani si era scavato un abisso profondo negli ultimi decenni, che gli eccessi del tempo di Nerone avevano portato al limite estremo; e le circostanze dell'avvento di Galba non erano tali da dissipare sospetti e diffidenze reciproci. Galba, certamente - per origini, tendenze politiche e sentimenti personali, era un uomo del Senato; pure, il suo successo era dovuto all'atteggiamento dell'esercito e, in particolare, all'atteggiamento neutrale dei pretoriani. E né i senatori potevano dimenticare che i pretoriani erano stati il braccio armato del terrore neroniano, e che tradendo e abbandonando vergognosamente Nerone dopo tanti benefici cercavano di rifarsi quella che oggi si direbbe una "verginità democratica"; né i pretoriani, da parte loro, erano disposti anche solo alla possibilità di cedere una parte degli enormi privilegi da essi acquisiti negli ultimi anni.

1.5 Il governo galbiano

Galba non si dimostrò politicamente all'altezza della situazione e, fin dall'inizio, commise tutta una serie di clamorosi passi falsi, quantunque innegabilmente fosse ispirato da nobili sentimenti di legalità e ripristino dell'ordine statale. In primo luogo non parve rendersi conto dell'ambiguità fondamentale del suo stesso successo, in apparenza così fortunato e incruento, che poneva fine a quindici anni di governo neroniano. Egli intendeva reagire completamente sia all'indirizzo tirannico-orientalizzante del suo predecessore, sia al clima morale e sociale di permissivismo e spensieratezza che, concretamente si erano tramutati in un deficit di 22 miliardi di sesterzi per le casse dello Stato. Non si chiese se un cambiamento così brusco, così radicale, non avrebbe provocato dolorosi contraccolpi; non intuì che tanto la plebe e i pretoriani, quanto la stessa aristocrazia - o almeno una parte di essa - si erano abituati a considerare diritti acquisiti le folli prodigalità, le feste, gli spettacoli, le frumentazioni e i donativi degli anni di Nerone. Troppo anziano e, forse, non abbastanza intelligente per possedere la necessaria elasticità, si mosse lentamente dalla Spagna costellando il suo viaggio verso Roma di errori fatali. In Gallia castigò duramente quanti avevano parteggiato per Verginio Rufo e premiò invece i partigiani di Vindice, scontentando e offendendo sia le regioni del Reno, sia le città - come Lugdunum - e le tribù - come i Treveri - che avevano lottato per schiacciare il movimento gallico. Di peggio fece in Italia, ancor prima di entrare nell'Urbe.

I marinai di Miseno, che Nerone aveva mobilitato per la guerra contro Vindice e Galba, non erano ancora stati equiparati giuridicamente, e quindi economicamente, ai legionari veterani, perciò si affollarono incontro al nuovo imperatore sul Ponte Milvio, tumultuando per ottenere ciò che desideravano. Galba li fece circondare dalla sua cavalleria spagnola e parte li fece massacrare sul posto, parte li fece gettare in prigione, mentre incaricava un'apposita commissione di risolvere il problema (settembre del 68). Subito dopo, entrato nella capitale, rifiutò ai pretoriani il donativo promesso da Ninfidio Sabino a suo nome, promessa che era stata la causa determinane del suo successo, affermando con sprezzo che "i soldati si comandano, non si comprano". Con il prefetto Ninfidio Sabino tenne un contegno freddo e altero, per nulla riconoscente verso quanto aveva fatto per lui, finché lo sospinse a tentare un nuovo colpo di Stato con l'appoggio dei pretoriani, che risolse nell'uccisione del prefetto da parte di alcuni soldati. Infine, insospettito dal contegno del governatore africano Clodio Macro, che sembrava perseguire ormai una politica puramente personale, entrò in rotta con lui e riuscì a farlo sopprimere, quando già la sospensione della flotta granaria africana aveva fatto balenare per un attimo lo spettro della fame nella capitale. Pure Fonteio Capitone, legatus della Germania Inferiore, cadde in sospetto a Galba e finì assassinato da alcuni inviati dell'imperatore, mentre Verginio Rufo veniva richiamato in Italia ove non ricevette alcun premio per la sua campagna vittoriosa contro Vindice ma, anzi, trattato con malcelata diffidenza. A sostituire i due governatori germanici, infine, Galba scelse due uomini assai poco adatti, Ordeonio Flacco per la provincia superiore ed Aulo Vitellio per quella inferiore; forse la sua scelta, come già in clima di tirannide neroniana, fu determinata dal grigiore dei due personaggi; ma egli avrebbe avuto ben presto modo di pentirsene.

A questa serie impressionante di misure estreme e quantomeno inopportune si aggiunse un atteggiamento politico ultranconservatore e una strategia economica improntata al più ferreo risparmio. Nell'un caso come nell'altro, Galba aveva inteso reagire energicamente all'andazzo invalso negli ultimi dieci anni del governo di Nerone; ma la svolta fu troppo brusca perché i vari gruppi sociali potessero apprezzarla. I pretoriani, già irritati per la mancata concessione del donativo, furono ulteriormente inaspriti dalla restaurazione di una severa disciplina militare e dalla promessa dell'imperatore che sarebbero stati trasferiti fuori città, in Italia e perfino nelle altre province, come tutti gli altri soldati. Il popolino, da parte sua, rimpiangeva più che mai la spensierata politica neroniana del panem et circenses e si lagnava della tetra austerità imposta da Galba. Perfino i senatori, o una parte di essi, ossia i naturali alleati del principe, avevano motivo di essere scontenti dell'azione politica di Galba. In primo luogo avrebbero preferito un principe più indipendente dall'elemento militare - come Clodio Macro, ad esempio - perché, per quanto apprezzassero i sentimenti repubblicani e filo-senatori di Galba, non potevano dimenticare che egli era arrivato al potere grazie alla spinta decisiva del detestato elemento militare. In secondo luogo, molti membri dell'aristocrazia si erano abituati al clima fastoso e spensierato instaurato da Nerone e che per tanto tempo aveva imperato nella capitale; e, sebbene ricordassero con orrore la persecuzione antisenatoria neroniana, ora avrebbero desiderato una transizione meno brusca verso la normalizzazione della vita pubblica.

In questa cornice va inserito il dramma politico e personale di Galba: uno spirito sinceramente repubblicano, sinceramente filosenatorio, sinceramente devoto all'ideale del ripristino della legalità; ma troppo rigido, troppo intransigente, troppo poco avveduto per instaurare quell'età di pace che tanto anelavano Roma e l'Impero. Galba rappresentava l'esatta negazione di tutto quanto il neronianesimo era stato; ma, uomo all'antica in tutto e per tutto, non riusciva a comprendere che il neronianesimo non era stato semplicemente il clima politico e morale imposto alla società da un principe demente, bensì l'espressione profonda di una delle esigenze intime e reali della società romana in piena crisi di crescenza.

L'orientalismo, il libertinaggio, la rilassatezza dei costumi, le spese pazze: tutto ciò aveva saldamente preso piede non solo nell'animo della plebe e dei soldati, ma di una parte stessa dell'aristocrazia; quella, per intenderci, che aveva trovato espressione nel clima dell'Ars amandi di Ovidio e della dorata gioventù romana, e che la restaurazione tradizionalista di Augusto e, ancor più, di Tiberio, avevano momentaneamente represso. Tutto, si può dire: l'aumentato benessere materiale, l'irruzione dei costumi ellenistici e orientali a Roma, il sorgere e il crollare fantasmagorico di fortune favolose, connesso anche con il nuovo ruolo politico-sociale svolto dai liberti e, in genere, dagli homines novi; quella sfrenata ostentazione di ricchezza da parte dei nuovi ricchi che è così ben testimoniata dal Satyricon di Petronio: tutto questo spingeva in direzione di un atteggiamento nei confronti della vita - economico e morale insieme - che negli ultimi dieci anni di Nerone aveva trovato la sua piena e naturale espressione. Vero è che questo "clima neroniano" aveva portato l'Impero sull'orlo del tracollo finanziario, gli eserciti sulla via della dissoluzione, la società dell'Urbe e della Penisola a un punto appena credibile di infrollimento e corruzione; e che il controllo dell'immenso Stato, come l'episodio di Vindice aveva ammonito, e come i fatti del 69 avrebbero dimostrato, stava per sfuggire dalle mani tremanti di quella società decadente.

Ma Galba commise un grossolano errore di valutazione quando pensò che, rimosso Nerone, potesse tornare senz'altro all'antico; errava quando pensava di poter trattare i pretoriani come forse nemmeno Tiberio aveva fatto; quando spogliava la plebe dei divertimenti ormai consueti,; e quando imponeva alla stessa nobiltà senatoria delle economie rigidissime I suoi provvedimenti in materia di bilancio finanziario rivelano la sua illusione che un riassestamento economico potesse effettuarsi senza provocare contraccolpi, benché perseguito con misure draconiane. Nerone, nei lunghi anni in cui aveva spadroneggiato alla direzione dell'Impero, aveva creato e distrutto, con le prodighe donazioni e con le spietate confische, delle vere e proprie fortune. Uno dei primi atti di Galba, una volta arrivato a Roma, fu quello di ordinare il recupero delle somme favolose elargite dal suo predecessore a cittadini privati; somme, che, naturalmente, avevano ormai largamente circolato per la società e il cui recupero imponeva di necessità l'alternativa fra il sopruso e la rinunzia. Al tempo stesso Galba, pur richiamando tutti gli esuli politici e tutti coloro che il regime neroniano aveva in vario modo perseguitato, non restituì loro i beni confiscati; e così, alla sua fama ormai dilagante di taccagneria, aggiunse ora quella di arbitrarietà e di ingiustizia. Dalla corte, è vero, erano scomparsi i mille ministri del piacere del suo predecessore, la folla variopinta di arruffoni, clienti, parassiti, gl'inutili apparecchi del lusso e i banchetti costosissimi. Tuttavia si mormorava che la corruzione, in fatto di denaro pubblico, non fosse affatto diminuita e che uomini come il liberto Icelo, o come il console Tito Vinio, accumulassero con mezzi illeciti sostanze enormi, avvalendosi della protezione imperiale. Così pure, Galba aveva decretato l'immediata sospensione dei lavori alla Domus Aurea: quell'immensa, fastosissima, incredibile villa imperiale che Nerone aveva incominciato a far costruire, dopo l'incendio del 64, fra il Palatino e l'Esquilino, espropriando anche vasti terreni pubblici; ma larghi strati della plebe non apprezzavano il generoso risparmio di denaro e rimpiangevano piuttosto la fine dei grandiosi ludi circensi e di tutti gli spettacoli di cui era stato prodigo Nerone.

Così, sul cadere dell'anno 68, si potevano chiaramente percepire in tutti gli ambienti sociali della capitale, e in parte anche delle province, i segni inequivocabili di malumore dell'opinione pubblica che preludono sempre ai grandi rivolgimenti politici. Galba, nonostante le sue doti innegabili di onestà personale, buona fede e dedizione allo Stato, nel giro di appena qualche mese aveva creato attorno a sé il vuoto, alienandosi il favore di tutti. Aveva deluso e disgustato i pretoriani con la sua dura disciplina e la mancata distribuzione del donativo; i marinai, con la strage spietata del Ponte Milvio; il popolino, con la cessazione degli spettacoli e delle elargizioni; i provinciali e gli eserciti legionari, specialmente in Occidente, con la punizione degli alleati di Rufo e la premiazione di quelli di Vindice; il Senato, con il clima di austerità e di sospetti, la persecuzione contro i vecchi amici di Nerone, l'assassinio di uomini come Clodio Macro e Fonteio Capitine. Perfino i suoi più stretti partigiani, quelli ai quali andava debitore del successo e del supremo potere, avevano motivo di lagnarsi amaramente della sua freddezza e ingratitudine. Primo fra tutti il giovane Salvio Otone, il suo principale sostenitore al tempo della rivolta antineroniana, che lo aveva aiutato con generosità e che, dopo la caduta di Nerone, lo aveva seguito a Roma, mostrandosi apertamente fiducioso di essere prescelto dall'anziano imperatore come suo collega e successore designato. Ma i mesi erano passati e Otone non aveva fatto un passo avanti verso la soddisfazione delle proprie ambizioni, probabilmente perché il severo Galba lo giudicava troppo compromesso, in passato, col regime neroniano; troppo poco indicato, lui compagno di bagordi del caduto sovrano, a impersonare la "svolta" politica e morale inaugurata dal nuovo governo.

Un altro scontento era il governatore della Betica, quell'Alieno Cecina che si era unito a Galba nella primavera del 68 e che, dopo aver ottenuto il comando di una legione, era stato accusato di sottrazione di denaro pubblico, sottoposto a giudizio e che adesso, nella Germania Superiore, non aspettava che l'occasione favorevole per potersi vendicare. E poi c'era Fabio Valente, generale di qualche valore, che dalla Germania Inferiore aveva indotto Verginio Rufo a recarsi in Italia dopo la caduta di Nerone e che aveva ordito la soppressione di Capitone; e che adesso era rimasto deluso perché l'imperatore non gli aveva mostrato alcuna particolare riconoscenza per siffatti servigi. Un altro errore, e non da poco, aveva inoltre commesso Galba sostituendo Ninfidio Sabino alla prefettura del Pretorio con un tal Cornelio Lacone, uomo di scarso valore, che non ebbe mai in pugno i suoi uomini come li avevano avuti un Seiano o un Tigellino e che non fece nulla per affezionarli alla causa del nuovo imperatore.

Così, sotto la superficie apparentemente liscia e tranquilla, la società romana covava un incendio che di lì a poco sarebbe scoppiato, divampando ai quattro angoli dell'Impero con incredibile violenza. Il governo sanguinario e irresponsabile di Nerone era finito, quasi senza scosse, dopo quindici anni di follia; ma i sette mesi di austerità e disciplina imposti da Galba sarebbero sfociati nella più crudele guerra civile che Roma ricordasse dai lontani tempi del secondo triumvirato.

Cap. 2 INSURREZIONE DI VITELLIO CONTRO GALBA

2.1 Origini del movimento vitelliano

E' impossibile intendere le ragioni profonde del movimento vitelliano se non si tengono presenti l'irritazione profonda e il sordo risentimento delle legioni germaniche nei confronti del nuovo indirizzo politico inaugurato da Galba. La sua stessa scalata al potere, largamente preparata e favorita dall'alleanza con Giulio Vindice, si era presentata loro sotto la luce alquanto sfavorevole di un compromesso con le forze antiromane della Gallia. Vincitori, sotto la guida di Verginio Rufo, del movimento di Vindice, i legionari delle due province germaniche si consideravano i salvatori dell'ordine romano nel paese transalpino, contro quello che essi avevano probabilmente interpretato come un movimento nazionalista e, forse, separatista dei Celti. Essi però erano rimasti delusi e contrariati dal fatto che Galba, insediatosi al potere, non aveva concesso loro alcun riconoscimento per quanto avevano fatto; anzi, avevano assistito con sdegno alle punizioni inflitte alle città e alle tribù galliche e germaniche che non avevano partecipato al movimento di Vindice e avevano aiutato le legioni del Reno a domarlo.

Dopo un simile esordio, il governo di Galba prendeva avvio nelle condizioni più infelici agli occhi degli eserciti germanici; né l'imperatore fece alcunché per blandire il loro scontento. Con la sua rigida politica di restaurazione senatoria, egli sembrava voler smentire clamorosamente il diritto dell'elemento militare - e di quello legionario più ancora di quello pretoriano - a interloquire in materia politica. Ma in ciò appunto si rivelava più penosa la contraddizione singolare, nella quale il governo di Galba si dibatteva inutilmente: quella di un imperatore che, dopo aver dato, egli per primo, l'esempio di un "pronunciamento" militare nelle province, grazie al quale era giunto al supremo potere, pretendeva adesso di privare qualunque altro esercito provinciale della possibilità di sostenere delle pretese analoghe. Perché dunque gli eserciti della Germania non avrebbero potuto imporre al Senato un imperatore di propria scelta, quando quello di Spagna vi era pienamente riuscito? E cos'era quell'unica legione spagnola, debole per giunta, e lontana dall'Italia, a paragone delle sette formidabili legioni del Reno, la cui fama guerresca era diffusa per ogni angolo dell'Impero, e anche strategicamente più vicine alla Città Eterna?

Come si ricorderà , fin dall'indomani della loro strepitosa vittoria sull'esercito gallico di Vindice le legioni vittoriose avevano offerto la corona imperiale al proprio duce, Verginio Rufo, il quale - però - aveva rifiutato. Dopo la morte di Nerone e l'ascesa di Galba, lo scontento fra esse diffuso non aveva accennato a placarsi e l'episodio di Fonteio Capitone non aveva certo migliorato il loro stato d'animo nei confronti di Galba. Inviato da quest'ultimo quale legato della Germania Inferiore, Capitone - a quanto pare - aveva cercato di mettersi a capo di una rivolta militare, sfruttando l'inquietudine delle truppe e la loro avversione nei confronti degli Edui, dei Sequani e delle altre tribù galliche che avevano parteggiato per Vindice. Galba, però, venuto in qualche modo a conoscenza dei suoi piani, era riuscito a prevenirlo prima che il movimento avesse avuto il tempo di prendere consistenza. Secondo Tacito, anzi, l'imperatore non fece altro che limitarsi ad avallare quanto Cornelio Aquino e Fabio Valente avevano fatto in suo nome.

Aquino e Valente comandavano ciascuno una legione del Reno e, non appena ebbero sentore delle intenzioni del legato, senza attendere ulteriori istruzioni da Roma lo avevano fatto sopprimere. Esecutore materiale dell'assassinio di Capitone era stato il centurione Crispino che, più tardi, sarebbe stato messo a morte dai legionari ancora legati al ricordo del loro governatore. Pare che anche il prefetto della flotta del Reno, Giulio Burdone, fosse a parte dell'iniziativa di Aquino e Valente. Ma senza dubbio la parte di maggior rilievo dovette essere svolta dallo stesso Fabio Valente, comandante energico e spregiudicato, che aveva già svolto un ruolo, peraltro non ben conosciuto, nel fallimento della proclamazione di Verginio Rufo da parte delle legioni, e che adesso sperava di ricevere ampie ricompense dall'imperatore al quale, per due volte, aveva eliminato un pericoloso rivale. Senonché, questi suoi meriti non ricevettero affatto il riconoscimento da lui sperato, e l'ambiziosissimo Valente, amaramente deluso dall'ingratitudine di Galba, cominciò a sua volta sul fuoco dello scontento dell'elemento militare per trarne direttamente vantaggio.

Dopo che Verginio Rufo, annientato il movimento di Vindice e rifiutato l'Impero che i suoi soldati gli offrivano, fu rientrato in Italia, Galba aveva spedito in qualità di legato della Germania Superiore un tal Ordeonio Flacco. Scelta infelice perché costui, già avanti negli anni, malato di gotta e completamente privo di energia, era certo l'uomo meno indicato per far rispettare gli interessi dell'imperatore fra quelle truppe scontente e irrequiete.

Quanto alle legioni della Germania Inferiore, dopo l'assassinio di Fonteio Capitone esse rimasero per diverso tempo abbandonate a se stesse, e solo nell'autunno Galba provvide a inviar presso di loro Aulo Vitellio in qualità di legato consolare. Così, dei due eserciti del Reno, l'uno, quello superiore - che aveva svolto il ruolo principale nella repressione del movimento di Vindice - si era visto allontanare il proprio capo, interpretando ciò come una punizione per quanto aveva fatto; l'altro, l'inferiore, aveva conosciuto il regime di Galba attraverso l'assassinio del proprio legato. Entrambi covavano un profondo malcontento che aspettava ormai solo l'occasione adatta per prendere corpo in una aperta sollevazione militare. Fu lo stesso Galba che, sostituendo nel giro di poche settimane entrambi i legati, tradì la propria sospettosa insicurezza e accese la miccia della deflagrazione che ne avrebbe affrettata la fine.

Dei due nuovi legati germanici, sia l'uno che l'altro erano, di per se stessi, completamente insignificanti; ma dietro di essi stavano le ambizioni sconfinate di alcuni generali, decisi a sfruttare la situazione per cavalcare la tigre dello spirito di rivolta delle legioni. Anziché mettersi direttamente alla testa di un moto insurrezionale antigalbiano, essi cercarono un uomo di pace capace al tempo stesso di riuscire gradito ai soldati e di servire arrendevolmente i loro sogni di potere. Quest'uomo poteva essere che uno dei due nuovi legati: ma uno di essi, Ordeonio Flacco, andava senz'altro scartato per lo scarso ascendente di cui godeva fra le truppe. Restava Vitellio: uomo torpido e indolente, affatto digiuno di esperienza bellica, bevitore e ghiottone insaziabile, ma che aveva dalla sua alcuni fattori degni di tutto rispetto. Primo, era raccomandato dai suoi illustri natali e dal ricordo della splendida carriera del padre, Lucio Vitellio, tre volte console e potentissimo amicus dell'imperatore Claudio. Secondo, i suoi modi estremamente affabili, anzi fin troppo indulgenti e camerateschi, unito a un certo qual tratto di innata generosità e bonomia, lo avevano reso subito molto popolare fra i suoi soldati, abituati a una più rigida disciplina. Terzo, poiché era appena arrivato a Colonia Agrippina (od. Colonia), oltretutto preceduto da una buona fama quale governatore dell'Africa Proconsolare, il grosso delle legioni non aveva avuto ancora il tempo di conoscerlo bene e di notare i suoi molti difetti, il che era per lui un vantaggio indiscutibile. E infine, ma non per ultimo, generali ambiziosi e senza scrupoli, quali Cecina e Valente, si erano resi conto della sua intettitudine sia militare che politica, e da ciò traevano la facile speranza di poterlo in futuro manovrare secondo il proprio personale tornaconto. Il fatto stesso che Vitellio non avesse doti militari lo metteva automaticamente nella necessità di delegare la guida di una eventuale insurrezione armata ai propri luogotenenti, dai quali sarebbe venuto così a dipendere in misura sempre maggiore.

E' dunque necessario riconoscere che gli esordi di Vitellio furono di natura politica opposta a quelli di Galba o di Otone: costoro per la propria personalità, lui per mancanza di personalità furono lanciati dai rispettivi eserciti l'un contro l'altro nella sanguinosa competizione per accaparrarsi il supremo potere.

2.2 Proclamazione di Vitellio

Sia fra le legioni della Germania Superiore che fra quelle della Germania Inferiore, dunque, maturavano implacabilmente i semi dello scontento e della rivolta. Ad aggravare lo stato di tensione già esistente fra le truppe, poi, gli ambasciatori dei Treveri e dei Lingoni si erano recati, verso il dicembre del 68, presso i quartieri d'inverno delle legioni del Reno superiore, alimentando coi loro discorsi l'indignazione contro Galba. I Treveri, popolazione germanica della riva sinistra del fiume, e i loro vicini di stirpe celtica, i Lingoni, erano stati fedeli alleati di Verginio Rufo nella repressione del movimento di Vindice e ne avevano avuto in premio, da parte di Galba, l'abbattimento delle mura cittadine, una diminuzione dei territori e un aumento delle imposte. Questi racconti, naturalmente, furono ascoltati con viva partecipazione dai legionari a fianco dei quali avevano combattuto e vinto. Le cose arrivarono al punto che alcuni dei più esaltati incitarono apertamente i soldati alla rivolta; e il legato Ordeonio Flacco, sempre più allarmato, dovete far allontanare gli ambasciatori dal campo. Ma tutto ciò che ottenne fu di spingere gli ausiliari galli e germani nelle braccia dei legionari e di far nascere la voce che gli ambasciatori erano stati assassinati mentre lasciavano, di notte e in gran segreto, l'accampamento.

Verso la fine del mese, la situazione sembrò matura ai generali per tentare il gran colpo. Fra essi si distinguevano in modo particolare Fabio Valente, i cui motivi di risentimento verso Galba già conosciamo, e che era a capo di una delle quattro legioni della Germania Inferiore; e Alieno Cecina, che comandava una delle tre della Germania Superiore. Come si ricorderà , Cecina era stato questore della Betica al tempo in cui Galba si era pronunciato contro Nerone e aveva aderito subito al movimento, venendone ricompensato - appunto - col comando di una legione sul Reno. Ma, accusato poi da Galba di una sottrazione di pubblico denaro, era caduto in disgrazia e aveva compreso di non poter nulla più sperare dalla sua fedeltà all'imperatore. Al pari di Valente, dunque, questo giovane e audace condottiero, molto popolare fra le truppe e dotato di buone capacità militari, aveva incominciato a predisporre il terreno in favore di Vitellio quale possibile candidato al supremo potere.

Il primo gennaio del 69 presso tutte le legioni del vasto Impero doveva svolgersi la cerimonia del giuramento di fedeltà delle truppe al nuovo imperatore. Le sette legioni del Reno erano così ripartite: nella Germania Superiore, la IV Macedonica, la XXII Primigenia e la XXI Rapax; nella Germania Inferiore la I, la V, la XV e la XVI. Queste ultime si risolsero, pur fra mormorii o in una atmosfera di silenzio minaccioso, a pronunciare il sollemne sacramentum in favore di Galba. Invece, nella città di Mogontiacum (Magonza), le due legioni IV Macedonica e XXII Primigenia, all'atto del giuramento, si rivolsero contro le effigi dell'imperatore e le fecero a pezzi. Alla sera del 1° gennaio, dunque, mentre le forze della provincia superiore, incitate da Cecina avevano passato il Rubicone, compromettendosi irrimediabilmente col governo legittimo, quelle alle dirette dipendenze di Vitellio avevano prestato il loro giuramento, col solo incidente di alcune sassate isolate scagliate da pochi soldati contro le effigi di Galba. Il legato Ordeonio Flacco, benché rimanesse personalmente fedele all'imperatore, non ebbe l'ardire di contrastare i propri soldati, giunti al culmine dell'eccitamento e assistette passivamente all'arresto di alcuni centurioni che, per aver cercato di ricondurre le legioni all'obbedienza, furono subito messi in catene. Da parte loro, le truppe di Magonza non acclamarono alcun candidato all'Impero, ma si limitarono a dichiararsi fedeli al Senato e al popolo romano: affermazioni chiaramente propagandistiche e politicamente vuote, come di lì a poco i fatti avrebbero mostrato.

Vitellio, intanto, si trovava a Colonia, mentre delle sue quattro legioni la I era accampata a Bonna (Bonn), la XVI a Novaesium (Neuss), la V e la XV a Castra Vetera (Xanten). La notte fra il 1° e il 2 gennaio giunse a Colonia un messo della IV legione Macedonica annunciando al legato della Germania Inferiore gli eventi della giornata, e cioè che le due legioni stanziate a Magonza avevano giurato fedeltà al Senato e al popolo romano e abbattuto le immagini di Galba. A questo punto Vitellio giudicò arrivata l'ora di agire. Mandò a sua volta dei messi alle proprie truppe e ai comandanti, informandoli degli eventi verificatisi presso l'esercito superiore e osservando che non restava che un'alternativa: o marciare contro di esso in nome di Galba, oppure designare un proprio candidato all'Impero. Aggiungeva, a quanto pare, l'esplicito suggerimento di considerare la seconda soluzione, per ovvie ragioni, di gran lunga preferibile. Naturalmente egli sapeva benissimo che i propri legionari provavano una ripugnanza istintiva all'idea di prendere le armi contro i loro commilitoni della Germania Superiore; e sapeva, inoltre, che mai lo avrebbero fatto solo per salvare il trono a Galba, divenuto così impopolare. E' fin troppo chiaro che Vitellio, se avesse avuto davvero l'intenzione di prendere le parti di Galba, avrebbe dovuto comandare ai suoi generali di muovere senz'altro contro i ribelli e non chiedere, in forma ambigua, il loro parere sul da farsi. Inoltre, se fosse stato in buona fede, avrebbe dovuto prevenire, declinando l'offerta, ogni eventuale tentazione delle truppe di contrapporlo a Galba: come Germanico aveva a suo tempo fatto, tra quegli stessi soldati, a favore di Tiberio.

La prima legione della Germania Inferiore ad essere raggiunta dagli inviati di Vitellio fu la I, il cui legato Fabio Valente si affrettò a prendere la palla al balzo. Assicuratosi il consenso delle proprie truppe, si mise subito al galoppo sulla via di Colonia con la cavalleria romana e con quella degli alleati germanici; e, coprendo velocemente i trenta chilometri che lo separavano dalla capitale provinciale, entrò in Colonia nella giornata stessa del 2 gennaio. Quivi per primo egli acclamò Vitellio imperatore, fra l'esaltazione dei suoi soldati. Gli storici antichi ci mostrano Vitellio, per parte sua, tutto preso dalla sua consueta passione per i banchetti, quasi che egli solo, in quelle ore cruciali, non si preoccupasse a chi sarebbe toccato l'Impero, ma soltanto di mangiare e bere senza alcun freno.

Diciamo subito che questa ricostruzione dei fatti è francamente inaccettabile. L'immagine di Vitellio trascinato dal triclinio agli scudi dei soldati è una caratteristica pennellata della velenosa storiografia senatoria: tanto improbabile quanto quella del VI secolo che ci presenta l'imperatore Onorio, nelle ore tragiche del sacco alariciano di Roma, tutto intento a imbeccare di chicchi di grano la sua gallina prediletta di nome, appunto, Roma. Per prima cosa, infatti, si potrebbe osservare che Vitellio può aver trovato ingegnoso l'espediente di farsi credere preso alla sprovvista dagli eventi: nella lunga storia delle usurpazioni militari nell'Impero Romano, quasi nessun pretendente ha trovato di buon gusto accettare ala prima offerta di lasciarsi innalzare sugli scudi. Valga per tutti l'esempio di Giuliano l'Apostata, acclamato Augusto dalle legioni galliche nel 351, mentre si trovava in casa, e che finì per accettare non senza aver prima aver opposto qualche insincera resistenza. Oltre a questo, pare che l'insaziabile e ben nota ghiottoneria di Vitellio abbia letteralmente dato alla testa degli storici filo-senatori, ben felici di poterlo mettere in caricatura, sulla base di un dato reale e incontestabile, ma anche nelle circostanze meno verosimili. Ad esempio lo storico Flavio Giuseppe, nella sua Guerra Giudaica, arriva a scrivere che perfino pochi istanti prima di essere ignominiosamente ucciso, in una Roma stravolta dal massacro e dalla rapina, l'imperatore usciva dal Palazzo ancor più del solito imbuzzito di cibo, proprio perché consapevole della propria fine imminente. Nel qual caso, oltretutto, non si capisce perché - come riferiscono Tacito, Svetonio e lo stesso Giuseppe - solo all'ultimo istante Vitellio sarebbe uscito dal palazzo per tentare una fuga tanto tardiva quanto disperata.

L'arrivo della cavalleria di Valente a Colonia segnò la svolta decisiva nell'insurrezione. Trascinati dall'esempio, i soldati e gli abitanti della capitale germanica si pronunciarono come un sol uomo per Vitellio, come se non avessero atteso altro. Questi, da parte sua, non volle accettare né il titolo di Augusto né quello di Cesare, ma - come se la forza stessa degli eventi lo avesse spinto al punto di non poter fare altro che accettare di guidare il movimento militare - accolse il giuramento dei soldati e si mostrò fiducioso e sicuro del fatto suo. Quando, la sera del 2 gennaio, un incidente bruciò la casa ove aveva trasferito il proprio quartier generale, per un attimo i suoi superstiziosi sostenitori si mostrarono colpiti da quel presagio di cattivo augurio; ma Vitellio in persona li rincuorò con queste parole: - Non temete, amici, è un fuoco di gioia per noi! -. Questo ed altri particolari analoghi, che la storiografia antica ci ha conservati, paiono mostrarci un Vitellio ottimista e quasi baldanzoso, estremamente fiducioso circa il buon esito della propria avventura imperiale; un Vitellio, insomma, tutt'altro che colto alla sprovvista dal rapidissimo precipitare degli eventi. Questo per quanto riguarda l'immagine di un usurpatore strappato, controvoglia, ai banchetti: immagine cara anche a certa storiografia moderna, più pittoresca e letterariamente efficace, che convincente da un punto di vista storico-critico.

Le notizie degli avvenimenti occorsi a Colonia si diffusero con estrema rapidità lungo tuta la riva sinistra del Reno e fra gli accampamenti delle legioni, così come fra i popoli germanici e celti tradizionalmente alleati dei Romani. Il giorno successivo, 3 gennaio, tutto l'esercito della Germania Superiore ruppe gli indugi e giurò fedeltà davanti alle effigi di Aulo Vitellio, ormai capo indiscusso del movimento. A tal fine molto si adoperò il legato Alieno Cecina, svolgendo fra le truppe del Reno superiore la stessa opera di spregiudicata propaganda vitelliana, che Valente aveva dispiegato fra quelle della provincia inferiore. Tacito non può fare a meno di esprimere un sarcastico commento a proposito della sincerità con la quale, solo due giorni prima, le truppe della IV Macedonica e della XXII Primigenia avevano giurato fedeltà al Senato e al popolo romano: osservazione con la quale dobbiamo interamente concordare.

Mentre a Magonza e a Vindonissa (odierna Windisch, presso Basilea) le legioni di Ordeonio Flacco prendevano posizione per Vitellio, anche le tribù dei Treviri e dei Lingoni , che avevano dei conti in sospeso con Galba e una tradizionale amicizia con le vicine legioni, abbracciarono entusiasticamente la causa di Vitellio. Ci vien detto che città e distretti facevano a gara nell'offire truppe ausiliarie, armi, denaro e materiali per la causa degli eserciti di Germania, e che perfino i soldati semplici correvano ad offrire i propri baltei e le proprie falere agli ufficiali di Vitellio. Così, nel giro di poche ore, le due province del Reno si erano levate come un sol uomo sotto le bandiere dell'usurpatore, e non aspettavano che un segnale per gettarsi contro i vecchi amici gallici di Vindice e di Galba.

2.3 Il movimento legionario transalpino

Erano passati appena pochi giorni dagli eventi di Colonia e di Magonza e già la notizia arrivava a Roma, presso l'imperatore, ad opera del procuratore della Gallia Belgica, Pompeo Propinquo. Raro esempio di fedeltà in quei giorni di passioni scatenate e di continui voltafaccia, costui si era mantenuto dalla parte di Galba mentre lo stesso legato della Germania Superiore, il vecchio e malfermo Ordeonio Flacco, rompeva ogni indugio e si dichiarava anch'egli per Vitellio. La nuova della rivolta giunse così a Galba fin dai primi di gennaio, ma l'imperatore ritenne opportuno impedire che la notizia si diffondesse a Roma e cercò fino all'ultimo di minimizzarla. Infatti solo nel discorso di presentazione di Pisone ai pretoriani, il giorno 10 gennaio, ne diede brevemente notizia ai soldati, - affinché - dice Tacito - il tacere della rivolta non la facesse ritenere più importante. Però non disse che tutte le legioni del Reno si erano proclamate per Vitellio, anzi di Vitellio non fece - a quanto pare - nemmeno il nome; informò soltanto che due legioni avevan manifestato segni d'insubordinazione, e concluse dicendosi convinto che entro pochi giorni sarebbero tornate all'ubbidienza. Ciononostante, noi sappiamo che le notizie del movimento di Vitellio dovettero esercitare un peso decisivo nello spingere Galba a scegliersi un collega nell'Impero: di questo parere sono anche quasi tutti gli storici moderni. Purtroppo non sappiamo se Galba, nelle due settimane di regno e di vita che gli rimanevano dopo l'inizio della rivolta germanica, ebbe il tempo e il modo di rendersi conto della vastità del movimento vitelliano, ma è probabile che lo abbia almeno intuito.

Subito dopo il 3 gennaio infatti apparve chiaro nei Paesi transalpini che il movimento facente capo a Vitellio non era semplicemente una insurrezione militare di carattere locale e circoscritta. Non solo tutte le legioni del Reno, le più forti e agguerrite dell'Impero, avevano abbracciato la causa vitelliana; non solo tutti i comandanti, e le tribù germaniche e celtiche della riva sinistra; ma quasi subito le fiamme della rivolta divamparono in profondità nelle province occidentali. Pompeo Propinquo, il procuratore della Gallia Belgica che aveva subito informato Galba dell'insurrezione, fu catturato e messo a morte dai soldati inferociti senza che la sua provincia opponesse alcuna resistenza. La flotta germanica passò subito dalla parte di Vitellio e il suo comandante, Giulio Burdone, tratto in arresto e salvato a stento dal furore dei legionari, poiché era sospettato di aver avuto parte nell'assassinio di Fonteio Capitone. Gli ausiliari batavi, che costituivano il nucleo poderoso sull'ala sinistra dello schieramento renano, mantennero un atteggiamento di ambigua neutralità. I legionari avrebbero voluto sfogare il proprio odio anche contro il capo batavo Giulio Civile, ma il governo vitelliano con saggia decisione impedì che gli venisse falla violenza. In realtà i Batavi erano sostanzialmente disinteressati a quella che si annunciava come una guerra civile romana e spiavano invece l'occasione per sfruttare al massimo la temporanea debolezza dell'autorità centrale ai loro propri fini di rivendicazione nazionale. Per il momento non vi furono che alcuni incidenti isolati fra le truppe ausiliarie e i soldati della XIV legione, che si trovavano allora nella capitale dei Lingoni, e gli ufficiali di Vilellio ritennero di evitare alcunché che potesse alienar loro il favore delle dieci coorti batave, che già si erano unite al legato Fabio Valente e costituivano una forza di cui si doveva tener conto.

Intanto il movimento vitelliano guadagnava terreno verso ovest e verso nord. Nella Gallia Belgica, eliminato il procuratore Propinquo, si schierò al fianco di Vitellio il legato Valerio Asiatico, che ne avrebbe avuto in premio, di lì a poco, la figlia del generalissimo e il consolato per il dicembre del 69 (che però non giunse mai a ricoprire). Anche il governatore della vasta Gallia Lugdunense, Giulio Bleso, abbracciò la causa degli eserciti del Reno, portando così la minaccia fin sui confini dell'Italia. Del pari le truppe di stanza a Lugdunum (Lione), e cioè la I legio Italica e la cavalleria tauriana, giurarono fedeltà a Vitellio. Il movimento aveva così acquistato tale portata che sia le truppe ausiliarie del Norico, sia le legioni della Britannia vi aderirono poco dopo, sia pure senza parteciparvi, dapprima, in forma massiccia. Le Spagne nel complesso mantennero un atteggiamento di attesa, divise fra il ricordo di Galba e la naturale tendenza ad aggregarsi alle altre province transalpine. Così, entro le prime settimane di gennaio, quello che era iniziato come un movimento militare locale si era trasformato in una vera e propria insurrezione delle province occidentali dell'Impero contro l'Italia e quelle orientali, tuttora fedeli a Galba.

Naturalmente il nucleo di questa coalizione antigalbiana rimaneva l'elemento militare, e più precisamente l'elemento legionario di frontiera deciso a strappare alle coorti pretoriane i molti privilegi di cui avevano così a lungo goduto. Ma le legioni di Palestina, impegnate nella guerra giudaica, quelle di Siria e d'Egitto, e quelle, infine, del Danubio, non aderirono al movimento e non afferrarono, a quanto pare, la sua natura di ribellione del proletariato militare contro i reparti d'elite stanziati a Roma e in Italia. Prescindendo per il momento dalle legioni d'Oriente, che per varie ragioni svolgevano un servizio meno oneroso di quelle del limes renano-danubiano, rimane il fatto che le legioni del Danubio non fecero causa comune con quelle del Reno e anzi costituirono, più tardi, il nerbo dell'esercito di Otone e poi ancora di Vespasiano, e furono proprio loro a troncare in maniera decisiva l'avventura imperiale di Vitellio. Eppure le legioni del Danubio e quelle del Reno svolgevano un servizio analogo, vivevano in condizioni di disagio simili, e proteggevano le frontiere dal medesimo pericolo germanico; tanto che al momento della successione di Tiberio ad Augusto, l'insurrezione militare renana aveva avuto un immediato contraccolpo in Pannonia e sul Danubio.

Alcuni storici moderni hanno sottolineato il fatto che le legioni germaniche, specialmente dopo la repressione della rivolta di Vindice, si consideravano il vero baluardo della romanità e dell'Impero contro la barbarie, tanto quella transrenana indipendente, quanto quella celtica, solo parzialmente assimilata, e pronta a colpire alle spalle alla prima occasione favorevole, come appunto la vicenda di Vindice aveva dimostrato. Di conseguenza, esse insorsero contro un imperatore che aveva misconosciuto i loro servigi, che onorava la memoria di Vindice mentre puniva gli alleati gallici di Roma. Non è però possibile affermare che questo fu il movente principale dell'insurrezione vitelliana. Il malcontento contro Galba e la delusione per la sua politica gallica fornirono piuttosto l'occasione per dare sfogo a sentimenti a lungo repressi, di differente natura. Anzitutto, il successo di Galba contro Nerone aveva insegnato agli eserciti provinciali un segreto politico di prima grandezza, e cioè, per dirla con Tacito, «che non solo a Roma potevano esser fatti gli imperatori». Ciò che spinse principalmente le legioni del Reno a ribellarsi fu la coscienza della propria forza e l'esempio stesso dato da Galba, fattosi imperatore con l'aiuto di un'unica legione della Spagna. E ciò che provocò, di lì a poco, la reazione delle legioni del Danubio, fu la ripugnanza istintiva a sottomettersi all'altrui candidato e il desiderio di eleggersi un proprio imperatore, in opposizione a quello germanico. Inoltre, la funzione pro-romana e antibarbarica attribuita alle legioni del Reno dovrebbe essere ridimensionata. Infatti, se è vero che esse andavano fiere delle proprie vittorie sia sui barbari esterni, come Arminio, sia su quelli stanziati all'interno del limes, come Vercingetorige e, secondo il loro modo di vedere, lo stesso Vindice, è pur vero che per esse l'aspetto tecnico-militare del problema difensivo imperiale era di gran lunga prioritario rispetto a quello etnico-culturale. Per fare un solo esempio: alleati principali delle legioni, sia nella lotta contro Vindice che nella campagna contro Otone, furono i Treveri, tribù germanica assai poco romanizzata; loro principali avversari sulla strada di Roma furono invece gli Elvezi, tradizionali alleati del Senato. Ma non basta. Un peso forse decisivo nella vittoria di Vitellio a Bedriaco ebbero, a fianco delle legioni, gli ausiliari germanici, galli e perfino britanni, tutti elementi assai poco permeabili alla civiltà latina, comandati sovente da propri capi e non da ufficiali romani, e che nella loro marcia attraverso la Gallia e l'Italia diedero sfogo a un vero odio anti-romano, avanzando come in terra di conquista. Perfino i più alti ufficiali vitelliani ostentavano familiarità di costumi con questi barbari, e ciò proprio in una guerra che per forza di cose li spingeva a entrare da nemici nella Penisola italica, patria della civiltà romana. Sappiamo ad esempio che Fabio Valente usava vestirsi di pelli alla foggia germanica, e che indossava le brache galliche che tanto scandalo suscitarono nella tradizionalistica società latina (moltissimo tempo dopo, una legge dell'imperatore Onorio arriverà a proibirne l'uso): e questo in lui, lo sterminatore degli Elvezi, l'invasore dell'Italia, non poteva non acquistare un preciso significato politico. Dopo la vittoria di Bedriaco, quando Vitellio sciolse i pretoriani di Otone per sostituirli coi suoi uomini, aprì le porte della milizia pretoriana, antica roccaforte di privilegio italico, anche a questi barbari delle due rive del Reno. Sempre da Tacito sappiamo che, subito dopo l'ingresso dei flaviani a Roma, nel dicembre del 69, si scatenò una vera e propria caccia al barbaro: una statura fuori della norma e una capigliatura bionda erano contrassegni sufficienti per essere senz'altro passati per le armi

Tutti questi fatti dimostrano se non altro una cosa, e cioè che il tanto conclamato orgoglio romano e anti-barbarico delle legioni vitelliane deve perlomeno essere ridimensionato e soprattutto inquadrato in una diversa prospettiva, meno schematica e meno semplicistica nella sua contrapposizione di romanità e barbarie.

2.4 Preparazione della marcia su Roma

Portato al potere da una coalizione di interessi, in cui faceva spicco la volontà dei legionari germanici di scacciare da Roma l'imperatore «spagnolo» per imporre un proprio candidato, Vitellio comprese che l'unico atteggiamento possibile nella sua situazione era quello offensivo, e senza por tempo in mezzo si diede a organizzare l'invasione dell'Italia. Egli ignorava, naturalmente, che la sua sola proclamazione aveva indotto Galba a scegliersi Pisone come collega e innescato, così, il meccanismo che avrebbe portato il vecchio imperatore al tracollo nel giro di pochi giorni. Ignorava che mentre già le sue forze si erano messe in movimento, a Roma il potere effettivo era passato dalle mani del Senato a quelle dei pretoriani. L'unica realtà era che le legioni del Reno là avevano acclamato loro capo col nome di «Germanico» allo scopo evidente di aver mano libera, in primo luogo contro i vecchi alleati di Vindice, e in secondo luogo sulla via dell'Italia e di Roma. Un elementare intuito politico gli suggeriva di non procrastinare la marcia verso le Alpi, e di lasciarsi trasportare dall'entusiasmo dei soldati, finché esso era tale da assicurargli il vantaggio di una impetuosa offensiva iniziale.

Dalla Britannia, ove il legato Roscio Celio era entrato in rotta col governatore Trebellio Massimo e l'aveva obbligato a rifugiarsi sul continente, cominciavano già ad affluire i primi rinforzi al partito vitelliano. Sull'isola, recente conquista di Claudio e ancor più recente riconquista di Svetonio Paolino, erano di stanza tre legioni: la XX Valeria Victrix, la II e la IX. Esse si schierarono tutte dalla parte di Vitellio, il che liberò quest'ultimo da ogni preoccupazione per le proprie retrovie: senza l'adesione delle forze britanniche, la spedizione sull'Italia non sarebbe stata neppur pensabile. Non parteciparono però massicciamente alla marcia su Roma, bensì inviarono alcuni distaccamenti a rinforzare le legioni del Reno che già si stavano concentrando in vista della guerra.

Il piano dei vitelliani era il seguente: un primo esercito, costituito dalle legioni della Germania Superiore e comandato da Alieno Cecina, avrebbe intrapresa la marcia direttamente sull'Italia, passando per il territorio degli Elvezi; avrebbe transitato attraverso il valico del Gran San Bernardo e sarebbe sceso nella Pianura Padana. Un secondo esercito, più forte, costituito dalle legioni della Germania Inferiore, e posto agli ordini di Fabio Valente, dal Reno avrebbe marciato attraverso la Gallia; e, passando per Lione, avrebbe superato le Alpi al passo del Monginevro, sboccando quindi a rinforzo del primo. La parte veramente decisiva del piano consisteva nella rapidità di mosse di cui avrebbero dato prova le legioni, rapidità tanto più ardua da rispettare se si considera, da un lato la presenza di numerosi avversari potenziali distribuiti lungo il percorso di entrambi gli eserciti (gli Elvezi nel caso di Cecina, gli Edui e i Sequani in quello di Valente), e, dall'altro, le difficoltà logistiche e atmosferiche connesse al transito di una tal massa d'uomini attraverso le Alpi nel cuore dell'inverno. D'altra parte, solo a patto di avanzare celermente si poteva sperare di sboccare nella valle del Po prima che il nemico avesse il tempo e il modo di sbarrare i passi alpini: e se tale mossa fosse riuscita, si poteva ben dire che il più era fatto. Nell'aperta Pianura Padana le forti e bellicose legioni del Reno avrebbero fatto valere la propria superiorità sul poco numeroso esercito d'Italia, costituito essenzialmente dalle coorti pretoriane e da quelle urbane. Perché, e qui stava il punto veramente capitale del piano vitelliano, occorreva impedire ad ogni costo che Galba avesse il tempo di ricevere soccorsi dalle legioni del Danubio o da quelle d'Oriente: solo a questo patto si poteva sperare di batterlo rapidamente e impadronirsi di Roma, il che, probabilmente - così almeno si congetturava - avrebbe spento ogni velleità di resistenza sia fra le legioni dei Balcani, che fra quelle di Siria, Palestina ed Egitto. In ogni caso, mentre Cecina e Valente si incaricavano di forzare le porte della Penisola prima che i difensori avessero il tempo di sbarrarle, Vitellio non sarebbe rimasto colle mani in mano, attendendo passivamente di sapere a chi andasse la vittoria. Egli invece si sarebbe dato a radunare un terzo e più formidabile esercito, attingendo principalmente alle coorti ausiliarie e alle tribù amiche dei Celti e dei Germani: esercito ancor più eterogeneo, indisciplinato e barbarico dei primi due, ma tale da gettare il peso decisivo sul piatto della bilancia, qualora Cecina e Valente non fossero venuti a capo della resistenza avversaria nell'Italia settentrionale in tempi brevi.

Questo piano di guerra - che, come si vede, nelle sue grandi linee era piuttosto semplice e lineare - presentava parecchi vantaggi collaterali, posto che l'armata vitelliana, per sua stessa natura, non poteva assolutamente lasciare al nemico il vantaggio della prima mossa. In primo luogo, consentiva di assicurarsi, con le buone o con le cattive, la fedeltà di tutte le province transalpine situate sulla via dell'Italia, rimuovendo ogni possibile preoccupazione sul tergo degli eserciti operanti e sulle vie di comunicazione. Secondo, offriva ottime prospettive di un successo decisivo entro poche settimane, al massimo pochi mesi, evitando di mettere le legioni di Germania alle prese con quelle delle province orientali - e dunque con un problema militare di assai difficile soluzione. Terzo, lasciava la condotta della guerra nelle mani di due abili ed energici comandanti, riservando a Vitellio, personalmente incompetente in materia militare, il compito di raccogliere gli allori della vittoria o, nella peggiore delle ipotesi, di apportare il contributo decisivo alla vittoria stessa. Che Cecina e Valente non si amassero né si stimassero, questo non era allora un segreto per nessuno; che fosse opportuno non farli operare a troppo stretto contatto, era politica quantomeno saggia da parte del generalissimo; infine, la duplice avanzata sull'Italia, su due colonne distinte calanti dal nord e dall'ovest, era manovra tale da stimolare la competitività dei due comandanti a tutto vantaggio della rapidità dell'offensiva.

Purtroppo noi non conosciamo bene tutti i particolari del piano vitelliano, e non siamo perciò in grado di dire fino a che punto fosse opera di Vitellio, e fino a che punto dei suoi potenti generali, ai quali andava debitore del potere. Ma poiché, come si disse, era ben nota la scarsa competenza di Vitellio in campo militare, non è molto probabile che il piano ii guerra fosse interamente opera sua. E' più probabile che sia Cecina, sia Valente abbiano esercitato pressioni per ottenere il comando di una propria armata, forse colla segreta speranza di precedere ciascuno il rivale, per assicurarsi la palma della vittoria senza bisogno dell'altrui soccorso.

Così, in sui primi di gennaio, dando prova di una rapidità di movimenti veramente notevole, le due prime armate vitelliane si mettevano in movimento lungo direttrici divergenti. La loro avanzata fu così veloce che solo quando erano entrambe in piena avanzata furono raggiunte dalla notizia che il loro avversario non si chiamava più Galba, ma sibbene Salvio Otone.

2.5 Contraccolpo politico a Roma

Gli avvenimenti di Germania, riferiti a Galba dal legato Propinquo, affrettarono a Roma una svolta politica che già da tempo era nell'aria. Non si può certo dire che la rivolta germanica scoppiasse sul cielo d'Italia come un fulmine a ciel sereno: dopo gli episodi di Clodio Macro in Africa e di Fonteio Capitone sul Reno, non erano mancate al regime galbiano le avvisaglie di nuovi focolai d'insoddisfazione. Comunque la notizia del movimento di Vitellio affrettò la decisione dì Galba di scegliersi un collega nell'Impero, decisione da lungo tempo auspicata dall'opinione pubblica e già allo studio da parte del principe e dei suoi collaboratori. L'età avanzata di Galba era una delle cause principali di perplessità da parte dell'opinione pubblica; non però la sola giacché se la nomina di un collega avrebbe costituito il primo passo sulla strada della successione imperiale, molti si attendevano anche una svolta politica dopo la durezza della prima fase del governo galbiano. Queste speranze però, diffuse tra quella che potremmo chiamare l'ala moderata del partito galbiano nonché, naturalmente, fra i suoi segreti oppositori, in primo luogo fra i vecchi amici di Nerone, erano destinate a rimanere totalmente deluse: e questo fu l'errore politico capitale di Galba, che lo avrebbe perduto.

Noi non sappiamo, purtroppo, in quali termini le notizie della rivolta germanica furono riportate all'imperatore, e se egli fosse in grado di farsi un quadro abbastanza veritiero e realistico della situazione nelle province transalpine. Il fatto che l'imperatore si sforzasse di minimizzare l'entità del movimento vitelliano può spiegarsi ugualmente con ragioni di opportunità politica interna e con una difettosa informazione da parte dello stesso Galba. Da un passo di Tacito sappiamo che le prime nuove della rivolta, spedite a Roma da Pompeo Propinquo, si riferivano all'insurrezione militare di Magonza del 1° gennaio, quando due legioni della Germania Superiore avevano abbattuto le immagini di Galba e giurato fedeltà al Senato e al popolo romano. I messi partiti dalla Gallia Belgica dovettero giungere a Roma in tre o quattro giorni, tuttavia, data la contemporanea insurrezione della Lugdunense al fianco di Vitellio, è ben difficile che arrivassero da Galba senza raccogliere lungo la strada notizie più precise della situazione lungo il Reno. I fatti salienti, verificatisi nelle due Germanie dopo il F gennaio, erano due: la comparsa di un capo alla testa del movimento, il che aveva subito fatto cadere in oblio l'insincero giuramento di fedeltà al Senato; e la diffusione della rivolta a tutte le legioni del Reno, fino alla Britannia e alla maggior parte della Gallia. Se ciononostante Galba, ancora il 10 gennaio, parlava di due sole legioni in agitazione, e nemmeno faceva il nome di Vitellio, è più probabile che ciò dipendesse dal fatto che egli cercava deliberatamente di contenere la diffusione di notizie deprimenti, piuttosto che cadesse in buona fede in un errore di valutazione.

Come si è detto, all'interno del partito galbiano esistevano almeno due raggruppamenti principali: uno moderato, in cui faceva spicco la figura di Otone, ed uno intransigente, Capitanato da uomini di tendenza fortemente conservatrice, come il giovane Pisone. Questo naturalmente era una diretta conseguenza della composizione stessa del movimento galbiano e delle sue origini: regime composito, di compromesso, doveva fatalmente tornare a disgregarsi, dopo la vittoria su Nerone, nelle forze elementari che lo componevano. Abbiamo visto che la ragione principale di questo dualismo consisteva nel fatto che l'aristocratico Galba, uomo di fiducia del Senato e deciso restauratore dei privilegi politici di esso, era giunto ad afferrare il potere non tanto colle proprie forze bensì coll'aiuto determinante delle coorti pretoriane, ossia dell'elemento militare italico, privilegiato rispetto a quello provinciale. Gli interessi politici del Senato, però, che perseguiva un proprio disegno di restaurazione, e quelli dei pretoriani, che proprio sotto Nerone e Tigellino avevano goduto di una supremazia incontrastata nella vita pubblica di Roma, erano diversi e in gran parte divergenti.

In definitiva, il paradosso politico di Galba era il seguente: che mentre l'elemento militare italico aveva dato il contributo decisivo alla vittoria del Senato su Nerone, ora quest'ultimo pretendeva di metterlo in disparte per tornare a una situazione politica semi-repubblicana. Galba, politicamente non del tutto sprovveduto, comprendeva almeno in parte tale contraddizione e cercava un compromesso, riconoscendo ai pretoriani un certo diritto a ingerirsi nella cosa pubblica, ma al tempo stesso si preoccupava di salvare la preponderanza del Senato che doveva tornare ad essere, secondo lui, il cardine della vita politica. Quando ad esempio ripeteva ad alta voce, rifiutando ai soldati il donativo, che «lui i soldati li comandava, non li comprava» (Svetonio), dava la dimostrazione evidente che la precaria alleanza tra Senato e Pretorio doveva fare fulcro sulle antiche prerogative del primo, non sulle recenti acquisizioni di fatto del secondo. L'assassinio di Ninfidio Sabino, capo dei pretoriani e artefice principale della caduta di Nerone, subito dopo l'arrivo di Galba a Roma, aveva suggellato, ma solo momentaneamente, questa situazione di precario equilibrio: ma era inevitabile che i pretoriani, sino ad ora spettatori più che protagonisti della caduta di Nerone e dell'ascesa di Galba, prendessero coscienza dei propri reali interessi, che il Senato non poteva e non voleva soddisfare.

Quanto ai più intimi collaboratori di Galba, Tito Vinio, Cornelio Lacone e Marciano Icelo, nemmeno tra essi regnava la concordia, ma si rispecchiava la più ampia divisione esistente nel partito galbiano.

Il console Tito Vinio era amico personale di Otone e la voce pubblica sussurrava che volesse addirittura imparentarsi con lui, dandogli in sposa la propria figlia, ed è da presumere quindi che non condividesse le ambizioni di restaurazione senatoria di Galba. Viceversa il nuovo comandante della guardia pretoriana, Lacone, e il liberto Icelo, amante e consigliere intimo dell'imperatore, caldeggiavano la nomina di un collega di Galba che non fosse Otone e finirono per sostenere la candidatura di Pisone Liciniano. Quanto a Salvio Otone personalmente, il suo stato d'animo in quelle giornate tra la fine del 68 e l'inizio del 69 può essere facilmente immaginato. Dopo lo sfortunato Vindice e dopo Ninfidio Sabino, egli era stato il principale sostenitore di Galba nell'estate precedente, così come era stato uno dei primissimi ad aderire al movimento antineroniano. Venuto a Roma dalla Lusitania colla segreta speranza di ereditare il supremo potere dall'ormai anziano imperatore, era rimasto deluso nelle proprie speranze e per di più irritato dalla scarsa riconoscenza che gli aveva dimostrato quest'ultimo. La persona di Salvio Otone del resto, estremamente popolare nella capitale e in specie nell'ambiente militare, essendo quella di maggior spicco nell'ala che abbiamo detto «moderata» (di contro a quella senatoria intransigente), non poteva non costituire il naturale punto di riferimento per tutti coloro che in un modo o nell'altro il governo di Galba aveva deluso.

Fu così che l'ex governatore della Lusitania si trovò al centro di una coalizione d'interessi piuttosto ampia e in una situazione politica straordinariamente privilegiata e al tempo; esso non poco ambigua. Difatti Otone era capace di suscitare contemporaneamente le simpatie dell'ala «moderata» galbiana, che d'ora in poi chiameremo, con più esattezza, pretoriana, quelle degli stessi oppositori del regime di Galba, i vecchi amici e sostenitori di Nerone in primo luogo. Questa iguità, che certo non poteva sfuggire al sospettoso imperatore e che costituiva per Otone un punto di forza e pericolo al tempo stesso, derivava dal fatto che i suoi due alleati principali potenziali, le coorti pretoriane e la plebe, avevano svolto un ruolo nel complesso passivo nel testo degli eventi che avevano provocato la caduta di Nerone, loro vecchio idolo. Che adesso in Otone sia i soldati che i popolani vedessero, più o meno coscientemente, un Nerone redivivo, come i fatti avrebbero provato, dimostrava non altro che il neronianesimo non era affatto morto, ma si stava ridestando come da un sonno profondo: un sonno durante il quale aveva lasciato affondare il vero Nerone sol per destarsi col desiderio di rimpiazzarlo con un altro. E' vero altresì che, dal punto di vista dell'imperatore, la posizione dì Otone era estremamente dubbia e pericolosa. Quest'ultimo non poteva ignorare che una nomina di Pisone a collega nel principato da parte di Galba avrebbe costituito un colpo decisivo non solo alle sue speranze e alla sua stessa persona, ma a tutto il movimento, ancor vago ed incerto, che a lui segretamente cominciava a far capo. Viceversa, se Galba avesse optato per Pisone anziché per Otone, si sarebbe alienate le simpatie di una gran parte dei pretoriani e del popolino, e al tempo stesso si sarebbe trovato nella necessità di prevenire il pericolo di una possibile reazione, eliminando, come già aveva fatto con Ninfidio Sabino, il nuovo beniamino delle coorti. Tale la situazione politica in Roma la dimane della secessione germanica.

2.6 La nomina di Pisone

Dal punto di vista istituzionale, la nomina di un collega da parte dell'imperatore aveva dei precedenti fin dal tempo di Augusto e non costituiva quindi di per sé una novità rivoluzionaria, tanto più che da tempo e da molte parti veniva insistentemente sollecitata. Nei primi giorni di gennaio Galba aveva già fatto la propria scelta e presentato in una specie di consiglio privato Pisone Liciniano quale collega e successore designato. Uomo di antica e nobile famiglia, austero e tradizionalista tanto nei costumi privati che nelle tendenze politiche, esiliato sotto Nerone e quindi particolarmente bene accetto all'aristocrazia senatoria più conservatrice, non era però mai stato un personaggio di primo piano nella vita politica di Roma e le uniche qualità che lo avevano raccomandato erano piuttosto di carattere negativo. Rigido nel suo atteggiamento verso i pretoriani quanto e più di Galba, alieno quant'altri mai dalla politica del panem et circenses che aveva lasciato, dopo Nerone, tante nostalgie fra il popolino, ciecamente devoto alla causa della restaurazione senatoria, Pisone non era l'uomo adatto a rafforzare il vacillante potere di Galba, ma anzi tale da alienargli ulteriori simpatie. Pare che un contributo decisivo nella scelta di Pisone sia stato dato dal prefetto del pretorio Lacene, personalmente ostile alla candidatura di Otone e capace di molta influenza sull'animo dell'imperatore.

Si poneva ora il problema della presentazione ufficiale del collega dell'imperatore. Era un problema formale, e tuttavia estremamente delicato, sempre a causa di quella contraddittoria alleanza tra Senato e pretoriani all'interno del partito galbiano, di cui s'è detto. Le inclinazioni personali di Galba, naturalmente, erano in primo luogo per il Senato, che a suo modo di vedere rimaneva la principale fonte di legittimità di qualsiasi principato. D'altra parte, annunziare la nomina di Pisone alla curia prima che ai pretoriani avrebbe significato irritare gli animi di questi ultimi, già non troppo ben disposti verso l'imperatore; quantunque, dalle parole stesse che Galba avrebbe pronunciato in punto di morte, si possa ricavare che egli nel complesso si illudeva di godere ancora la piena fedeltà dei pretoriani. Tacito racconta che l'imperatore rimase lungamente incerto se annunciare la nomina di Pisone dai rostri, oppure nel Pretorio; infine scelse il Pretorio.

Il giorno stabilito, il 10 gennaio del 69, Galba con Pisone e i suoi ufficiali si avviò alla caserma dei pretoriani nella zona settentrionale dell'Urbe. Era una tetra giornata di pioggia e il rombo del temporale, considerato sempre di cattivo augurio in tutto il mondo antico, non rallegrava certo quella che avrebbe dovuto essere una giornata festosa e solenne. Il discorso di Galba ai soldati fu breve e conciso: senza tanti preamboli, da quel comandante severo e autoritario ch'era sempre stato, annunciò di designare Pisone a proprio collega nel governo dell'Impero. Spese poi appena poche parole sull'insurrezione germanica, presentandola come cosa di nessun conto, e se non fosse stato per timore di provocare più allarmanti fantasie, l'avrebbe taciuta del tutto. I soldati lo ascoltarono per lo più corrucciati e in silenzio, quantunque mantenendo l'abituale disciplina e benché gli ufficiali si sforzassero di dissipare l'atmosfera tesa ostentando per le parole di Galba un entusiasmo che sinceramente non potevano provare. La realtà è che le truppe del Pretorio rimasero doppiamente scontente, primo perché avevano sperato nella nomina di Otone, mentre Pisone era il suo esatto contrario, secondo perché si erano illuse di ricevere almeno adesso il donativo, che già al tempo della caduta di Nerone Ninfidio Sabino aveva promesso loro a nome di Galba, ma che non avevano mai ricevuto. Così, mentre i senatori si erano adontati perché l'imperatore aveva annunciato l'adozione di Pisone prima ai soldati che a loro, i pretoriani erano rimasti anch'essi scontenti sia per la scelta, che per la mancata corresponsione del donativo. Era evidente che il tentativo di Galba di conciliare pretoriani e Senato, perseguito ostinatamente da mesi ma senza abilità e senza alcuna flessibilità politica, si avviava al totale fallimento. L'indomani Galba presentò Pisone al Senato, e la maggioranza dell'assemblea, è quasi inutile dirlo, rimase assai favorevolmente colpita dalla pacatezza e dall'austerità del nuovo co-imperatore.

Sappiamo che nei quattro giorni seguenti, che furono gli ultimi del suo principato e della sua vita, Galba ebbe ancora modo di apprendere ulteriori notizie circa il movimento vitelliano, e alla vigilia della propria fine dovette ammettere a sé stesso che non era più questione di qualche gesto indisciplinato di un paio di legioni, ma tutto l'Occidente transalpino che si stava mettendo in movimento dietro le insegne di Vitellio. Ritenne quindi opportuno, d'intesa con Pisone, inviare degli ambasciatori alle legioni del Reno, illudendosi che fosse ancora possibile ricondurle all'obbedienza e rifiutandosi di intavolare trattative dirette col capo riconosciuto del movimento germanico, Aulo Vitellio. Questo fu caratteristico di Galba, così come fu caratteristicamente suo il tentativo di domare la rivolta dei pretoriani colla sua sola presenza, il 15 gennaio; ma non depone certo a favore della sua lungimiranza politica e nemmeno del suo senso del realismo. Quanto alle contromisure militari, cui sarebbe stato necessario provvedere senza perdere neppure un'ora, non pare che il vecchio imperatore ne abbia prese, certo anche perché la sua fine improvvisa non gliene diede il tempo, ma forse più ancora per un errore di valutazione le cui conseguenze sarebbero state catastrofiche per il Senato e per l'Italia. Questo fu il colpo di coda, che per ironia della sorte venne sferrato incoscientemente, con cui Galba si accomiatò dal potere al momento di passare le redini nelle mani di Salvio Otone. Con la sua incapacità a giudicare l'imminenza del pericolo vitelliano, Galba, i cui giorni erano contati, lasciava al successore la pesante eredità di una invasione che non aveva fatto nulla per arrestare almeno sui valichi delle Alpi, alle frontiere settentrionali d'Italia.

L'esito del duello ingaggiato di lì a poco fra Otone e Vitellio per il possesso di Roma e dell'Impero fu la risultante di questa grave imprevidenza di Galba.

Cap. 3 LA CADUTA DI GALBA E L'ASCESA DI OTONE

3.1 Il colpo di stato Otoniano

Come si è visto , la nomina di Pisone a collega dell'imperatore e le modalità del suo annunzio avevano scontentato sia i pretoriani sia, in parte, lo stesso Senato. Galba non prese misure militari efficaci per prevenire l'invasione dei Vitelliani in Italia, in compenso si diede a raccoglier danaro in previsione delle imminenti difficoltà finanziarie. Ricorse quindi all'espediente di ordinare la restituzione alle casse dello Stato delle folli elargizioni di Nerone a cittadini privati, ma il provvedimento, teoricamente giusto e inappuntabile, in pratica si rivelò disastroso, giacché la maggior parte dei beneficiari delle prodigalità del defunto imperatore aveva già dilapidato le somme favolose ricevute e non era quindi più in grado di restituirle. Questa fu forse la goccia che fece traboccare il vaso dello scontento generale. Benché una parte del popolo gli rimanesse ancora fedele, e nonostante l'appoggio di gran parte del Senato, Galba si era inimicato o alienato le simpatie di una categoria dopo l'altra. Tuttavia egli avrebbe ancora potuto reggersi, se si fosse appoggiato maggiormente sul nerbo principale della sua forza, le coorti pretorie; questo però a lui sarebbe parso un tradimento verso il Senato e verso le premesse aristocratico-conservatrici del suo governo.

Ciò che più dispiaceva in Galba, agli occhi dei soldati, era la sua rigidità senza sorriso, la sua severità in fatto di disciplina, la sua incomprensione per le loro esigenze di una maggiore partecipazione alla vita pubblica, la sua avarizia. Tutte cose che, invece, Otone possedeva in sommo grado e sapeva sfruttare abilmente per accrescere la sua già vasta popolarità fra i soldati. Per fare solo un esempio, ogni qual volta Otone prendeva parte a un banchetto al fianco di Galba, il suo aiutante Mevio Pudente distribuiva alla coorte di guardia cento sesterzi a testa. I soldati paragonavano inevitabilmente la taccagneria di Galba, che non aveva mai concesso loro il donativo, con la munificenza di Otone, il quale pagava di propria tasca per supplire alla avara politica dell'imperatore, e ne traevano le ovvie conclusioni. E' ben vero che Otone, il quale già aveva messa tutta la propria fortuna al servizio della causa di Galba quando si trovava in Lusitania, era adesso l'uomo più indebitato di Roma. Con una spregiudicatezza e con una abilità demagogica ben degne di Cesare o di Catilina, Otone si era riempito di debiti per aumentare la propria popolarità fra le truppe al punto che l'ammontare di essi aveva raggiunto ormai una cifra enorme. Per una singolare coincidenza del destino, i due uomini che si accingevano a disputarsi sanguinosamente la supremazia nell'Impero erano economicamente del tutto rovinati. Vitellio, nel partire da Roma per andare ad assumere il governo della Germania Inferiore, aveva dovuto vendere la casa, lasciare la moglie ed i figli in una soffitta a pigione, e impegnare per il viaggio una perla d'orecchino di sua madre, e ciò nonostante era stato inseguito e quasi bloccato dai suoi creditori nell'uscire dall'Urbe, e perfino malmenato. Otone continuava a condurre una vita splendida e a dispensare con pazza prodigalità del suo, ma il suo debito complessivo era talmente enorme che, secondo le voci più maliziose, la sua sola speranza di evitare la prigione per debiti era ormai quella di un rivolgimento politico che mettesse nelle sue mani le casse dello Stato. Tuttavia, se è puerile affermare che egli tentò il colpo di Stato per salvarsi dai creditori, è perfettamente vero che egli giocò tutto sulla carta della popolarità nell'ambiente militare e che, pagando ai pretoriani le largizioni che Galba rifiutava, cerio non pensava che avrebbe dovuto estinguere i propri debiti quale privato cittadino.

Le mene di Otone furono favorite dalla dabbenaggine del prefetto Cornelio Lacone, che non ebbe alcun sentore di quanto stava accadendo o che, se lo ebbe, preferì minimizzare i segnali d'allarme che gli giungevano. Alcuni abili agenti otoniani, dei soldati semplici che davano naturalmente poco nell'occhio, spargevano i semi del malcontento contro Galba e insinuavano i vantaggi che sarebbero venuti da un principato di Otone. Questi era giovane e cameratesco, Galba vecchio e inflessibile; Otone era prodigo, Galba estremamente avaro; Otone era amico di tutti i soldati, Galba difendeva a spada tratta le prerogative del Senato. Per non parlare dei molti nemici politici di Galba fatti arrestare, processare, condannare, alcuni per dei semplici sospetti; dell'assassinio di Ninfidio Sabino e di Fonteio Capitone; e, più grave di tutto il resto, il feroce massacro dei marinai, che aveva insanguinato l'ingresso di Galba a Roma. Tutto questo si vociferava e si diffondeva ad arte, mentre Lacone e lo stesso imperatore, i soli che avrebbero potuto attenuare l'irrequietezza dei soldati, non facevano nulla.

Il 14 dicembre, mentre rincasava, la sera, dopo cena, Otone fu preso in mezzo da una folla di soldati semiavvinazzati che cercarono di levarlo sugli scudi e proclamarlo senz'altro imperatore. A stento egli riuscì a placarli e a convincerli a desistere, rendendosi conto che le prospettive di successo erano troppo incerte e che un passo falso avrebbe potuto compromettere le fatiche di tante settimane. Pare che l'occasione del sollevamento fosse stata offerta ai soldati dalle gravi notizie della Germania, che continuavano a giungere in Roma: se ciò è vero, bisogna ammettere che gli sforzi di Galba per mascherare l'entità del movimento vitelliano erano falliti nel giro di pochi giorni.

Questo primo incidente comunque affrettò la decisione di Otone di sferrare al più presto il colpo decisivo. Diversi fattori lo spingevano a rompere gli indugi e a gettarsi a capofitto nell'avventura pazientemente preparata. I principali erano tre: l'impopolarità di Galba fra i pretoriani, accresciuta dalla nomina di Pisone e che occorreva sfruttare subito; il pericolo personale cui era esposto lo stesso Otone, vuoi per la nomina di Pisone, vuoi per i fatti del 14 dicembre, che potevano esser giunti alle orecchie dell'imperatore, vuoi infine per il pericolo che qualcosa della congiura trapelasse; e i rapidi progressi delle armate di Vitellio in Germania, chiaramente intenzionate a dirigersi verso le frontiere d'Italia, queste ragioni erano più che sufficienti per consigliare un rapido colpo di mano, battendo il ferro, per così dire, sinché era caldo: aspettare ancora avrebbe significato esporsi a una catastrofe. Sarebbe di grande interesse per noi poter stabilire se il colpo di Stato del 15 dicembre, che rovesciò Galba, fu da Otone premeditato, o se fu solamente la replica dell'incidente casuale della sera prima, che egli si limitò a sfruttare non potendo più tirarsi indietro: più probabile, a nostro avviso, la prima ipotesi. In ogni caso la versione, cara a certa storiografia moderna, che vorrebbe Otone trascinato quasi controvoglia dall'ondata antigalbiana dei pretoriani, è certamente illusoria. Se Otone fu colto alla sprovvista il 15 dicembre - il che non è nemmeno certo - lo fu per una questione di ore, in quanto il colpo di Stato era stato da tempo deciso.

3.2 La fine di Galba

Le ultime ore di Galba sono narrate con ricchezza di particolari dagli storici antichi, ma, purtroppo, con non altrettanta precisione. Cercheremo comunque di seguire passo passo, per quanto possibile, gli spostamenti dell'imperatore morituro e del suo collega Pisone, così come quelli di Otone.

Il giorno 15 dicembre Galba, insieme ai suoi principali collaboratori, stava compiendo un sacrificio davanti al tempio di Apollo (certamente il tempio di Apollo Palatino, a breve distanza dal palazzo imperiale, e non quello di Apollo Sosio, che sorgeva ai piedi del Campidoglio di fronte al teatro di Marcello); Otone era tra i presenti. A un certo punto il liberto di quest'ultimo, Onomasto, che aveva svolto un ruolo importante nel preparare gli animi dei soldati alla rivolta, venne a chiamare il suo padrone. Qualcuno del seguito di Galba gli chiese allora per qual motivo si allontanava, e Otone rispose che si recava a visitare una villa ch'era intenzionato ad acquistare: l'architetto e gli appaltatori lo stavano aspettando. Accompagnato quindi dal fedele Onomasto, lasciò il tempio di Apollo e si avviò velocemente per il Palatino; passò la villa di Tiberio e ridiscese verso il Tevere, nel quartiere detto del Velabro, fittamente abitato e sempre animato per la presenza dei magazzini e dei moli d'approdo sulla riva del fiume; indi si diresse al Foro. Giunto che fu al miliarium aureum presso il tempio di Saturno, un gruppo d'una ventina di pretoriani lo circondò acclamandolo imperatore. La folla che si trovava nel Foro non prese parte, a quanto sembra, al colpo di Stato. Otone salì in lettiga, i soldati fecero quadrato attorno a lui e il gruppo si mise in movimento, con le spade sguainate, in direzione della caserma dei pretoriani.

Si assistette allora a una scena fantastica: Otone, con l'aria non troppo sicura di sé, procedeva in lettiga con la sua piccola ma agguerrita scorta, fendendo la folla che assisteva trasecolata, senza che si formasse intorno a lui un seguito più numeroso e senza che alcuno gli contrastasse il passo. La caserma dei pretoriani, posta fra le porte Collina e Viminale, era all'altro capo della città, e Otone attraversò coi suoi mezza Roma senza che si potesse capire come sarebbe andata a finire. Solo una ventina di soldati si unirono alla sua scorta durante il lungo tragitto, e per di più molti si astenevano dal partecipare alle grida esultanti dei compagni, come se aspettassero di vedere se convenisse loro imbarcarsi in un'avventura così incerta e pericolosa.

Se l'acclamazione presso il tempio di Saturno era stata concordata fra Otone e i pretoriani, dobbiamo credere che egli sia rimasto sconcertato dal piccolo numero dei suoi sostenitori: fu così forse che nacque l'impressione, ripresa anche da alcuni storici moderni, ma assente in verità negli antichi, che Otone fosse trascinato al pretorio senza sua premeditazione. Comunque sia, data l'attitudine assolutamente passiva della popolazione, a Otone non restava che sperare in una sollevazione massiccia dei pretoriani; né le sue speranze dovevano andare deluse. Quando la singolare processione fu giunta davanti alla caserma, il tribuno di guardia, benché non fosse al corrente della congiura, intimorito aprì la porta e non fece alcuna resistenza. Pare che buona parte dei soldati siano stati presi alla sprovvista dal precipitare degli eventi, che li obbligava a prendere una immediata decisione; ma i partigiani di Otone si diedero un gran daffare e il loro candidato riuscì a imporsi. La statua d'oro di Galba venne rovesciata dalla tribuna e su quest'ultima venne fatto salire Otone in mezzo a una grande confusione. Quelli che erano a parte del colpo di Stato incitavano i soldati a tener lontani i centurioni e i tribuni, diffidando dei loro sentimenti: così si vide manifesta fin dai primi istanti quella che sarebbe stata una caratteristica del regime otoniano, lo stato di «rivoluzione permanente» dei soldati nei confronti degli ufficiali, accusati di non servire fedelmente la causa del nuovo imperatore.

Fu la legione di marina, quella che Galba aveva fatto decimare alcuni mesi innanzi, che per prima giurò fedeltà a Otone, trascinando col suo esempio anche i pretoriani. Dall'alto della tribuna, dopo aver manifestato nelle solite forme ostentate e demagogiche la propria riconoscenza alle truppe, questi tenne un discorso concitato e fremente. Ricordò loro il comune pericolo in cui si trovavano, e l'impossibilità di tornare indietro; ricordò gli assassini di Sabino, di Macro e di Capitone; la strage dei marinai, che lì presenti lo ascoltavano frementi d'ira e di sdegno; l'avarizia di Galba e il donativo mai concesso; infine, la corruzione degli uomini al potere, le ricchezze ammassate da Icelo e Tito Vinio, gli scandali e le ruberie ancor maggiori che al tempo di Nerone. Quando l'eccitazione fu giunta al culmine, Otone ordinò di spalancar gli arsenali: e si vide allora una folla scatenata di soldati correre alle armi, dimentica di ogni ombra di disciplina militare, e gli ufficiali mescolati ai soldati che anziché comandare, si limitavano a seguire la corrente. Dopo di che, su ordine di Otone, i soldati uscirono per andare ad ammazzare Galba e Pisone.

Questi ultimi furono sorpresi dalle prime notizie della rivolta mentre ancora si trovavano al tempio d'Apollo intenti nel sacrificio. Si trattava di notizie disparate, confuse, talvolta palesemente contraddittorie, alimentate di continuo da quanti, imbattutisi nel Foro o nelle sue vicinanze nel gruppo dei ribelli, accorrevano a darne l'annuncio all'imperatore. Si diceva che un senatore era stato acclamato dai soldati e condotto verso il Pretorio e solo in un secondo momento venne precisato trattarsi di Otone. E' evidente che Galba venne colto di sorpresa da questa notizia: solo poco prima aveva abbracciato Otone in quello stesso luogo e l'aveva lasciato allontanarsi senza sospetti. Tuttavia mantenne il controllo di sé, fece ritorno al palazzo imperiale ove montava di guardia una coorte in permanenza, e si consultò con i suoi collaboratori. Il suo primo impulso sarebbe stato quello di recarsi personalmente alla caserma dei pretoriani, tanta era la sua fiducia che con la sola presenza avrebbe domato l'insurrezione e riportato i soldati all'obbedienza. Ma questa dimostrazione di coraggio personale, che certamente non gli mancava e che nemmeno i suoi nemici potevano disconoscergli, non fu approvata dai suoi ufficiali. Troppo vaghe e confuse le notizie, che continuavano a giungere da fuori; troppo incerta la disposizione d'animo dei pretoriani; troppo insicura l'attitudine della plebe.
All'interno del palazzo, era tutto un profondersi in manifestazioni di sdegno contro Otone e di fedeltà incondizionata a Galba, né c'era senatore che mancasse di farsi bello con le proprie inutili millanterie, aumentando, più che altro, la confusione; ma fuori? Qual era la situazione reale, in quel momento, al Pretorio e nel resto della città? Si decise per prima cosa di radunare la coorte di guardia al palazzo sulla gradinata esterna, quella che scendeva verso i rostri, per saggiarne l'animo e galvanizzarlo con un discorso; e si volle che ad arringarla fosse Pisone, poiché Galba non poteva correre il rischio di compromettere la propria immagine con un insuccesso iniziale. Fu una decisione sbagliata, molto probabilmente, perché i soldati, nonostante tutto, potevano ancora sentirsi obbligati nei confronti del vecchio imperatore, mentre Pisone, ai più sconosciuto e associato al potere da appena quattro giorni, era ancor meno popolare di Galba fra i soldati. Pisone comunque tenne sui gradini antistanti il palazzo il suo discorso: un discorso magniloquente e pieno di retorica, in cui rammentava che la sola legittimità stava dalla parte di Galba, denunciava l'infingardaggine e i vizi spregevoli di Otone, la sua vita dissipata, tutte cose non molto adatte a far presa sull'animo rude dei soldati. Essi lo ascoltavano con sentimenti contrastanti, consci della propria bassezza e debolezza, molti in cuor loro già pronti ad abbandonarlo come avevano fatto con Caligola e Nerone, pur sapendo di essere cordialmente disprezzati dai pretoriani che li consideravano soldati da parata e perfino da Otone che li aveva definiti «togati», ossia borghesi e imbelli.

La guardia del corpo di Pisone si sciolse quasi subito, mentre ancora parlava; gli altri però lo ascoltarono al loro posto, senza interromperlo, e quando ebbe finito, corsero a prendere le insegne come animati da uno zelo improvviso: si vide dopo ch'era stato un mero espediente per piantarlo in asso. Rientrato Pisone a palazzo e consultatesi ancora con Galba, decisero di spedire in varie direzioni della città a sollecitare rinforzi e perfino di mandare degli ambasciatori alla caserma dei pretoriani. Oltre ai pretoriani, che si trovavano quasi tutti nella loro caserma, vi erano allora in città altre truppe di passaggio, specialmente due grossi distaccamenti richiamati da Nerone per schiacciare il movimento di Vindice: uno di veterani illirici, accampato sotto il portico di Vipsanio, l'altro di soldati germanici, attendato nell'atrio della Libertà. Furono mandati dei messi ad entrambi, per metterli in moto contro i partigiani di Otone, ma senza alcun successo. Il coraggioso Mario Gelso, ex comandante della XV legione in Pannonia e veterano della guerra armena contro Vologese e Tiridate, che era corso al portico di Vipsanio per mobilitare i soldati illirici, fu accolto da una pioggia di giavellotti e salvò a stento la vita. Le truppe germaniche poi, già mandate ad Alessandria da Nerone e richiamate con una faticosa navigazione, snervate dal clima e dagli ozi cittadini non avevano più nulla di militare e, dopo lunghe incertezze, si mossero quand'era ormai troppo tardi. Infine i tre tribuni, che si erano assunti il pericoloso compito di recarsi al Pretorio, nella tana stessa del leone, furono insultati, minacciati e percossi dalle truppe furibonde.

Mentre nei diversi punti di Roma avvenivano queste scene, a palazzo Galba era ancora all'oscuro sia del precipitar degli eventi al Pretorio, sia del fallimento del suo tentativo di far venire rinforzi. Intorno a lui regnava la confusione più completa, poiché il popolino, resosi finalmente conto di quello che stava accadendo, timoroso di perdere lo spettacolo si era precipitato all'interno senza trovare chi lo fermasse e incitava l'imperatore a far giustizia dei rivoltosi. Anche molti senatori accorsero e non provavano vergogna di vantarsi scioccamente, anzi questa folla scomposta giunse a tal punto d'impudenza da sfondar le porte del palazzo, già chiuse per prudenza, per protestare davanti a Galba la propria devozione. Come se non bastasse, mentre si cercava, fra tante chiacchiere, di prendere delle decisioni efficaci, sorse un ennesimo contrasto tra i fedeli dell'imperatore. Il console Tito Vinio consigliava di non muoversi dal palazzo, di sbarrare le porte, e perfino di armare il popolino accorso, non parendo sufficiente la sola coorte di guardia, e così asserragliati attendere lo sviluppo degli eventi. Tito Vinio era stato intimo amico di Otone e, colto di sorpresa, alla pari degli altri, dal suo colpo di mano, sperava forse di guadagnare tempo senza compromettersi né con Galba, né con Otone: ignorava che proprio in quel momento quest'ultimo, arringando i pretoriani, li stava eccitando col rammentar loro che la sola villa di Vinio sarebbe bastata a offrire il donativo che Galba aveva ostinatamente rifiutato.

La proposta di Tito Vinio provocò l'immediata reazione di Icelo e Lacone, i quali, ostili da sempre ad Otone, proponevano invece un'audace sortita fino al campo pretorio, fiduciosi di poter stroncare la rivolta se solo l'imperatore si fosse mostrato di persona. Questa proposta finì per prevalere, accordandosi meglio con l'impazienza di Galba e col suo timore che un atteggiamento puramente passivo potesse aggravare la situazione, ancora fluida e aperta a ogni possibile colpo di scena. Parve però consigliabile mandare avanti Pisone, per predisporre al pentimento l'animo dei soldati; Galba gli avrebbe tenuto dietro di lì a poco. Questa la versione fornita da Tacito; secondo Svetonio invece, dopo contrastanti consigli, Galba avrebbe deciso di restar fermo e di attendere l'arrivo dei rinforzi mandati a chiamare in città, ossia quei soldati illirici e germanici che proprio allora accoglievano con ostilità o indifferenza i suoi inviati.

Proprio in quel momento, comunque, di tra la folla che aveva invaso il palazzo, cominciò a prender fiato una voce entusiastica, presto ripetuta da infinite bocche, che cioè la rivolta si era spenta così repentinamente com'era iniziata, che Otone era stato ucciso e che tutto era finito. Impossibile stabilire l'origine di questa diceria: fatto sta che essa parve rianimare anche i più vili, contagiò il palazzo di un malsano e sfrenato ottimismo e diede inizio a una disgustosa gara di adulazione attorno al principe morituro. Pisone era appena uscito, diretto al campo dei pretoriani, e Galba, rimasto solo e mal consigliato, finì per decidersi a uscire a sua volta. Vestì una leggera corazza di lino, poi fu fatto salire in lettiga perché, anziano e tormentato dalla gotta, non era in grado di affrettarsi: una folla confusa di popolo e di soldati della coorte palatina lo accompagnava. Quasi subito gli si fece incontro un soldato che, mostrando enfaticamente la spada macchiata di sangue, si vantava di aver ucciso di propria mano Otone. Per un istante l'ottimismo travolse quella folla disordinata; il solo Galba, sempre ligio alla disciplina militare, sempre sicuro del proprio ascendente personale, rimproverò il soldato dicendogli: «Commilito, quis iussit?», «Camerata, chi te l'aveva ordinato?».

Ma la tragedia, dopo essersi mascherata per qualche minuto sotto le vesti della farsa, volgeva ormai rapidamente verso la fine. Mentre Galba viveva ancora l'illusione che tutto fosse finito, Pisone, spintosi in direzione dei castra Praetoria, prima ancora di giungervi restava atterrito dalle grida e dal clamore provenienti da essi. Allora, non osando presentarsi alla moltitudine scalmanata dei pretoriani, tornò velocemente sui propri passi, inseguito da quello strepito che giungeva fino ai quartieri cittadini, e corse a dar la notizia a Galba. Ma questi era già scomparso dal numero dei viventi. Arrivato nel Foro in mezzo a una confusione crescente, il vecchio imperatore era stato raggiunto dal valoroso Mario Gelso che gli annunziava come i soldati illirici lo avessero cacciato armi alla mano. Allora il panico piombò rovinosamente su quella moltitudine imbelle. Mentre i soldati cominciavano a sbandarsi e a fuggire, alcuni consigliavano Galba di far ritorno al Palatino prima che fosse troppo tardi, altri di asserragliarsi sulla rocca del Campidoglio. Cornelio Lacone, che, come comandante dei pretoriani, era il massimo responsabile della sorpresa e della situazione disperata in cui si trovavano, anziché organizzare le scarse forze presenti chiese a Galba di far uccidere Tito Vinio, sfogando il suo odio personale col pretesto che Vinio li aveva traditi e venduti ad Otone.

In mezzo a questa confusione la lettiga veniva sballottata di qua e di là, finché, giunti all'altezza del lago Curzio, i portatori si diedero anch'essi alla fuga rovesciando l'infelice sovrano. Proprio in quel momento apparvero all'ingresso del Foro i cavalieri pretoriani, che avevano già travolto lungo la strada un gruppo di senatori. Quando videro il corteo imperiale, si fermarono un attimo, poi, mentre soldati e popolino fuggivano in tutte le direzioni, spronarono nuovamente i cavalli verso l'imperatore rimasto solo. Un soldato della XV legione gli fu sopra brandendo la spada; Galba esclamò: - Che fate, compagni? Io sono vostro e voi siete miei! -. Secondo un'altra versione invece, sarebbe giunto a promettere una gratifica se lo avessero risparmiato; una terza voce volle infine che offrisse il collo agli assassini, dicendo: - Fatelo, se lo ritenete giusto -. Questa ridda di versioni contrastanti dimostra se non altro che nessun testimone attendibile colse le sue ultime parole. Dopo averlo crivellato di colpi, infierirono con sadica ferocia contro il suo cadavere, ma trovando resistenza nella corazza, gli spiccarono la testa dal busto e insultarono anch'essa. Un soldato semplice volle portarla ad Otone: non potendo afferrarla per i capelli, perché era quasi calvo, gli mise l'indice e il pollice in bocca e così la mostrò al nuovo imperatore. Questi la abbandonò ai vivandieri del pretorio, che subito la infissero in cima a una picca e continuarono a schernirla con motti osceni.

E' da notare che al momento dell'assassinio di Galba né i soldati né i popolani mossero un dito in sua difesa.

3.3 Il bagno di sangue

Si scatenarono allora i furori della soldatesca, lungamente sopiti e ora eccitati anziché placati dalla tragica morte dell'imperatore. Il partito di Galba si era dissolto come nebbia al sole nel momento stesso della sua morte. La coorte palatina era dispersa ancor prima della carica della cavalleria tauriana presso il lago Curzio. Il popolino, che solo mezz'ora la protestava così rumorosamente la propria fedeltà al principe legittimo, lo aveva completamente abbandonato al destino. Solo la coorte germanica accampata nell'atrio Libertà, quella che era tornata dall'Egitto e che Galba aveva in special modo favorita, si era finalmente messa in movimento per soccorrere il suo benefattore. Ma, non conoscendo l'immensa città, aveva perduto la strada e così, mentre Galba veniva ucciso, quei soldati nativi delle foreste del Reno stavano ancora correndo a tentoni per le vie attorno al Foro. Quando poi seppero della fine di Galba e dell'inutilità di ogni ulteriore resistenza, anche i Germani abbandonarono la causa del vinto.

Ebbe allora inizio una feroce caccia all'uomo, al lume di torce, nella quale non è possibile stabilire con un certo grado di attendibilità quale fosse l'atteggiamento personale di Otone. Secondo Plutarco, ad esempio, quando gli portarono testa mozza di Galba, egli avrebbe esclamato: - Ma questo non è ancora tutto, camerati; dovete portarmi anche quella Pisone -, e Tacito conferma il suo odio implacabile per il neo-imperatore, che lo avrebbe spinto a bearsi della vista della testa recisa di Pisone in modo particolare. A noi però sembra più probabile, come lo è sembrato, tra gli altri, al Barbagallo, che tutto quel bagno di sangue abbia piuttosto profondamente disgustato il mite filosofo stoico, l'antico raffinato crapulone della corte neroniana. Resta però il fatto che Otone, trascinato al potere da una forza che in quelle ore era umanamente impossibile tenere sotto controllo, ben poco poté fare per rendere meno sanguinoso il crepuscolo del principato di Galba.

Una delle prime vittime del furore dei soldati fu il console Tito Vinio, la cui avarizia e corruzione avevano così potentemente contribuito a esacerbare l'animo dei pretoriani contro il governo di Galba. La storia non è riuscita a chiarire, né ormai lo potrà, quale fu esattamente il ruolo di Vinio nel colpo di Stato di Otone. Si è già detto della loro amicizia e della voce pubblica, che voleva Otone futuro genero di Vinio, come pure dei consigli ambigui di quest'ultimo a Galba, poco prima della fine, e della rabbiosa reazione di Lacone, che tuttavia non ebbe il tempo di eliminarlo. Quando i soldati di Otone gli furono intorno, Vinio ricordò loro invano che era amico del nuovo imperatore e che questi non poteva aver certo ordinata la sua morte. Ma i pretoriani agivano ormai di propria iniziativa e nessuna forza al mondo avrebbe potuto fermarli: il console fu trapassato da parte a parte mentre tentava di fuggire. La fine di Cornelio Lacone fu più misteriosa. Forse temendo di irritare l'animo di una parte dei pretoriani, dei quali Lacone era pur sempre il prefetto, Otone non lo fece uccidere subito, ma dopo avere sparso ad arte la voce che lo aveva relegato in esilio su di un'isola, mandò un sicario ad assassinarlo. Quanto a Marciano Icelo, come liberto e come uno dei più odiati rappresentanti del caduto regime gli venne riservato un supplizio pubblico.

Infine Pisone. Quando Galba era stato ucciso, anche il suo giovane collega stava per fare la medesima fine, ma un valoroso centurione addetto alla sua guardia del corpo riuscì a procurargli un momentaneo scampo, attirando su di sé il furore dei soldati. Pisone riuscì così a infilarsi nel vicino tempio di Vesta, dove uno schiavo impietosito dal suo terrore acconsentì a nasconderlo. Giunsero allora sul posto dei soldati particolarmente decisi, penetrarono a loro volta nel sacro tempio e, scoperto il disgraziato, lo trascinarono fuori (per non macchiarsi di sacrilegio spargendo del sangue entro un luogo sacro) e lo uccisero subito. La sua testa decapitata venne infissa, come quella di Galba, in cima a una picca, e portata in giro per la città sinistramente illuminata dalle fiaccole e percorsa incessantemente da torme di soldati ebbri di sangue. Forse si fu a un pelo da un più grave disastro, perché molti pretoriani non aspettavano che un segnale per dar l'assalto alla Curia, massacrare i senatori e mettere a sacco le loro abitazioni. Essi bene intuivano che era quella una lotta per il supremo potere fra loro e il Senato, e che quest'ultimo, uscito vincitore, con Galba, dalla prima prova (quella contro Nerone), era adesso completamente alla loro mercé. Ma Otone, oltre che per naturale inclinazione alieno dalle violenze inutili, era politicamente ben consapevole di non potersi sostenere senza un qualche appoggio da parte del Senato.

Beninteso, i padroni della situazione erano adesso loro, i pretoriani, che lo idolatravano almeno quanto odiavano e disprezzavano il Senato, e Otone non avrebbe potuto scordarlo neppure per un attimo, anche se lo avesse voluto. Ma se la forza del suo potere veniva interamente dall'ambiente militare, il Senato era pure necessario per legalizzare quel potere, sia pure contro voglia: ed era necessario non solo per motivi di politica interna, ma anche e soprattutto per stabilire una differenza qualitativa fondamentale tra lui e il suo temibile competitore d'oltr'Alpe, Aulo Vitellio. Poiché, se erano, in effetti, dei semplici usurpatori fortunati sia l'uno, sia l'altro, la differenza, agli occhi dell'Impero tutto, doveva esser questa: che a un'orda provinciale, semibarbarica, incontrollabile, si contrapponevano il Senato e il popolo di Roma, le leggi, l'ordine e la civiltà. E fu per poter giocare questa importante carta che Salvie Otone, la sera del 15 gennaio, cercò in qualche modo di placare gli eccessi dei soldati inferociti.

Gli fu condotto il valoroso Mario Celso, già scampato fortunosamente alla morte presso il portico di Vipsanio, fedelissimo del defunto imperatore; Otone lo fece incatenare e così, sottrattolo senza averne l'aria alla furia dei soldati, gli salvò la vita.

3.4 Indirizzo del governo otoniano

Quella stessa terribile sera del 15 gennaio, mentre la confusione e il terrore imperversavano in città e un liberto acquistava a peso d'oro la testa di Galba, per gettarla sulla tomba del suo padrone da lui fatto uccidere, Otone fece il suo ingresso nella Curia. E' da credere che fin dal primo annuncio della rivolta dei pretoriani il Senato fosse stato convocato d'urgenza, e forse inviò al Pretorio una delegazione che fu però travolta per via dalla cavalleria otoniana; questo almeno pare potersi desumere da un oscuro passo tacitiano. E' facile immaginare l'incertezza, l'angoscia e la paura che erano piombate allora sull'antico consesso. Quegli stessi senatori, che appena un'ora prima si erano stupidamente vantati con Galba di portargli la testa di Otone, si erano adesso sprangati nell'aula della Curia aspettando di momento in momento che un soldato, più feroce o più ubriaco degli altri, si spingesse fin là dando inizio al massacro. E in realtà l'eccitazione degli animi doveva essere giunta davvero al parossismo, se è vero, come è vero, che più di centoventi petizioni caddero in mano di Otone, al termine della tragica giornata, richiedenti una qualche ricompensa per l'assassinio di Galba e dei suoi seguaci. Pareva infatti che ai pretoriani si fosse unita una parte del popolino, quella più nostalgica delle folli elargizioni e del clima di eterna festa instaurato da Nerone, più che mai stanca dell'austerità di Galba e speranzosa di trovare nel nuovo imperatore un Nerone redivivo, così come lo ricordava compagno di bagordi del figlio di Agrippina.

Ma il Senato riuscì anche questa volta a superare indenne la burrasca, grazie ad un voltafaccia politico a dir poco sconcertante. Dopo che Otone ebbe lasciati liberi i soldati di nominare da sé i due nuovi prefetti del Pretorio, e acconsentito alla conferma di Flavio Sabino quale prefetto urbano, secondo la volontà di Nerone, questi convocò i senatori che tributarono al nuovo principe un'ovazione tanto entusiastica quanto servile e insincera. Ricevette le cariche di console, di censore, di Pontefice Massimo, la potestà tribunizia e il titolo di Augusto, che, a differenza di Vitellio, accettò senz'altro. La sua prima preoccupazione fu quella di rassicurare i senatori che il regno dell'ordine sarebbe al più presto stato restaurato e che in nulla sarebbero state sminuite le prerogative dell'augusto consesso. Tuttavia, bastava tender l'orecchio ai clamori del Foro per comprendere che a quelle parole non corrispondeva la realtà e che l'intera città era adesso in balìa delle prepotenze soldatesche. Otone, è vero, pensava in buona fede di riportare un po' di calma, non appena gli animi esacerbati si fossero un poco acquietati, e in parte almeno bisogna riconoscere che vi sarebbe riuscito. Ma indipendentemente dal fatto che quella sera i soldati sfuggivano ad ogni ragionevole possibilità di controllo, mentre già l'indomani, forse, sarebbe stato possibile ristabilire un po' di disciplina, era chiaro sin d'allora quale sarebbe stata la differenza fondamentale tra il regime di Galba e quello di Otone. Entrambi basati sulla forza militare dei pretoriani, entrambi formalmente ligi e rispettosi delle prerogative del Senato: ma mentre il primo era stato un compromesso senatorio-militare, questo sarebbe stato un compromesso militare-senatorio. Sotto Galba il Senato aveva goduto di una effimera restaurazione, utilizzando le coorti pretorie come puro strumento di potere; adesso erano queste ultime che reclamavano per sé la sostanza del potere, lasciandone al Senato le parvenze. E così come sotto Galba il Senato si era servito della forza materiale dell'esercito, così ora l'esercito intendeva puramente servirsi del prestigio giuridico e morale del Senato come di una garanzia di legittimità sia nei confronti del caduto regime, sia nei confronti della pericolosa minaccia vitelliana.

Veramente il compito di Otone era tutt'altro che facile, come subito si vide, per l'istintiva diffidenza dei soldati nei confronti del Senato e per la segreta ma irriducibile avversione di quest'ultimo all'arbitrio militaresco. E' vero che una parte dei senatori, specialmente i vecchi amici di Nerone, e con loro buona parte del popolino aderivano sinceramente alla causa di Otone, al di là di un puro calcolo di momentanea convenienza; ma come conciliare la difficile convivenza tra un Senato diviso, insincero, pronto a darsi al vincitore del momento chiunque egli fosse, e pur tuttavia geloso dei privilegi che non poteva più far valere; e un esercito privilegiato, disadatto ormai alle fatiche di guerra e assuefatto ai dolci ozi di Roma, ma cosciente della propria forza nella capitale e deciso a farla valere su tutto e su tutti? E come fronteggiare, con forze tanto divise e segretamente discordi, una minaccia compatta e decisa, quale quella costituita dalle agguerrite legioni di Germania?

La posizione di Otone era ancor più delicata e incresciosa sul piano strettamente personale - un piano che a torto e con suo danno tanta parte della storiografia moderna tende a misconoscere come del tutto privo di incidenza sulla vita politica. Mentre infatti, circondato dai senatori plaudenti, il nuovo imperatore scrutava quei volti eccitati, entusiasti, non poteva non riconoscere coloro che fino al giorno innanzi lo avevano insultato e disprezzato, paragonato alla dissolutezza di Nerone, calunniato al cospetto di Galba. Pochi uomini a Roma, forse nessuno, erano a un tempo più amati e più odiati di lui. I pretoriani lo idolatravano, e molta parte del popolo lo amava sinceramente, tanto da applaudirlo, nel Foro, quella notte stessa, col nome di Nerone, ma il suo passato gaudente e burrascoso gli attirava lo sprezzo altero della nobiltà conservatrice, così come le circostanze sanguinose della sua ascesa al potere avevano acceso un segreto desiderio di vendetta negli amici di Galba.

Il problema di governo di Otone era naturalmente di duplice natura, e i due piani s'intrecciavano e si fondevano, condizionandosi a vicenda. Come si seppe subito dopo la morte di Galba, il movimento di Vitellio non comprendeva un paio di legioni appena, come il defunto imperatore aveva cercato di far credere, e non era nemmeno limitato agli eserciti di Germania, ma comprendeva la più parte ormai dell'occidente transalpino. Organizzare le difese, ciò che Galba aveva troppo a lungo differito, era il primo compito del nuovo governo, come pure avviare delle trattative con Vitellio nella speranza di indurlo a cedere pacificamente - se una simile speranza poteva mai esistere. Ma nella facile previsione che tali negoziati sarebbero falliti, il problema difensivo dell'Italia appariva chiaramente di natura non solo militare. Come poteva Otone pensar di avanzarsi a fronteggiare la minaccia, senza prima essersi assicurate le spalle? In altre parole: era prudente, era saggio lasciar Roma, muovere coi pretoriani verso la frontiera alpina, lasciando il Senato padrone dell'Urbe e di sfogare la propria avversione e insofferenza contro gli assassini di Galba? In secondo luogo: era pensabile di imbarcarsi in una campagna militare così pericolosa e difficile, così densa di rischi e incerta di prospettive, con un esercito che era non solo numericamente molto inferiore, ma anche irrimediabilmente minato dalle spirito di rivolta e dalla psicosi del tradimento delle truppe da parte dei propri ufficiali? Non avrebbe favorito questa indisciplina, questo zelo dei soldati nei confronti della persona di Otone, paradossalmente, i piani d'invasione dei generali di Vitellio?

Per quanto riguarda il primo aspetto del problema governativo, quello del rapporto tra pretoriani e Senato alla luce dell'avanzata vitelliana, Otone agì con innegabile abilità. Frenando l'eccitazione dei soldati, impedì che il massacro degli amici di Galba si estendesse alla massa dei senatori in quanto tali; chiese e ottenne la loro approvazione ad assumere il titolo imperiale; promise il rispetto delle leggi e delle prerogative senatorie; esortò i senatori a uno sforzo comune per la difesa della patria minacciata; evitò ogni polemica e si astenne, dopo i tragici fatti del 15 gennaio, dall'abbandonarsi alle vendette private, così da dare l'impressione di aver scordato completamente le mordaci calunnie cui era stato fatto oggetto nell'ambiente di Galba. In breve, rassicurò il Senato che nulla, almeno formalmente, sarebbe cambiato nel reggimento dell'Impero: chiese anzi la collaborazione della Curia, ostentando di volersi riallacciare alla tradizione augustea di collaborazione tra princeps e Senatus.

Un semplice colpo d'occhio era bastato, a Otone, la vigilia dell'irruzione vitelliana, per comprendere che tale collaborazione era necessaria, anzi vitale, alla sopravvivenza del proprio governo; che proprio qui egli poteva giocare il suo asso nella manica nella difficile partita, la garanzia di legalità che veniva a lui, di contro a Vitellio, dall'essere riconosciuto e fattivamente sostenuto dal Senato. Giacché quest'ultimo, lungo tutta la storia dell'Impero Romano da Giulio Cesare in poi, non aveva più né la forza, né, spesso, la volontà di mantenersi nella posizione di supremo garante della vita politica e giuridica dello Stato, e tuttavia continuava, per la forza tenace della tradizione, a essere considerato tale sia dal popolo, sia dagli stessi eserciti e imperatori che di fatto lo spogliavano di tale ruolo. Infatti se vi è, senza dubbio, della esagerazione nella tesi di Guglielmo Ferrero, che cioè il Senato continuò a governare sino alla crisi del III secolo, talvolta nominando, talaltra ratificando gl'imperatori, è pur vero che esso continuò a rappresentare la continuità delle leggi e della tradizione anche agli occhi di quegli imperatori che, come Settimio Severo, più si adoperarono per infliggergli il colpo mortale. Nel caso di Otone, poi, il bisogno di sostegno fra potere militare e assemblea senatoria era almeno reciproco: perché se il primo aveva bisogno della legittimazione del secondo per sostenere in condizioni di vantaggio politico l'urto con Vitellio, il secondo era legato a Otone dal timore delle violenze soldatesche, che potevano ad ogni istante ridestarsi, nonché dal terrore istintivo dell'avanzata degli eserciti provinciali, semibarbarici, che apparivano anche più incontrollabili delle prepotenti coorti pretoriane.

Certamente la nomina di Flavio Sabino a prefetto urbano fu, da parte di Otone, un colpo magistrale. In primo luogo, perché aveva lasciato libertà di scelta ai soldati, guadagnandosi ancor più la loro fiducia, mentre in effetti il loro candidato soddisfaceva pienamente anche lui. Poi perché Sabino, come fratello di Vespasiano, costituiva un'ottima carta da giocare nella partita contro Vitellio, in quanto gli procurava la simpatia e l'appoggio delle legioni di Palestina. Infine perché Sabino, personaggio gradito non solo ai soldati, ma anche a gran parte del popolo e del Senato, e personalmente alieno da ogni ambizione di potere, era l'uomo adatto da lasciare in Roma mentre Otone sarebbe andato coll'esercito incontro alle legioni del Reno. Restava un ostacolo ancora da superare, nei rapporti col Senato: il cadavere di Galba, la sua testa mozza portata in trionfo per le strade, tutti gli orrendi ricordi legati alla conquista del potere da parte del nuovo imperatore in quella notte di sangue. Otone cercò di rimuoverlo presentandosi alla Curia come lo strumento di un destino più grande di lui; sostenne che i soldati l'avevano forzato ad accettare quel potere, che ormai era sfuggito palesemente e per sempre dalle mani di Galba, e fece ricadere sugli errori politici di quest'ultimo la vera responsabilità di quanto era accaduto. Certo, ai senatori all'antica, ai vecchi amici di Galba, non poteva riuscire gradito il fatto che il nuovo imperatore si lasciasse salutare per la via col nome di Nerone, e che, di lì a poco, arrivasse al punto di firmare i rescritti imperiali come Otone-Nerone, anzi ciò doveva apparir loro come cosa di pessimo gusto e come rivendicazione di un programma politico non certo rispettoso dell'autorità del Senato.

Tuttavia la giustificazione fornita da Otone sulla fine di Galba, in quanto scindeva le sue proprie responsabilità, e sia pure implicitamente, da quelle dei pretoriani, venne accettata, tanto più che con vero tatto e senso della misura il nuovo imperatore evitò di istituire un processo morale contro la memoria del suo infelice predecessore. Noi però possiamo facilmente immaginare l'imbarazzo politico, e non solo politico, di Otone, costretto a recitare contemporaneamente il ruolo di Nerone coi soldati e col popolino, di Galba redivivo con l'assemblea curule, e a toccare con mano le contraddizioni in cui si dibatteva il proprio governo, non troppo dissimili da quelle che avevano tratto Galba a rovina. Accettare il ruolo di un novello Nerone, poi, se era politicamente opportuno nei confronti dei pretoriani, sempre legati al ricordo di quel principe, e del popolino, più che mai desideroso di frumentazioni e di feste, era indubbiamente penoso per lui sul piano personale. Nerone, che gli aveva tolta la bellissima e amatissima Poppea Sabina; che aveva spezzato la sua carriera e la sua privata felicità, esiliandolo per dieci anni da Roma; Nerone, il vecchio compagno di gozzoviglie, contro il quale pure era insorto fra i primi, mettendo le proprie forze e le proprie sostanze al servizio della causa di Galba; Nerone lo perseguitava anche adesso, a sette mesi dalla sua morte, imponendogli quella incredibile e fastidiosa finzione. Pure, l'Otone ritornato dalla Lusitania, dopo dieci anni d'assenza, era un uomo nuovo, come presto i suoi concittadini avrebbero veduto, affatto diverso dal giovane debosciato che aveva gareggiato con Petronio quale arbiter elegantiarum in mezzo alla dorata gioventù romana. Torneremo più avanti su questo cambiamento; è certo, comunque, che se di Nerone accettava adesso, per motivi di convenienza politica, di ostentare il nome, non era però una semplice riedizione del passato regime quella che offriva adesso ai Romani; era un Nerone ben diverso dall'antico, rafforzato, come disse il Barbagallo, sia pure adoperando toni un po' troppo patetici, e purificato dal dolore.

L'altro grande problema politico di Otone, quello della disciplina militare minata dal clima di sospetto dei soldati verso i propri ufficiali, l'imperatore ben comprese che l'unica maniera di risolverlo era quella di assicurarsi la fedeltà dei centurioni e dei tribuni. Già essi dovevano essere rimasti a dir poco contrariati dal contegno assunto dai soldati semplici verso di loro fin dall'inizio, quando li avevano allontanati, nella caserma pretoria, dalla tribuna di Otone; e dal fatto che quest'ultimo aveva concesso loro libertà di scegliersi i due nuovi prefetti passando sopra al parere di graduati e ufficiali. Otone, che aveva dovuto servirsi, nel primo furore dell'insurrezione, di mezzi politici largamente demagogici, ma che non era uno sprovveduto, comprese che non avrebbe mai potuto fondare il proprio potere, e tanto meno affrontare il cimento con Vitellio, con un esercito disorganizzato e privo di comando.

Con una mossa estremamente abile riuscì allora a raggiungere un duplice obiettivo: esentò i soldati semplici dal pagamento ai centurioni delle esenzioni dal servizio, allora frequentissime, e al tempo stesso si assunse di sostenere il pagamento di tali esenzioni di propria tasca. Poté quindi accrescere la propria popolarità fra le truppe senza contrariare la classe degli ufficiali inferiori, della cui leale collaborazione aveva pure estremo bisogno; ed essi apprezzarono il suo gesto, tanto è vero che da allora in poi divenne consuetudine che l'imperatore provvedesse con la sua cassa personale al pagamento delle esenzioni. Era e restava, comunque, una politica arrischiata e demagogica, tale da istituzionalizzare il decadimento professionale e morale dei pretoriani. Liberi dal servizio attivo, già così poco gravoso a paragone di quello dei legionari, essi potevano vagabondare per la metropoli abbandonandosi all'ozio e alle dissolutezze, così da ridurre ulteriormente le loro già limitate capacità combattive. E tuttavia, proprio il fatto che tale demagogico provvedimento di Otone venisse confermato dai suoi più stimati successori, che a parole bollarono la memoria del suo regno coi peggiori epiteti di corruzione e anarchia, dimostra che la posizione di forza, acquistata in Roma dai pretoriani, era divenuta ormai una realtà definitiva e un diritto acquisito, che si poteva in teoria deprecare, ma che non si aveva la capacità o la volontà di ridimensionare.

La posizione privilegiata delle coorti pretorie, che durante il breve regno di Otone raggiunse il culmine, ma che si mantenne in seguito per molto tempo ancora, sta in esatto parallelo con quella della plebe urbana, piaggiata da Nerone senza limiti con gli spettacoli, le distribuzioni di generi alimentari, e la politica delle terme pubbliche, assolutamente antieconomica, tutte cose però mantenute e perfino aumentate dagli imperatori successivi, mano a mano che il principato si trasformava in una monarchia militare sempre più assolutista. E' chiaro che il ritorno a tali mezzi politici, nei confronti tanto dell'elemento militare che di quello popolare, dopo l'avversata parentesi di austerità galbiana, poteva creare l'illusione di una ripresa del regime neroniano dopo quello che, per la sua brevità e impopolarità, era sembrato a molti un semplice incidente.

3.5 Il rapporto tra capitale e province

Ma appunto durante il regno di Nerone erano andate maturando quelle contraddizioni, nella vita politica del vasto Impero, che avevano tanto contribuito alla sua caduta e che adesso si ripresentavano, accresciute e divenute pressanti, al nuovo governo di Otone. La rivoluzionaria novità, che un imperatore poteva essere proclamato anche lungi da Roma era stata insegnata da Galba, il quale tuttavia non ne aveva inteso le profonde implicazioni e aveva creduto di poter riportare tutta l'attività politica dell'Impero nella sola Roma, e più particolarmente in seno alla Curia, come se la caduta di Nerone e la sua stessa venuta vittoriosa dalla Spagna fossero una realtà che si poteva adesso cancellare, senza che ne rimanesse traccia alcuna. Questo fu un grossolano errore di ordine politico. Se le province occidentali, la Gallia e la Spagna, erano insorte contro Nerone, ciò non era stato sol per rivendicare l'autorità calpestata e offesa del Senato dal folle imperatore; questo diceva bensì a parole Giulio Vindice, ma altra e più profonda era la realtà dei fatti. Ed essa era questa, che le province, e in modo particolare gli eserciti provinciali, si erano stancati di esser considerati dal governo centrale alla stregua di colonie, e aspiravano, pur restando nell'ambito dell'Impero e delle leggi di Roma, a svolgere anch'esse un ruolo più attivo nel complesso della vita statale. Ma poiché il movimento di Vindice era stato pel momento schiacciato, e la sua stessa legione spagnola era troppo debole per avanzare rivendicazioni, Galba si era illuso che dopo gli sconvolgimenti che avevano accompagnato la caduta di Nerone, tutto fosse tornato come prima. La risposta alla sua miopia politica era venuta da Vitellio, a capo degli eserciti germanici, indi dagli stessi pretoriani, gelosi del potere che il Senato aveva riacquistato.

Erede di questa complessa situazione Otone, che era stato portato al successo dall'ondata risentimento dei pretoriani, si ritrovò subito sulle braccia il pressante problema germanico. Più acuto osservatore della realtà politica che Galba non fosse stato, Otone intuì il malcontento latente e le cause profonde di malessere delle province, e il fatto che tali forze, sino ad ora sotterranee, nel venire alla ribalta della storia, si erano occasionalmente coagulate intorno alla figura, di per sé insignificante, di Aulo Vitellio. La sua politica generale nei confronti delle province, cui tra poco faremo cenno, dimostra una sua maggiore sensibilità, rispetto al predecessore, verso le aspirazioni di maggior emancipazione di una parte di esse. Ma il dato di fatto, del quale Otone doveva tener sempre conto e che costituiva, anzi, il suo punto di partenza politico, era che egli andava debitore dell'Impero alle coorti pretorie e, in misura minore, al favore del popolino della capitale: interessi municipali, dunque, diversi da quelli che avevano costituto il nerbo della forza di Galba, ma quanto quelli ristretti ed egoistici, gelosi di ogni intromissione delle legioni e delle province nella vita politica. La base del partito di Otone rimaneva insomma la città di Roma e, secondariamente, l'Italia, dalla quale per antico privilegio si traevano le leve dei pretoriani e che di conseguenza guardava con orgoglio e sufficienza tanto il proletariato militare, ossia i rozzi legionari «semibarbari» di Gallia, Germania, Pannonia; sia le province in generale, le cui aspirazioni di promozione sociale e politica nei confronti della Penisola e della capitale erano guardate con sospetto e avversione.

L'Impero Romano era giunto in quel delicatissimo momento della propria storia, in cui non solo il potere politico non coincideva più, come al tempo della Repubblica, con quello militare; ma in cui perfino tra il dominante potere militare s'era aperta una larga breccia tra potere nominale e potere effettivo. Il potere nominale era in Italia, a Roma, e più precisamente nei castra Praetoria che, essendo la base militare di gran lunga più vicina al Senato e al palatium pretendevano di esercitare un vero e proprio protettorato sull'Impero: così avevano fatto dal tempo di Caligola fino all'ascesa di Otone, passando per la proclamazione di Claudio e la caduta di Nerone. Ma adesso, di contro alle loro pretese, si levavano gli eserciti provinciali, finalmente coscienti della propria forza e decisi a contrastare ai pretoriani, che odiavano per i loro privilegi e detestavano per la loro mollezza, la nomina dell'imperatore. Nel caso di Vitellio, gli eserciti provinciali avevano addirittura preso sul tempo i pretoriani: quando infatti questi ultimi si resero conto che Galba non serviva i loro interessi e lo rovesciarono, sostituendolo con Otone, Vitellio aveva già avuto il vantaggio della prima mossa e stava spingendo i suoi eserciti sull'Italia.

Ne scaturì una situazione per molti versi singolare: i legionari si erano mossi per spazzare un nemico, il regime monarchico senatorio-conservatore, che più non esisteva; esso era stato rimpiazzato dal nuovo regime pretoriano neo-neroniano, anch'esso però espressione di forze anacronistiche e votato alla sconfitta. Con profonda ragione ha scritto il Mommsen che la storia non riconosce agl'inermi il diritto di comandare: e tale era adesso la situazione dei pretoriani, dopo esserlo stata del Senato. I privilegi di cui andavano tanto fiere Roma e l'Italia nella vita dell'Impero non solo erano in ritardo sui tempi; ma non riposavano più nemmeno su di una forza materiale effettiva: superati sul piano economico, erano dunque anche insostenibili su quella militare. Il governo di Vespasiano avrebbe saputo trarre le logiche conseguenze di tale stato di cose, stabilendo la fine di molti privilegi della Penisola e avviando il caratteristico cosmopolitismo del medio Impero.

E' interessante notare come la crisi imperiale del 68-69 troverà esatta rispondenza in quella del 192-93, dopo l'assassinio di Còmmodo. Anche allora, il crollo di una lunga dinastia aprì il varco allo scatenarsi della lotta politica: anche allora i pretoriani, col loro candidato Didio Giuliano, arrivarono per primi ad afferrare il supremo potere, ma dovettero cederlo al più veloce degli eserciti provinciali a piombare sull'Italia - quello di Settimio Severo; e anche allora, infine, una guerra civile di vaste proporzioni divise le varie province, manifestando alcuni tratti assolutamente analoghi, quali l'odio del proletariato militare semibarbaro nei confronti delle città, identificate come la roccaforte del predominio italico e delle sperequazioni economiche e sociali: il destino di Lione o di Bisanzio fu l'esatta ripetizione di quello che già era stato di Cremona e di Roma stessa. Infine, anche nella crisi del 192-93 la vittoria finale rimase non alle legioni transalpine occidentali, ma a quelle illiriche e pannoniche, il che aprì la strada all'irruzione culturale greco-asiatica nella vita politica e morale dell'Impero e alla concomitante decadenza dell'elemento latino originario. Punto d'approdo di tale lento processo storico sarà, nel 326 d. C, la fondazione di Costantinopoli ad opera di Costantino il Grande e il trasferimento dal Tevere al Bosforo del cuore politico-militare dello Stato.

3.6 Evolversi della situazione politico-militare

A prima vista, si sarebbe potuto credere che la situazione di Otone fosse vantaggiosa e più favorevole di quella rivale germanico. La più gran parte dell'Impero, le province più ricche, le città più famose si erano schierate dalla sua parte, non tanto, osserva forse giustamente Tacito, per una predilezione nei suoi confronti, quanto per il prestigio che gli derivava dall'avere Roma e il Senato dalla propria parte. In Giudea, ove le tre legioni impegnate nella dura guerra contro gli Ebrei stavano stringendo d'assedio Gerusalemme, il loro comandante Tito Flavio Vespasiano aveva fatto giurar loro fedeltà davanti alle immagini di Otone. Lo stesso avevano fatto Licinio Muciano con le legioni di Siria e Tiberio Alessandro con quelle d'Egitto. Anche l'Africa aveva abbracciato la causa di Otone, sollevando l'Urbe dallo spettro della fame, che già per un attimo era balenato al momento del tentativo di Clodio Macro contro Galba. Le due maggiori province granarie dell'Impero, l'Africa Proconsolare e l'Egitto, erano dunque aperte al traffico marittimo con Ostia e Pozzuoli e ciò rimuoveva il pericolo di sommosse del popolino ormai abituato alla consuetudine delle pubbliche distribuzioni di grano. Così pure la Spagna, antica roccaforte di Galba, e l'Aquitania parevano fedeli a Otone. Ma l'adesione più importante al nuovo imperatore venne dalle legioni della Dalmazia, della Pannonia e della Mesia, che per valore e disciplina erano in grado di battersi alla pari con quelle germaniche e per vicinanza geografica al teatro d'operazioni sarebbero state in grado di intervenire nella lotta assai prima delle lontane legioni d'Asia e d'Egitto.

Questo quadro d'insieme, all'apparenza così rassicurante, era in realtà molto meno favorevole a Otone che non paresse. Poiché le legioni di Vitellio si erano già messe in movimento ai primi di gennaio verso l'Italia, era evidente che la contesa fra i due imperatori si sarebbe risolta in una gara di velocità fra le loro rispettive armate. E in questa gara le legioni del Reno, forti del vantaggio della prima mossa, compatte, agguerrite, comandate da abili generali, nonché molto più numerose delle forze dislocate in Italia, partivano chiaramente avvantaggiate. Un altro fattore di superiorità solo apparente del partito di Otone era la passività e la lontananza delle legioni d'Oriente. Non era pensabile di trarre anche un sol uomo dagli eserciti della Palestina, duramente impegnati contro i Giudei, anche se il loro comandante Vespasiano doveva essere personalmente ben disposto verso il governo di Otone a motivo dell'alta carica confermata al fratello. Quanto alle truppe di Siria e d'Egitto, esse avevano giurato fedeltà a Otone di lontano, senza particolare trasporto, anzi forse segretamente irritate dal fatto che in Occidente - a Roma, in Spagna, in Germania - le legioni e i pretoriani continuavano a fare e disfare imperatori senza minimamente consultarle. In secondo luogo, spostare queste truppe dall'Oriente in Italia, nei porti di Brindisi, Siracusa, Pozzuoli, Ostia, avrebbe richiesto un tempo considerevole, specie considerando che si era in piena stagione invernale e che di conseguenza i trasporti marittimi nel Mediterraneo erano completamente interrotti, a eccezione del cabotaggio. Sempre a causa della stagione avversa appariva del pari difficile spostare le legioni di Muciano dal caldo della Siria e dalle delizie di Antiochia attraverso i passi del Tauro coperti di neve e di ghiaccio.

Venendo alla situazione in Occidente, nella seconda metà di gennaio gli Otoniani dovettero assistere a tutta una serie di amare sorprese. Quando era partito per assumere il potere a Roma, Galba aveva nominato legato della Spagna Tarraconense Cluvio Rufo, il quale, saputa la notizia della fine del suo benefattore, dopo qualche oscillazione passò con le sue forze al partito di Vitellio. Similmente l'Aquitania e la stessa provincia Narbonense, a ridosso della frontiera d'Italia, avevano giurato fedeltà all'imperatore germanico, certo influenzate anche dal minaccioso approssimarsi dell'esercito di Fabio Valente. La Rezia, spinta forse, come si vedrà, dalla speranza di bottino a danno dei vicini Elvezi, prese anch'essa le armi contro il partito di Otone. Perfino la Corsica, a un dato momento, parve sul punto di passare dalla parte di Vitellio, il che fu evitato all'ultimo momento mediante un breve ma violento conflitto interno. In conclusione tutto l'Occidente transalpino, dalla Britannia alla Spagna e dalla Rezia all'Aquitania, entro la fine di gennaio aveva preso le armi a favore del partito vitelliano, salvo eccezioni isolate, come quella degli Elvezi: Otone, dunque, fin dall'inizio della partita sapeva di non poter contare su di un solo alleato al di là delle Alpi, per ritardare la marcia di Cecina e Valente e dar tempo alle legioni del Danubio di affrettarsi in Italia. Giacché su di esse ormai, come era chiaro a tutti, si appuntavano le principali speranze degli amici del partito otoniano: troppo deboli le forze della Penisola, troppo lontane quelle d'Oriente, la più realistica speranza di contenere e sconfiggere le legioni del Reno veniva necessariamente da quelle danubiane, cui Otone aveva fissato come punto di concentramento al di qua delle Alpi la colonia di Aquileia.

Naturalmente il nodo della situazione strategica era, per Otone, riuscire a trattenere le armate di Cecina e di Valente fino al sopraggiungere dei grossi delle legioni pannoniche e mesiche, compito che la conformazione delle frontiere settentrionali d'Italia, sbarrate dalla formidabile catena alpina, e le nevi invernali, sembravano facilitare. Ma una serie di circostanze sfortunate impedì a Otone di bloccare i passi alpini anche solo con forze di copertura, là dove la natura del terreno avrebbe consentito di trattenere a lungo un nemico numericamente assai superiore. La prima era da attribuirsi, come abbiamo visto, all'imprevidenza di Galba, che aveva sprecato quasi due settimane senza far nulla di concreto per fronteggiare la minaccia sul piano militare. Poi c'era il fatto che il nerbo delle scarse forze otoniane, ossia le coorti pretoriane e quelle urbane, essendo concentrate a Roma erano in effetti più lontane dai valichi alpini che non le legioni di Cecina, già in movimento e a ridosso del paese degli Elvezi. Connessa con questa era la circostanza che Otone non poteva spedire subito le proprie forze al nord, lasciando sguarnita Roma e liberi di tramare i suoi segreti oppositori, senza prima aver consolidato la propria posizione ed essersi assicurato la lealtà del Senato. E infine un evento catastrofico, ma inatteso, del quale non conosciamo neppure l'esatta cronologia: il passaggio a Vitellio della cavalleria cosiddetta siliana. Si trattava di un contingente di cavalleria reclutato fra le truppe di Germania e che, al pari di quella coorte germanica accampata a Roma che fu coinvolta nel colpo di Stato di Otone, Nerone aveva avviata verso l'Egitto per la progettata campagna contro gli Etiopi, e poi, alla notizia della rivolta di Vindice, chiamata indietro in Italia e attualmente stanziata nella valle del Po.

Questi cavalleggeri non nutrivano particolare nostalgia per il ricordo di Galba, ma poiché erano stati alle dirette dipendenze di Vitellio al tempo in cui questi era proconsole d'Africa, e ne avevano riportata un'impressione favorevole, all'avvicinarsi delle legioni di Cecina da oltre le Alpi si ribellarono improvvisamente e giurarono fedeltà a Vitellio. Poiché l'Italia settentrionale era sguarnita di altre forze militari, essi s'impadronirono senza colpo ferire di Milano, Vercelli, Novara ed Ivrea (Eporedia) e si affrettarono ad inviare messaggeri ad Alieno Cecina, informandolo della nuova situazione creatasi a mezzodì delle Alpi e invitandolo a sfruttare sollecitamente l'ampia e sicura testa di ponte ch'essi gli offrivano, rimuovendo ogni minaccia di una resistenza otoniana sul difficile terreno dei monti. Così, nel giro di poche settimane dalla sua ascesa al potere, Otone doveva constatare il brusco peggiorare della propria situazione strategica. La ricca pianura della Cisalpina a nord del Po e a ovest dell'Adda, che già allora Tacito descrive come la più ferace provincia d'Italia, era caduta senza lotta e d'un sol colpo nelle mani del partito avversario, annullando ogni speranza di ritardare lo sbocco di Cecina e Valente dai monti e di guadagnare così del tempo prezioso, sino all'arrivo delle legioni danubiane. Se l'esito della guerra dipendeva dalla rapidità di mosse dei contendenti, a questo punto l'ago della bilancia si era già rovesciato a favore di Vitellio. Bruciato sul tempo nella corsa alle Alpi, minacciato perfino sulla linea del Po, con Roma e le retrovie pericolosamente poco sicure, lontano dalle sue forze principali, Otone andava incontro a una battaglia disperata. Era evidente che la prospettiva più sicura era, per lui, evitare il più a lungo possibile lo scontro e cercar di guadagnare tempo. Ma era questa strategia possibile, allorché si trattava di lasciare in balìa del nemico non già una lontana ed oscura provincia, ma l'Italia stessa, cuore politico e morale dell'Impero?

3.7 Azione politica di Otone

Come si è visto, Otone, dapprima per iniziativa del popolino e con sua personale sorpresa, indi seguendo un calcolo ben preciso di natura politica, non aveva esitato ad assumere il ruolo di continuatore del regime neroniano. Dopo aver permesso alla folla di salutarlo col nome di Nerone, ed essersi poi in tal modo firmato anche nei documenti ufficiali, era giunto al punto di far rialzare le abbattute statue di Nerone e perfino di Poppea in vari luoghi dell'Impero. Inoltre uno dei suoi primi atti di governo fu quello di stanziare una forte somma di denaro pubblico per ultimare la costruzione della grandiosa Domus Aurea, la dispendiosissima e volgarissima costruzione iniziata da Nerone sul colle Palatino e da lui lasciata incompiuta. Venne poi la volta di Ofonio Tigellino, l'ex prefetto del pretorio di Nerone, che dopo aver terrorizzato Roma con la sua crudeltà e perfidia, aveva abbandonato il suo benefattore nel momento del pericolo provocandone la fine ingloriosa. Il popolo dell'Urbe ne chiedeva a gran voce la condanna e Otone si affrettò a secondarlo - e a far cosa gradita al Senato - inviando a Tigellino, che si trovava ai bagni di Sinuessa in Campania, l'ordine di uccidersi: ciò che l'ex prefetto fece, nel più puro stile petroniano, banchettando e bevendo, non senza aver prima cercato di eludere l'inevitabile fine.

E' chiaro che i provvedimenti filo-neroniani intrapresi da Otone avevano la doppia mira di accattivarsi le simpatie del popolino di Roma da un lato e delle province orientali - ove il ricordo di Nerone era tuttora vivissimo - dall'altro. D'altra parte, per non irritare troppo la fazione conservatrice del Senato con una esaltazione troppo sfacciata del regime neroniano, Otone si preoccupò di restituire le sostanze ad alcuni senatori già colpiti da confische sotto il passato governo, e ne onorò altri con cariche pubbliche.

Nei confronti delle province adottò una politica estremamente liberale, per non dire demagogica, moltiplicando concessioni e privilegi nel brevissimo arco del suo principato e atteggiandosi quasi a continuatore della politica provinciale di Augusto. Aggregò alla provincia Betica alcuni distretti della Mauretania Tingitana; concesse un ampliamento dei nuclei familiari a Hispalis (Siviglia) ed Emerita (Mèrida); elargì all'Africa e alla Cappadocia nuovi privilegi. Tentò perfino di accattivarsi qualche simpatia fra le legioni germaniche coll'offrire il consolato a Verginio Rufo, il vincitore di Vindice, ma senza alcun effetto. Intanto avviava febbrili iniziative per cercar di bloccare con mezzi diplomatici l'avanzata inesorabile degli eserciti vitelliani. Per prima cosa scrisse direttamente a Vitellio, nella vana speranza di indurlo a rinunciare al potere e offrendogli in cambio uno splendido ritiro dove avesse voluto, per trascorrervi indisturbato una tranquilla vita privata. Tanto Plutarco che Svetonio arrivano a dire che Otone avrebbe offerto a Vitellio perfino di associarlo nell'Impero e di farlo proprio genero, il che, francamente, appare poco credibile. In ogni caso non una sola lettera Otone scrisse al rivale, ma parecchie (scrive Tacito: infectae epistulae), e questo dimostra se non altro che egli non aveva compreso essere Vitellio poco più che lo strumento di una sfrenata volontà di dominio delle legioni germaniche, fin dall'inizio condizionato nelle sue scelte dall'ambizione dei generali e dalle passioni dei soldati. La logica risposta di Vitellio alle lettere di Otone fu una serie di controproposte, nelle quali egli offriva al rivale tutto ciò che questi era pronto a offrire a lui, con cortesia ostentata all'inizio, poi scambiandosi reciproci rimproveri e accuse. Esaurite rapidamente le prospettive di addivenire a una soluzione incruenta della contesa, cercavano almeno di scaricarsi reciprocamente la responsabilità delle conseguenze, come sempre fanno a scopo propagandistico i governi quando parlano di pace già in cuor loro ben decisi alla guerra.

Otone aveva, è vero, degli ostaggi formidabili nelle proprie mani: la madre, la moglie e i figli del rivale, che vivevano a Roma e che erano stati colà sorpresi dal precipitare della situazione. Non ne approfittò tuttavia in alcun modo, lasciando assolutamente indisturbati i parenti di Vitellio, vuoi per la sua naturale ripugnanza a infierire contro degli inermi, vuoi per non esporre i propri parenti, in caso di sconfitta, alle vendette del rivale. Un estremo tentativo fu quello di inviare degli ambasciatori in Gallia, incontro all'esercito di Valente, dopo aver richiamato quelli già spediti da Galba: ma ancora senza successo. I legionari germanici ardevano dal desiderio di battersi, galvanizzati com'erano dalla prospettiva di una facile e rapida vittoria. Gli ambasciatori otoniani parte furono rimandati, parte furono trattenuti o forse, com'è più probabile, scelsero di restare presso il favorito della guerra imminente; dopo di che ogni trattativa diplomatica venne definitivamente abbandonata.

La parola toccava adesso alle armi.

Cap. 4 LA GUERRA CIVILE FRA OTONE E VITELLIO

4.1 L'invasione dell'Italia

Come si ricorderà, le due armate di Fabio Valente e di Alieno Cecina s'erano messe in movimento verso sud fin dai primi giorni di gennaio, subito dopo la proclamazione di Vitellio, imponendo alla guerra un corso ancor più rapido e deciso di quanto lo stesso imperatore germanico sembrasse desiderare. L'esercito di Valente, forte di circa 40.000 uomini, s'era avviato dalla Germania Inferiore, traverso la Gallia Belgica, verso sud-ovest, con l'obiettivo di assicurare strada facendo il completo dominio di quei paesi ed irrompere in Italia per le Alpi Cozie. Quello di Cecina, composto da circa 30 mila effettivi, discendeva invece direttamente dagli accampamenti invernali nella Germania Superiore verso la Rezia, per entrare nella Penisola attraverso le Alpi Pennine. Giova ricordare che sia l'uno che l'altro non erano formati dalle legioni germaniche complete, ma da reparti scelti di esse, distaccamenti di cavalleria e unità ausiliarie; erano dunque stati concepiti per una avanzata rapida, con equipaggiamenti leggeri, e risultavano composti per buona parte da truppe di nazionalità germanica.

La marcia dell'esercito di Valente attraverso le terre della Gallia fu, per usare l'espressione in altro luogo adoperata da Erodiano, odiosa e terribile. Essa era iniziata in un clima di generale ottimismo ed entusiasmo, poiché i primi cantoni gallici interessati dall'avanzata erano quelli dei Treveri, alleati di vecchia data dei Romani e recenti compagni di lotta dei legionari contro l'insurrezione di Vindice. Amichevole fu quindi l'accoglienza delle popolazioni ai soldati di Valente, anzi addirittura festosa; eppure, giunte le truppe a Divoduro (Metz), assalite da un furore improvviso si gettarono sugl'inermi abitanti massacrando tutti senza distinzione, nonostante le suppliche dello stesso Valente, che invano cercava di ricondurle all'umanità e alla ragione. Quando finalmente si stancarono di strage e si rimisero in marcia, lasciavano alle loro spalle i corpi senza vita di 4.000 fra uomini, donne e bambini. Questo esordio della marcia dell'esercito vitelliano produsse, com'è naturale, un'ondata di autentico panico in tutta la Gallia e anziché placare, accrebbe a dismisura l'anarchia e il selvaggio furore dei soldati.

Si tracciavano così, fin dalle prime battute, alcuni tratti caratteristici della guerra civile fra otoniani e vitelliani, non mai smentiti sino al termine di essa. Primo, l'assoluta indisciplina degli eserciti d'ambo le parti, l'impotenza degli ufficiali, sia inferiori che superiori, a controllare la situazione - e questo perfino in delicati frangenti di carattere tattico-strategico, come si sarebbe visto più avanti. Secondo, la propensione dei due avversari di trattare i paesi attraversati, anche se alleati, come nemici e come terra di conquista: agli orrori commessi dai vitelliani in Gallia faranno riscontro quelli degli otoniani in Liguria; e Vitelliani e Flaviani, dopo la sanguinosissima battaglia di Cremona, si uniranno nel saccheggio spietato della città. Terzo, il carattere culturale e in parte anche etnico delle armate vitelliane, più germanico che romano (così come Vitellio stesso aveva rifiutato il titolo di Cesare e quello di Augusto, ma aveva accettato quello di Germanico), tale da conferire una particolare fisionomia vagamente barbarica alla loro marcia su Roma, oggetto di particolare terrore fra i Galli e gl'Italici e, naturalmente, argomento di attiva propaganda antivitelliana nelle mani di Otone.

Ripresa la marcia senza fretta, Valente era giunto nei dintorni di Tullum (Toul) quando seppe della fine di Galba e della proclamazione di Otone da parte dei pretoriani. Più che mai decisi alla guerra, i suoi soldati accolsero la notizia con assoluta indifferenza e non aspettarono nemmeno di ricevere da Colonia eventuali nuove istruzioni. Passati nel territorio degli Edui (capitale Augustodonum, l'odierna Autun), ricevettero spontaneamente denaro, armi e vettovaglie dalle popolazioni, ansiose di far dimenticare la propria partecipazione alla rivolta di Vindice. Scoppiarono frattanto alcuni incidenti fra legionari romani ed ausiliari batavi, che obbligarono Valente a prender provvedimenti per ristabilire un minimo di disciplina fra questi ultimi. Quando l'armata entrò in Lione, essa fu accolta con particolare entusiasmo dalla popolazione e ricevette l'adesione della legione Italica e del corpo di cavalleria detta tauriana. Durante la guerra di Giulio Vindice i Lionesi avevano parteggiato per Verginio Rufo mentre gli abitanti della vicina Vienna (Vienne), sull'opposta riva del Rodano, avevano preso le armi a favore dei Galli e si erano spinti fino ad assediar Lione, per la qual cosa Galba aveva premiato poi questi ultimi e punito con provvedimenti fiscali i Lionesi. Adesso costoro, frementi di sdegno e da tempo gelosi della prosperità della colonia rivale, con discorsi infiammati esasperavano il furore dei Vitelliani contro i Viennesi, ricordando loro che essi avevano parteggiato sia per Vindice che per Galba, due nomi egualmente odiosi ai legionari, e allettandoli con la descrizione delle ricchezze di quella città. I soldati di Valente, già avvezzi a commettere ogni sorta di soprusi e naturalmente inclini alla ferocia, si sarebbero perciò abbandonati a una strage se il loro comandante, dopo aver estorto segretamente un lauto riscatto ai Viennesi, non avesse distribuito trecento sesterzi a ciascun soldato per ridurli a più miti consigli. La popolazione di Vienne, atterrita, uscì incontro all'esercito e uomini e donne si gettarono a terra abbracciando le ginocchia dei legionari; solo così l'esercito, dopo aver requisito armi e vettovaglie, ammansito, avanzò oltre risparmiando alla città il saccheggio.

Di lì, traverso gli odierni Delfinato e Provenza, sempre minacciando, taglieggiando e atterrendo, con lunghe tappe e senza fretta l'armata di Valente arrivò sul confine delle Alpi Cozie. Il valico dei monti fu effettuato per il passo del Monginevro, con l'unico ostacolo della neve e, nelle retrovie, qualche inefficace tentativo di una flotta otoniana mandata, come vedremo, sulle coste della Provenza a disturbare il transito dei Vitelliani.

Se la marcia dell'armata di Valente attraverso la Gallia era stata caratterizzata da violenze gratuite e atrocità a danno delle popolazioni, quella dell'esercito di Cecina fu tale da superarla in furore barbarico. Giunto sui confini del paese degli Elvezi, esso ebbe un primo incidente con quel popolo, un tempo famoso per le sue gesta guerriere, e che non sapendo ancora della morte di Galba rifiutava di riconoscere Vitellio.

Cecina, invece di cercar di placare gli animi già eccitati de suoi soldati, ordinò una rappresaglia spietata. Incendiate le città, massacrati o fatti schiavi gli abitanti, i soldati giunsero a inseguire i fuggiaschi che avevano cercato scampo sulle cime del Giura, braccarli e sterminarli. Subito dopo, spintosi ai piedi delle Alpi Pennine, l'esercito venne raggiunto da messaggeri della cavalleria siliana che annunciavano l'occupazione di Milano e delle altre città cisalpine e lo invitavano ad affrettarsi oltre i monti. Cecina rimase per un attimo esitante, poiché se le truppe della Rezia lo avevano aiutato a schiacciare gli Elvezi, assalendoli alle spalle, il procuratore Urbico del Norico aveva assunto un atteggiamento ostile. Poi però, rinunciando a perder tempo contro un obiettivo secondario, il generale avviò le truppe leggere attraverso valico del Gran San Bernardo e tenne loro dietro col grosso dell'esercito. Anche qui non vi fu alcuna resistenza da parte degli otoniani e l'intera armata di Valente poté scende indisturbata nella Pianura Padana.

Le chiavi dell'Italia erano quindi in mano ai vitelliani e, con ciò, la via era aperta anche al terzo e più formidabile esercito invasore, quello che lo stesso Vitellio, lassù sulle rive del Reno, stava radunando fra grandi preparativi.

4.2 Partenza di Otone da Roma

II forzamento della barriera alpina da parte di Cecina Valente, benché condotto con abilità e tempismo, era stato quasi privo di rischi perché del tutto incontrastato. Non avendo potuto impedire al nemico lo sbocco dai monti, Otone intendeva almeno contenerlo sulla linea del Po, per cui affrettò la propria partenza da Roma. Sul Danubio una massiccia incursione di Roxolani era stata ricacciata con grande strage dei barbari dal governatore della Mesia, Marco Aponio e dalla terza legione, e, nonostante l'incidente, gli eserciti balcanici si erano già messi in movimento alla volta dell'Italia. Otone sperava dunque di poter ritardare con le sue modeste forze l'avanzata nemica fino a quando quelle legioni fossero giunte a portata e, possibilmente, impedire il congiungimento degli eserciti di Cecina e Valente. Il rapporto di forze allora esistente tra i due avversari non era certo incoraggiante: ai 70.000 uomini complessivi dei due eserciti di Vitellio, Otone non poteva contrapporre che le quattro coorti urbane, le dodici coorti pretorie, la I legione «Adiutrix» (o «Classica»), formata dai marinai già decimati da Galba e ora regolarmente inquadrati, nonché 2.000 gladiatori armati per l'occasione: in tutto non più di 30.000 uomini. E' ridicolo dunque affermare, come pure ha fatto taluno autore moderno, che le forze di Otone e di Vitellio in questa fase della campagna suppergiù si equivalevano. E' vero invece che l'esercito d'Italia, sotto la guida di Otone, seppe assumere un atteggiamento attivo e perfino audace, che per un momento mise in forse la vittoria delle legioni germaniche: Vitellio, con le stesse forze militari di cui disponeva Otone nel marzo-aprile, non fu capace, nel novembre-dicembre, nemmeno di bloccare i passi dell'Appennino davanti all'armata flaviana.

Fu proprio mentre Otone stava raccogliendo il suo non grande esercito, che si verificò un incidente caratteristico dello stato d'animo dei suoi soldati, e che per poco non ebbe conseguenze tragiche. L'imperatore aveva ordinato il richiamo da Ostia a Roma di una delle cohortes urbanae e il suo comandante, un tale Vario Crispino, per effettuare il trasferimento con maggior agio di tempo fece aprire i magazzini e trasportare le armi nel cuore della notte. I soldati, già in gran parte avvinazzati, furono messi in sospetto da quel movimento notturno e presto tra loro si sparse la voce irresponsabile che gli ufficiali stavano tramando qualche insidia ai danni di Otone e che quelle armi erano destinate ad armare gli schiavi dei senatori per tentare un colpo di Stato. Allora non vollero più sentir ragioni, si impadronirono delle armi e massacrarono Crispino e alcuni altri che tentavano di ricondurli all'obbedienza. Poi, eccitati da quel primo sangue versato, semiubriachi e furibondi com'erano, da Ostia volarono alla volta di Roma. Vi entrarono a notte ormai fonda mentre Otone, ignaro di tutto, stava dando un festoso banchetto nel suo palazzo sul Palatino a decine di senatori e personaggi importanti.

La notizia dell'approssimarsi di quell'orda ebbra di sangue piombò tutti nel terrore, imperatore e convitati, sospettosi, questi ultimi, di essere stati deliberatamente attirati in una trappola. Ma lo sgomento di Otone, essi lo videro bene, era tanto genuino quanto il loro; e disperando egli di poter placare il furore irragionevole dei soldati, non poté far altro che incitare tutti, uomini e donne, a lasciare immediatamente il palazzo e a mettersi al sicuro ciascuno come meglio poteva, finché la tormenta non fosse passata. Avvennero allora delle scene penose. Influenti senatori, proprietari di latifondi e matrone ingioiellate fuggivano senza alcun ritegno in tutte le direzioni, supplicando ospitalità e rifugio nelle dimore dei più miseri dei loro clientes, poiché non avevano il coraggio di far ritorno alle rispettive case. Fu una fortuna che riuscissero ad allontanarsi prima dell'arrivo dei soldati; diversamente avrebbe potuto accadere l'irreparabile. Quando la coorte giunse davanti al palazzo, non ci fu verso di allontanarla, sfondò le porte, piombò dentro colle armi in pugno e ferì alcuni ufficiali che tentavano di arrestarla. Quegli esaltati, più che mai impensieriti per la sorte dell'imperatore, volevano a tutti i costi vederlo coi propri occhi, né si calmarono finche non ebbero fatta irruzione nella sala in cui egli si trovava. Otone con grande fatica, salito su un letto, e non con ordini e minacce, ma con preghiere e lamenti, riuscì a calmarli e a impedir loro di dare inizio, lì per lì, a una tragica notte di San Bartolomeo ai danni della classe senatoria.

Questo drammatico episodio, che illustrò l'indisciplina delle truppe e il loro cieco attaccamento alla persona di Otone, convinse quest'ultimo ad affrettare la partenza da Roma. Non vi furono quasi punizioni, tale era il suo timore di irritare i soldati con gesti disciplinari inopportuni, ma il Senato era piombato in uno stato di terrore tale che la città di Roma - le case patrizie chiuse e sprangate - sembrava esser piombata di colpo in stato d'assedio. Incidenti genere erano tali da distruggere in poche ore l'opera faticosa e paziente di conciliazione col Senato, da Otone perseguita fin dalla sera del 15 gennaio, quando aveva voluto recarsi personalmente nella Curia per informare rispettosamente i senatori della morte di Galba e della propria proclamazione. D'altra parte, non era nemmeno pensabile di poter partire per la guerra lasciandosi alle spalle un Senato compatto, timoroso e irrimediabilmente irritato. Se durante la sua assenza, nel pieno delle operazioni belliche, il Senato lo avesse dichiarato hostis publicus, come aveva fatto con Nerone e avesse riconosciuto Vitellio, tutto sarebbe crollato senza rimedio. Come si è detto, il Senato era e rimaneva per Otone la prima e più formidabile arma politica nella contesa per l'Impero: per questo era per lui tanto necessaria la sua alleanza o almeno la sua benevolenza. E' ben vero che negli ultimi giorni della sua permanenza a Roma, nel marzo del 69, ad ogni riunione dell'assemblea curule i senatori avevano fatto a gara nel coprire di accuse e d'insulti il lontano Vitellio e nel sostenere calorosamente la causa di Otone; ma quanto valevano tali parole? Non le avevano forse già udite sia Galba che lo stesso Nerone? E quanto non influiva su di esse la paura? La città era piena di spie, vere e immaginarie; soldati travestiti penetravano nelle case dei maggiorenti, ascoltavano i discorsi che vi si facevano, ansiosi di carpire una parola di troppo, una allusione ostile all'indirizzo del principe. E come se non bastasse, si vociferava che Roma pullulasse addirittura di spie vitelliane; voci non infondate, come poi si seppe, poiché dalla Germania erano venuti perfino alcuni sicari col compito di assassinare Otone.

Questi, da parte sua, aveva già distaccato un contingente di marinai, di soldati urbani e di pretoriani e lo aveva spedito via mare sulle coste della Gallia Narbonense, con l'ordine di disturbare quanto più possibile l'avanzata dell'esercito di Valente, poiché quello di Cecina era già calato dalle Alpi. Otone aveva affidato il comando a un triumvirato di uomini decisi e la direzione della flotta a un liberto, certo Mosco, più che altro con l'incarico di tener d'occhio gli ufficiali provenienti dal ceto aristocratico. L'esercito principale, destinato a contendere alle armate vitelliane il possesso della valle Padana, lo affidò a tre generali famosi, Mario Celso, Annio Gallo e Svetonio Paolino. Poiché egli, personalmente inesperto di cose militari, intendeva avvalersi dei consigli dei suoi più capaci generali, pur essendo deciso - a differenza di Vitellio - a partecipare personalmente fin dall'inizio alla campagna. Però, mentre dalla parte vitelliana vi erano dei comandi fortemente centralizzati, il piccolo esercito otoniano era guidato da un collegio di generali tra loro profondamente divisi in fatto di opinioni strategiche e tuttavia subordinati alla decisione finale dell'imperatore, che uno stratega certamente non era. Tutto questo stato di cose avrebbe avuto conseguenze funeste per gli otoniani.

Prima di partire, nei suoi discorsi ai soldati, al Senato e al popolo di Roma, Otone fece del suo meglio per ristabilire un clima di fiducia e di disciplina all'interno del proprio partito. Subito dopo la drammatica notte dell'irruzione militare a palazzo, tribuni e centurioni si erano precipitati dal sovrano supplicandolo di conceder loro il congedo e la vita, poiché era divenuto impossibile comandare ai soldati, richiesta dalla quale avevano a malincuore receduto, per le suppliche degli stessi soldati. Dei timori del Senato, del clima di paura e di sospetto in cui perennemente viveva, si è già detto. Otone risolse il problema di lasciarsi un potenziale nemico alle spalle coll'invitare parecchi senatori a seguirlo nell'Italia settentrionale, per prender parte, specialmente col loro sostegno morale, alla difesa della patria. Naturalmente la maggior parte della classe curule aveva tutte le ragioni di temere una vittoria di Vitellio, specialmente dopo che si furono diffusi i racconti delle atrocità commesse in Gallia e nel paese degli Elvezi, però solo una piccola minoranza era sinceramente favorevole alla causa di Otone, mentre molti rimpiangevano Galba e comunque quasi tutti non desideravano affatto partire per la guerra. Perciò l'invito dell'imperatore, per quanto abile nel pretesto e formalmente rispettoso e impeccabile, fu preso dai ricchi e indolenti senatori per ciò che in realtà era: un ordine velato del padrone che diffidava della loro fedeltà. Infatti non solo l'uscire da Roma li avrebbe resi del tutto impotenti a tramare alcunché a danno di Otone ma il trovarsi al seguito dell'esercito li avrebbe chiaramente esposti alle rappresaglie dei soldati, i cui sentimenti verso di loro erano ormai ben noti. Il minimo passo falso, il più piccolo occhieggiare con Vitellio, specialmente nel caso che la guerra avesse preso una piega sfavorevole per gli otoniani, li avrebbe esposti a una rabbiosa reazione e forse a una carneficina. Era insomma evidente che Otone, pur avendo fatto del suo meglio per amicarsi il Senato e per convincere i suoi turbolenti soldati della necessità di rispettarlo, adesso, messo alle strette dall'invasione della Penisola, era costretto a portarsi dietro i senatori precisamente per ammonirli con la presenza minacciosa delle truppe.

Infine veniva il popolo. Dopo i pretoriani e dopo il Senato, era questo il terzo grande sostegno del regime otoniano. L'aumento delle spese militari per la guerra in corso e la conseguente impennata dei prezzi avevano già provocato la rarefazione di alcuni generi alimentari, colpendo in primo luogo i ceti medi della capitale. Né i ricchi, per ovvie ragioni, né i proletari, mantenuti dallo Stato con la politica delle frumentazioni, avevano per adesso seri motivi di scontento, ma i piccoli commercianti, gli artigiani, i bottegai, risentivano già le conseguenze economiche della guerra appena iniziata. Queste classi per prosperare abbisognavano di ordine, di pace e di sicurezza nei trasporti; invece l'inizio del governo di Otone era incominciato con una guerra e una spaventosa minaccia d'invasione. Per aggravare lo stato di cose esistente, le piogge torrenziali di marzo avevano ingrossato a dismisura il Tevere, dando luogo a una disastrosa inondazione che provocò il crollo dell'antico ponte Sublicio e l'allagamento di una gran parte della città, con il conseguente deterioramento delle merci stivate nei magazzini e non poche vittime fra la popolazione. Un serio allagamento interruppe pure la via Flaminia poco a nord di Roma e prostrò ulteriormente il già scosso morale dei Romani.

Otone partì da Roma in mezzo a questi presagi sfavorevoli, in un triste mattino di pioggia, il 14 marzo del 69. Camminava a piedi in mezzo ai suoi soldati, armato come uno qualsiasi di loro, dopo aver rivolto al popolo un discorso pieno di moderazione, in cui fece una breve esposizione delle vicende che avevano condotto alla guerra. La sua uscita da Roma sulla Flaminia fu accompagnata da una manifestazione di solidarietà popolare così massiccia e calorosa, che in quel momento si sarebbe detto tutta Roma fosse per lui. Certo molto avevano influito, sull'animo dei cittadini, i racconti dei profughi dei paesi invasi dal nemico, le atrocità di Metz, lo sterminio degli Elvezi. Ma oltre a questo, è probabile che il popolo di Roma fosse rimasto sinceramente colpito dall'instancabile energia dispiegata dall'imperatore durante quei due brevi e agitati mesi di regno. Fu una vera sorpresa per i Romani che di lui ricordavano l'effeminato gaudente delle orge di Nerone e non avevano certo sospettato il cambiamento prodotto in lui dai dieci anni trascorsi in Lusitania. Perfino Tacito, che riserba alla figura di Otone un atteggiamento di malanimo preconcetto paragonabile solo a quello sfogato nei confronti di Tiberio, è costretto ad ammettere che egli, salito al potere, smentì in pieno la sua antica fama rivelando una decisione e un'energia affatto insospettate.

Lasciava in Roma un governo nominale costituito dai senatori rimasti e il potere effettivo nelle mani di suo fratello, Salvio Tiziano. E' degno di nota il fatto che nella capitale si trovava anche il fratello di Vitellio, Lucio, al quale non venne torto un capello ma che dovette partire al seguito dell'esercito di Otone.

4.3 La fase iniziale della guerra

La flotta mandata da Otone a molestare le comunicazioni sul fianco di Valente aprì la guerra civile riportando alcuni successi, per altro vergognosi a causa delle crudeltà perpetrate contro gl'inermi abitanti e insufficienti a spostare l'asse della situazione strategica. Composto da marinai e soldati particolarmente feroci e indisciplinati, il corpo di spedizione otoniano non faceva alcuna distinzione tra esercito nemico e popolazione civile, e giunse a tale stato d'insofferenza di ogni disciplina da gettare in catene uno dei comandanti e da mettere in disparte un altro, sì che il comando effettivo rimase al solo tedio Clemente, uomo ambizioso, violento e uso ad assecondare interamente le turbolenze della soldatesca. Le rapine e prepotenze commesse sulle coste della Tuscia e della Liguria furono tali da spingere il locale procuratore ad armare gli aitanti per provvedere da sé alla propria difesa, spingendolo nelle braccia di Vitellio. I soldati di Otone disfecero, com'era prevedibile, quelle forze raccogliticce, saccheggiarono orrendamente l'infelice Albintimilium (Ventimiglia) e si scatenarono una spietata caccia all'uomo fra l'atterrita popolazione, nella quale perse la vita, fra l'altro, anche una lontana parente dello storico Tacito.

Spostatasi quindi sulle coste della Gallia Narbonense, la lotta provocò l'intervento di alcune coorti ausiliarie germaniche e di un distaccamento di cavalleria, mandati da Fabio Valente a difendere la regione dagli attacchi degli otoniani. Le forze di Clemente accettarono la battaglia, che ebbe luogo non lungi da Forum Iulii (Fréjus), la patria del famoso generale Giulio Agricola. I Vitelliani furono sconfitti e inseguiti, e dopo aver tentato un contrattacco notturno contro l'accampamento nemico, subirono una disfatta totale; ma gli otoniani non poterono sfruttare il successo e si ritirarono ad Albingaulum (Albenga). Nello stesso torno di tempo il procuratore della Corsica, Decimo Pacarlo, tentò di trascinare i capi dell'isola dalla parte dei Vitelliani, ma, dopo una lotta oscura e feroce in cui perdettero la vita sia Pacario che alcuni fedeli Otoniani, i Corsi spedirono a Otone la testa del procuratore ribelle e, per il resto, se ne rimasero neutrali.

Il generale otoniano Spurinna aveva frattanto raggiunto Piacenza con tre coorti pretorie, un migliaio di legionari illirici e poca cavalleria, fortificandosi e attendendo l'arrivo del collega Annio Gallo colla legione I Adiutrix. Cecina, che era sceso in Italia per primo e che, pur subendo qualche smacco in modesti fatti d'armi, aveva raggiunto con le sue forze al completo la linea del Po, si preparò ad investire Piacenza, la principale roccaforte otoniana dello scacchiere. L'esercito otoniano a sua volta era talmente bramoso di battersi che obbligò Spurinna a lasciare le robuste mura di Piacenza per cercare lo scontro in campo aperto, e solo in un secondo momento, tornato a più ragionevoli consigli, s'indusse a rientrare in città. Per due volte consecutive le truppe di Cecina si lanciarono all'assalto di Piacenza, senza una adeguata preparazione d'artiglieria, e subirono una sconfitta clamorosa, tanto da esser costrette a ripassare sulla riva settentrionale del Po e ripiegare su Cremona. Giungeva frattanto Annio Gallo con la sua legione in soccorso di Piacenza e, come seppe dell'esito favorevole della battaglia, si portò a Bedriaco, sulla strada principale fra Verona e Cremona, principalmente per l'impazienza di battersi delle sue truppe. Come si vede, una costante di questa guerra fu che in entrambi gli eserciti i capi dovettero sottostare continuamente agli ardori incontrollabili dei propri soldati.

Cecina era dunque stato respinto a nord del Po e costretto a segnare il passo; Valente era ancora ben lontano, in marcia col suo esercito verso Ticinum (Pavia). Il comandante otoniano Macro col corpo dei gladiatori compì allora un'audace sortita sulla riva sinistra del Po, sorprese gli ausiliari germanici e inflisse loro una completa disfatta a poca distanza da Verona. Anche questa volta i soldati entusiasmati dalla vittoria reclamarono a gran voce un inseguimento a fondo, che naturalmente Macro non permise, e indignati ripresero a mormorare che gli ufficiali stavano tradendo volontariamente la causa di Otone; alcuni arrivarono a scrivere lettere all'imperatore per ammonirlo della presunta minaccia. Il risultato di questo clima di diffidenza esasperata, aggravato dal fatto che Otone non prendeva parte personalmente alle azioni di guerra, fu il richiamo di Salvio Tiziano da Roma e l'affidamento nelle sue mani della suprema direzione militare. Questo fu un altro grave errore, perché il fratello di Otone era altrettanto incompetente in materia di guerra dell'imperatore.

I continui insuccessi subiti, benché non gravi sul piano strategico generale, avevano causato grave malcontento fra le truppe vitelliane, scese in Italia precedute da una fama di invincibilità e certe di riportare un rapido e facile successo sulle forze pretoriane, da loro disprezzate come oziose ed imbelli. L'impetuoso Cecina in particolare aveva motivo di rammaricarsi per la piega poco favorevole presa dagli eventi. Egli era calato giù dalle Alpi forte di una ammirazione entusiastica da parte dei suoi soldati, la quale cominciava adesso pericolosamente a venir meno. Benché la via della pianura gli fosse stata dischiusa, per un colpo di fortuna, dalla defezione della cavalleria siliana, e benché la sua marcia dalle rive del Reno fosse stata molto più breve e spedita di quella di Fabio Valente, pure egli stava riducendosi a dover attendere l'arrivo di quest'ultimo. Cecina e Valente però non si erano mai amati e nemmeno stimati, e il primo aveva chiaramente sperato di poter decidere le sorti del conflitto prima del sopraggiungere del collega-rivale. Questi sentimenti, uniti al desiderio di riconquistare la fiducia delle truppe, indussero Cecina a tentare nuovamente la sorte delle armi presso il «Locus Castorum», una località lungo la Via Postumia ove sorgeva un tempio dedicato ai Diòscuri, Castore e Polluce. Egli aveva disposto una trappola per gli otoniani, sfruttando il rilievo collinare fittamente boscato che dominava la strada, e sul quale aveva occultato il nerbo delle proprie forze.

La sua cavalleria, compiuta una finta, si ritirò velocemente sperando di attirare gl'inseguitori nell'imboscata. Ma gli otoniani erano comandati da due capi abilissimi, Annio Gallo per la cavalleria e Svetonio Paolino per la fanteria, e non si lasciarono attirare nella trappola. Così, quando il grosso dei vitelliani, temendo di lasciar fuggire l'occasione favorevole, irruppe anzi tempo dai suoi nascondigli naturali, la sorpresa che aveva riservata al nemico si volse contro di esso. In breve i vitelliani si trovarono stretti fra la I legione Adiutrix sulla fronte, le coorti pretorie sui fianchi e la cavalleria di Gallo sul tergo, e subirono perdite molto gravi. Cecina, resosi conto di quanto stava accadendo, continuamente alimentava la battaglia immettendovi forze fresche, ma per deficienze nell'azione di comando o forse per la cattiva organizzazione logistica esse intervennero a sprazzi, senza la concentrazione necessaria per rovesciare le sorti della lotta. Ne seguì una serie di azioni piuttosto confuse, nelle quali i vitelliani, incalzati vigorosamente d'ogni lato, si ridussero a far quadrato nell'intrico dei vigneti, degli alberi da frutto e dei cespugli. Privi di campo di vista, anche gli otoniani avanzatisi troppo subirono perdite notevoli, mentre la battaglia degenerava in una serie di duelli e zuffe isolate.

Fu a questo punto che Svetonio Paolino rinnovò la lotta gettandovi tutte le forze di fanteria di cui disponeva. Esse avanzarono con impeto irresistibile e i vitelliani, il cui morale era ormai fortemente scosso, insieme con la fiducia nei propri capi, si davano alla fuga su tutta la linea. Così la battaglia del «Locus Castorum» si concludeva lasciando la poderosa armata di Cecina completamente sbaragliata e in ritirata verso il proprio accampamento.

L'ira impotente degli sconfitti si riversò, non del tutto a torto, contro gli ufficiali, e lo stesso prefetto del campo venne arrestato e messo in catene sotto l'accusa di tradimento a favore di Otone. Sia gli otoniani che i vitelliani concordemente sostennero in seguito che se Svetonio Paolino non avesse ordinato di sospendere l'inseguimento, l'esercito di Cecina avrebbe subito quel giorno una disfatta decisiva. D'altra parte, storici moderni hanno lodato la prudenza di Svetonio, sottolineando il fatto che le sue truppe erano esauste dopo una giornata di marce e combattimenti, e dimenticando, mi sembra, che gli attacchi ostinatissimi di Antonio Primo a Cremona dimostrano come la stanchezza per aver sostenuto delle lotte anche massacranti, ma vittoriose, non è tale da paragonarsi a quella dei vinti, e che nelle guerre civili è talvolta un errore voler frenare l'ardore dei soldati. Certo è che Paolino venne aspramente criticato dai suoi uomini per averli fermati proprio a un passo da un successo strepitoso; ma noi non siamo abbastanza informati della reale situazione esistente per poter decidere senz'altro se il successo tattico degli otoniani era davvero suscettibile di esser trasformato in una grande vittoria strategica. Non sappiamo, ad esempio, perché l'opportunità di trasformare la ritirata dei vitelliani in una rotta non venne sfruttata prontamente dalla cavalleria di Annio Gallo. E' molto probabile che lo stato di confusione e disorganizzazione in cui versavano entrambi gli eserciti, i vincitori non meno dei vinti, fosse tale da far temere a Paolino che il successo conseguito potesse provocare, in quelle condizioni, lo sbandamento dell'esercito. Una cosa almeno sembra certa, ed è che Paolino, stratega metodico e paziente, ma troppo 'tecnico', non era l'uomo adatto a comandare l'esercito in una guerra civile, dove i fattori emotivi giocano un ruolo altrettanto decisivo di quelli tattici e dove si richiedono decisioni rapide e improvvise, audaci e magari contrarie a tutte le norme più elementari della strategia. Questo fu il segreto delle vittorie clamorose di Antonio Primo alcuni mesi dopo; e questo fu il segreto della sconfitta finale di un comandante abile e prudente e professionalmente assai preparato, com'era Svetonio Paolino.

Se gli otoniani non fossero stati disperatamente in lotta contro il tempo, forse, sotto la guida di un capo cosi esperto, non avrebbero mai perduta la guerra, tanto più che se difettavano invero di disciplina, non mancavano però certamente di coraggio e di valore. Ma il tempo era contro di loro, e questo li obbligò a battersi in condizioni sfavorevoli, decidendo così l'esito della guerra.

4.4 La battaglia di Bedriaco

Questi iniziali rovesci valsero a riportare le truppe vitelliane a una più serena valutazione della forza del nemico, che all'inizio tanto avevano disprezzato. Naturalmente la sconfitta del «Locus Castorum» fu un duro colpo per la reputazione di Cecina, tuttavia stimolò rabbiosamente le sue truppe a cercare una schiacciante rivincita. Per prima cosa, dal momento che gli otoniani non insistevano nell'azione, si decise di aspettare l'esercito di Valente per dare poi battaglia a forze riunite. Quest'ultimo si trovava ancora a Pavia e fu lì che apprese della sconfitta di Cecina. Da tempo, come si è visto, gli ausiliari batavi erano motivo di disordine e nervosismo fra le truppe, col loro atteggiamento arrogante e il loro sprezzo verso ogni forma di disciplina. Valente cercò di sbarazzarsi di questi incomodi alleati ordinando loro di recarsi in soccorso delle coste della Narbonense, attaccate dalla flotta otoniana; ma ne nacque un tale tumulto nell'accampamento, che lo stesso comandante, preso a sassate e inseguito, si salvò a stento nascondendosi travestito da servo. I soldati inferociti irruppero nella sua tenda, frugando per ogni dove alla ricerca delle favolose ricchezze che egli, a quanto si diceva, aveva segretamente accumulato durante la marcia attraverso la Gallia. Poi, non avendo trovato nulla, e calmatisi alquanto, con uno di quei capovolgimenti d'umore così caratteristici di questa guerra, spontaneamente tornarono all'obbedienza e festeggiarono il redivivo generale coi segni più infantili del pentimento e del rimorso. Valente comunque non osò punire nessuno; piuttosto, comprendendo che l'unico modo di ristabilire un po' di disciplina era quello di affrettare la battaglia, con rapida marcia da Pavia si portò a Cremona e infine si ricongiunse con l'esercito di Cecina. Tale movimento, operato in tutta sicurezza e senza ostacoli da parte del nemico, capovolgeva interamente la situazione strategica dei due eserciti contrapposti. Le armate di Otone e di Cecina, forti di circa 30.000 uomini ciascuna, si erano battute finora ad armi pari; con l'arrivo di Valente i vitelliani portavano le loro forze complessive a non meno di 70.000 uomini, con un rapporto di superiorità, dunque, di più che due a uno.

In tali condizioni era tanto l'interesse dei vitelliani ad affrettare lo scontro decisivo, quanto lo era degli otoniani cercar di ritardarlo. Se prima del congiungimento tra Cecina e Valente il tempo lavorava a favore di questi ultimi, e dunque consigliava a Otone un attacco deciso contro la prima delle due armate nemiche, ora il tempo lavorava a favore di Otone, e consigliava a Cecina e Valente di attaccare al più presto. Ad Aquileia infatti cominciavano già ad affluire le avanguardie delle legioni di Mesia, Pannonia e Dalmazia: tempo poche settimane, pochi giorni forse, e il rapporto di forze avrebbe potuto di nuovo ribaltarsi. E infatti sia Paolino, sia, come pare, Gallo e Gelso, ossia tutti i migliori strateghi del partito di Otone, consigliavano il loro imperatore di aspettare, di prender tempo, sia per ricevere il decisivo apporto delle legioni danubiane, sia per indebolire il nemico già a corto di viveri nella pianura devastata, e non avvezzo ai forti estivi della valle padana.

Un primo rovescio, benché di carattere limitato, ai subito gli otoniani sulla riva del Po, a causa dell'avventatezza di Macro, che aveva esposto il corpo dei gladiatori a una inutile strage. Tuttavia la linea del fiume era sempre saldamente presidiata; Piacenza agguerrita e vittoriosa, pronta a respingere eventuali attacchi; abbondanti le scorte di rifornimenti, grazie alla padronanza delle vie di comunicazione e al dominio del mare, laddove i vitelliani erano strettì e quasi intrappolati tra il grande fiume e la barriera della Alpi. Il fratello di Otone, Tiziano, capo nominale dell'esercito, e il prefetto Proculo, comandante effettivo, erano però di diverso avviso.

Essi proponevano un attacco immediato e l'imperatore, poco esperto - al pari di loro - in questioni strategiche, ascoltò i loro consigli con piacere. A Bedriaco, intorno al 10 aprile si tenne un consiglio di guerra nel campo otoniano, in cui le prudenti ammonizioni di Paolino furono respinte e Otone decise per la battaglia campale immediata. La storia per grandissimo tempo si è affannata invano per cercar comprendere le ragioni che indussero l'imperatore a prendere una simile decisione. Come egli pensasse di poter battere un'armata esperta, agguerrita e compatta di 70.000 legionari e ausiliari, quand'egli schierava un esercito poco allenato di soli 30.000, e forse meno, è un punto che aspetta ancora di essere chiarito. A noi non è dato che di avanzare delle ipotesi, le quali forse non andranno poi molto lontano dal vero, ma che non potranno mai aspirare a divenire, un giorno, certezze.

Primo: l'entusiasmo quasi incontenibile delle truppe, stimolate dai successi iniziali, e la loro diffidenza verso i capi, che forse si era estesa all'animo dello stesso imperatore. Secondo: la fretta di concludere al più presto la guerra, di far ritorno a Roma, che manifestavano più o meno apertamente molti senatori e ufficiali, sostenitori malfidi, partiti senza troppo entusiasmo, e non avvezzi alle fatiche del campo. Terzo: il timore di una avanzata vitelliana da Cremona su Verona e Vicenza verso Padova e Altino, che avrebbe tagliato fuori l'esercito d'Italia dai tanto attesi rinforzi balcanici. Quarto: l'inopportunità, per non dire l'impossibilità, di abbandonare ulteriormente la valle padana al saccheggio del nemico, assistendovi indifferenti con le armi al piede sotto gli occhi della popolazione. Giova ricordare infatti che l'Italia da grandissimo tempo non conosceva più gli orrori di un'invasione e della guerra e che il partito di Otone, appoggiandosi sul Senato e sul popolo romano quali fonti di legittimità, non poteva tollerare di lasciar più oltre indifese le popolazioni della Penisola. Quinto: il timore del sopraggiungere del terzo esercito nemico, condotto dal generalissimo in persona, timore peraltro minimizzato, stranamente, da Svetonio Paolino. E sesto, infine, una sorta di insofferenza e di fatalismo che si erano impadroniti dell'animo di Otone, più che mai stanco di sangue e di stragi, più che mai impaziente del domani, un'insofferenza e un fatalismo tali da fargli preferire un rischio serio a un'attesa sicura.

Vi sarebbe poi un'ulteriore spiegazione, accolta però con beneficio d'inventario già dalla storiografia contemporanea, secondo la quale in entrambi gli eserciti stava prendendo corpo silenziosamente l'idea di sospendere la lolla per deporre sia Otone che Vitellio ed eleggere un nuovo imperatore che, nel campo di Bedriaco, si sussurrava avrebbe potuto essere Paolino.

Nemmeno il piano militare di Otone è molto chiaro. Pare che l'obiettivo ultimo dell'avanzata da Bedriaco dovesse essere l'avvolgimento della cittadella di Cremona coi due eserciti nemici, colà concentrati; avvolgimento che l'esercito di Bedriaco avrebbe condotto da tergo e le legioni pannoniche e mesiche avanzanti da Aquileia avrebbero dovuto, in un secondo tempo, completare sulla fronte. Come Otone, suo fratello e il suo prefetto del Pretorio pensassero poi di realizzare concretamente tale manovra, con un esercito inferiore di più della metà a quello avversario; come insomma pensassero di iniziare l'accerchiamento di un'armata di 70.000 uomini con una di neanche 30.000, questo, lo ripetiamo, è e resterà un mistero. Bisogna concludere necessariamente che, o erano male informati sulla consistenza numerica del nemico, oppure puntavano tutte le loro carte sul vantaggio della sorpresa. Un altro grave errore fu, da parte di Otone, e su consiglio di Tiziano e Proculo, quello di non partecipare personalmente alla battaglia, quantunque la sua presenza avrebbe rianimato moltissimo i soldati che avevano poca o punta fiducia in tutti gli altri capi. Peggio ancora, l'imperatore, nel ritirarsi a Brescello ove sarebbe rimasto passivamente ad attendere l'esito dell'operazione, portò seco alcune agguerrite coorti pretorie e reparti di cavalleria leggera, che non furono di nessuna utilità mentre avrebbero potuto riuscir preziosi nella battaglia; la loro partenza, insieme a quella dell'amatissimo principe, demoralizzò fin dal principio i soldati. Tutto sommato, è probabile che alla battaglia di Bedriaco non abbiano preso parte effettivamente più di 20.000 otoniani, il che dice tutto ma non depone certo a favore della lungimiranza e delle capacità professionali dei loro comandanti. Quanto al Senato, o meglio a quella parte di esso, pur cospicua, che aveva seguito Otone nell'Italia settentrionale, essa rimase indietro, al sicuro, in Modena.

L'esercito otoniano, uscito il 13 aprile dal campo di Bedriaco, equipaggiato pesantemente, percorse sedici miglia lungo la via Postumia sino alla confluenza dell'Adda con il Po. Qui venne a sapere della vicinanza dell'esercito nemico e sia Paolino che Gelso proposero una sosta per rinfrancare i soldati dopo la lunga marcia. Ma sia Tiziano che Proculo mordevano il freno, e l'arrivo di un corriere dell'imperatore incitante all'azione vinse ogni esitazione. Giunti gli otoniani a breve distanza dal campo nemico, ma sempre fuori di vista per la fitta vegetazione di vigneti e frutteti, ond'è celebre ancor oggi quella regione, Cecina fu sorpreso dalla notizia mentre stava recandosi a un abboccamento con alcuni ufficiali avversari, che rimandò subito, e Valente, rimasto per il momento unico comandante, ordinò di assumere lo schieramento di battaglia. La cavalleria vitelliana uscì per prima, né è ben chiaro se con compiti di esplorazione o per saggiare la forza del nemico, ma al primo urto coll'avanguardia otoniana venne respinta e volta disordinatamente in fuga verso il proprio accampamento. Fu necessario che i legionari germanici l'accogliessero colle spade puntate contro il petto dei cavalli, per evitare che avvenisse una rotta e per obbligarla a riordinarsi e tornare in linea. Uscì quindi allo scoperto il grosso della fanteria vitelliana, molto più numerosa dell'avversaria e perfettamente ordinata a battaglia. Pare che gli otoniani siano stati vittime di qualche equivoco se non di una vera e propria macchinazione, perché tra le loro file era corsa la voce che un accordo era stato raggiunto con l'esercito nemico e pertanto accolsero la sua avanzata con saluti amichevoli. Svetonio attribuisce a questo episodio un peso determinante sull'esito finale della battaglia. Certo è che, mentre gli otoniani facevano il saluto e il loro ardore combattivo stava scemando per la certezza di una tregua, i vitelliani lanciarono l'attacco su tutta la fronte con forze compatte. Cionondimeno i soldati d'Italia, vinto il primo attimo di sorpresa, diedero di piglio alle armi e si impegnarono strenuamente nella lotta.

L'urto iniziale si spezzò e si frantumò, proprio come nella battaglia precedente, in una serie di scontri slegati e confusi, ma estremamente violenti, caratterizzati dall'ignoranza dei singoli reparti circa la situazione generale, ignoranza dovuta principalmente alla mancanza di campo visivo. Si può dunque dire che la famosa battaglia di Bedriaco consistette effettivamente di tanti scontri spezzati e divisi, la cui risultante decise le sorti della giornata. La I legione Adiutrix di nuova formazione si batté egregiamente e strappò perfino l'aquila della XXI Rapax, formata dai bellicosi veterani di Germania. La XIII danubiana, o piuttosto le truppe scelte di essa giunte in tempo da Aquileia, fu ricacciata invece dalla V dell'esercito germanico inferiore. E la XIV «Gemina», anch'essa formata da effettivi ridotti, si trovò accerchiata da preponderanti forze vitelliane. Nonostante la sproporzione numerica, la battaglia fu lunga e l'esito contrastatissimo. A sera, finalmente, l'arrivo delle coorti batave reduci dalla vittoria sui gladiatori diede ai vitelliani la spinta decisiva. La ritirata degli otoniani fu talmente precipitosa ch'essi, benché spossati per la marcia e la battaglia, rifecero tutte le sedici miglia in una volta sola fino al campo di Bedriaco, che gli avversari non osarono attaccare.

I sentimenti dei pretoriani non erano tanto di abbattimento per la sconfitta quanto di indignazione contro i propri capi, ritenuti responsabili di essa; giacché essi fin dalla dimane della sanguinosissima battaglia non si ritenevano battuti sul campo e covavano quel desiderio di rivincita che esploderà violentemente pochi mesi dopo, non appena un nuovo capo si farà avanti per sostituire Otone nella lotta contro le pretese di Vitellio. Il giorno successivo allo scontro, comunque, deposta per il momento ogni velleità di proseguire la lotta, furono gli stessi otoniani ad aprire il proprio campo e ad accogliere i vincitori, coi quali fraternizzarono immediatamente.

4.5 La fine di Otone

La notizia della disfatta di Bedriaco giunse ad Otone insieme alle truppe sbandate del suo esercito che rientravano dal campo di battaglia. Ufficiali e soldati concordemente manifestavano all'imperatore la loro solidarietà e il loro spirito combattivo, e lo incitavano a non disperare. Invero, nulla sembrava ancora perduto, nonostante la tremenda sconfitta e l'incalzare del tempo. La linea del Po era discretamente presidiata, la cittadella di Piacenza ben munita, e il grande fiume gonfio d'acque per il disgelo primaverile, e dunque difficile a valicare in presenza dei difensori. A Brescello, presso l'imperatore, diverse coorti pretorie, reparti di cavalleria ed esploratori, truppe bene equipaggiate e abbastanza forti da contrastare un'irruzione nemica in direzione di Verona. Ad Aquileia poi stavano continuando ad affluire gli scaglioni delle legioni danubiane, che alla battaglia di Bedriaco avevan potuto mandare solo delle modeste avanguardie. La flotta intatta e vittoriosa, le risorse finanziarie e alimentari della Penisola, l'autorità del Senato, l'appoggio del popolo di Roma e, infine, la grande riserva di truppe dell'Oriente, tutti questi fattori stavano pur sempre dalla parte di Otone. E' difficile dire se la sua decisione di non combattere più, espressa serenamente e lucidamente davanti agli ufficiali sconcertati, fosse giustificata su un piano puramente militare. Le armate di Cecina e Valente difficilmente avrebbero potuto forzare la linea del Po in tempi brevi e non avrebbero mai osato imboccare la via di Roma con la minaccia delle legioni illiriche e pannoniche sul tergo. E' vero che Vitellio con un nuovo, grande esercito si stava approssimando da oltre le Alpi, ma anche così l'esito della lotta restava sempre aperto ad ogni soluzione.

Certo la decisione di Otone fu saggia e magnanima sul piano umano. I suoi sentimenti di esteta raffinato educato al senso della misura, proprio della filosofia stoica, erano inorriditi pel sangue già copiosamente versato e per i mali che travagliavano lo Stato, da lui sinceramente amato. La sua fine, di una nobiltà e compostezza che lasciò stupiti i suoi antichi compagni di gozzoviglia, getta una luce favorevole sulla memoria di questo sfortunato imperatore, che aveva regnato per soli tre mesi dimostrando energia e larghezza di vedute. Se Galba, secondo il mordace giudizio di Tacito, era stato universalmente ritenuto degno dell'Impero, se solo non lo avesse ricevuto, di Otone si potrebbe dire esattamente il contrario, che disprezzato durante la sua vita privata per i vizi e il lusso sfrenato, si rivelò uomo assai migliore quando fu salito all'Impero.

Mentre tutti, affollati intorno alla sua tenda, cercavano di convincerlo a continuare la lotta, Otone respinse con fermezza l'invito, li ringraziò per quanto avevano fatto per lui, e disse di non volere che altri giovani coraggiosi dovessero morire per lui. Ricordò i suoi tentativi di evitare la guerra e di convincere Vitellio a ceder pacificamente il potere, e si disse risoluto a impedire che lo spargimento di sangue avesse a continuare. Che stesse già pensando al suicidio fu chiaro, allorché, respingendo le insistenze dei suoi, disse: - Basta, è tempo di separarci: voi andate a vivere, io a permettervi di farlo. - Rientrato nella tenda, ricevette ancora in udienza privata, per tutta la sera, quanti lo vollero, e per ciascuno ebbe parole generose ed affabili. Disse di non essere adirato né con la sorte, né con i suoi, poiché accusano gli dèi e gli uomini coloro che bramano smodatamente la vita; anzi non parlò della sconfitta ma sottolineò il valore dei suoi soldati, meritevoli - disse - di miglior fortuna. Conforme alle dottrine dello stoicismo, seppe mostrarsi in tutto e per tutto pari al destino, così nella buona come nell'avversa fortuna - e più in quest'ultima, come osserva giustamente anche Tacito. Distrusse quindi le lettere che, cadute nelle mani del nemico, avrebbero potuto compromettere i suoi fedeli; e saputo che molti soldati, demoralizzati dal suo atteggiamento, si stavano sbandando e venivano perciò trattati dagli ufficiali alla stregua di disertori, raccomandò che a nessuno fosse fatto del male per causa sua. Infine scrisse due lettere private, una alla sorella e l'altra alla vedova di Nerone, Messalina, la donna che aveva deciso di sposare, accomiatandosi e rincuorandole. Bevve un po' d'acqua fresca e chiese due coltelli, poi ne mise uno sotto il guanciale e finalmente andò a dormire.

Al mattino, i servi furono richiamati nella tenda da un gemito: entrarono in tempo per trovare solo un cadavere. Era il 14 aprile del 69. Con la morte di Otone la prima fase della sanguinosa guerra civile può dirsi conclusa, poiché tanto i pretoriani che le legioni danubiane, sconcertati dalla perdita improvvisa del loro capo, nel quale avevano riposto - specialmente i primi - ogni fiducia, cessarono la resistenza quasi subito. Solo le truppe di Aquileia rimasero in quella città con le armi al piede, piene di sordo risentimento, in attesa di vedere quel che sarebbe successo.

E' difficile dare una valutazione serena e con cognizione di causa sulla figura di Otone e sul suo brevissimo governo alla testa dell'Impero. Le fonti contemporanee ci presentano due ritratti distinti e separati, il giovane gaudente della corte neroniana e il filosofo stoico che si toglie la vita per amore del pubblico bene - due quadri talmente dissimili da far dubitare lo studioso di esser davanti alla medesima persona. Tacito colma la lacuna, psicologica e cronologica, con il colpo di Stato di gennaio e l'assassinio di Galba - una macchia da cui è impossibile, in verità, lavare la memoria di Otone; ma anche così il ritratto riesce assai poco convincente, perché non tenta neppure di spiegare il prodigioso cambiamento sopravvenuto proprio alla fine della sua vita. Studiosi moderni hanno fatto qualche passo in questo senso, invocando il potere di suggestione della filosofia stoica, atto a infondere lo sprezzo per le alterne vicende della fortuna e per la morte stessa, anche nell'animo di un gaudente. Questa naturalmente non è affatto una spiegazione, perché lascia senza risposta la sola domanda che a noi interessi in questa sede; che cosa abbia spinto un gaudente nelle braccia di un atteggiamento filosofico verso la vita, e più precisamente stoico. Problema che, come si vede, è semplicemente spostato a monte ma niente affatto risolto. La storiografia d'indirizzo positivista ha sempre respinto ogni tentativo d'interpretazione psicologica delle azioni umane, come cosa indebita e affatto superflua alla comprensione storica dei fatti. Noi la pensiamo diversamente e riteniamo che i fatti non possano aver nulla da dirci se non li riportiamo alla loro casa naturale e alla loro sorgente prima, ossia i sentimenti e le intenzioni degli individui e delle società che li vissero. Nel caso di Otone, ci sembra che la vera ragione della discrepanza stridente fra il ritratto «neroniano» e quello «stoico» vada ricercata in quei dieci anni di esilio in Lusitania, lontano da Roma e lontano da Poppea, i due veri grandi amori di quest'uomo enigmatico. Dieci anni sono molti nella vita di un uomo e possono modificarla profondamente.

Tuttavia noi ci fermiamo qui. Uno studio completo della personalità di Otone esula dalle intenzioni e dai limiti di questo lavoro. Della sua azione politica possiamo dire almeno questo: che fu più lungimirante e realistica di quella di Galba - di cui intese le intrinseche contraddizioni - e tuttavia non abbastanza, poiché non vide che la lotta per il supremo potere non poteva più essere considerata un affare privato della città di Roma, del Senato e delle milizie. Con Vitellio e poi con Vespasiano, le province sosterranno con la spada in pugno il loro diritto ad aver voce nella successione imperiale.
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