1.
Impassibile, la Luna piena, illuminava con la sua fioca luce, la figura di un uomo ancora vigoroso, di mezza età, canuto, dalla gran barba bianca che sfuggiva dalle mani portate al volto, quasi a nascondere il dolore che gli straziava l'animo. Costui sedeva affranto su di un piccolo masso, posto al margine di una non gran radura, nascosta dalla folta vegetazione di una vasta e intricata foresta che gli cresceva attorno, su di un altopiano circondato dalle vette d'impervi monti. Soltanto dall'alto, quello spazio, si sarebbe potuto vedere.
Nella boscaglia c'erano delle capanne di frasche: erano luoghi, nei quali, i soldati romani, invasori della Sardegna, non erano mai riusciti a calcare il suolo. L'uomo di prima stava in una di queste capanne; altri sedevano per terra, attorno ad un gran fuoco. Vicinissimo al calore di questo v'erano degli schidioni di legno, che poggiavano i loro estremi su delle forcelle, pure vegetali che ne permettevano la rotazione; negli spiedi erano state infilate parti di selvaggina appena cacciata. Quegli uomini, compreso quello che s'era isolato, vestivano abiti ricavati, grossolanamente da pelli d'animali e portavano dei calzari di cuoio, assicurati ai piedi con delle corregge; erano tutti armati di spada, pugnale e arco con frecce. Qualcuno recava sul corpo delle ferite che ancora sanguinavano.
Il silenzio che regnava in quel luogo era appena rotto dallo stormire delle foglie, dal crepitare del fuoco e dai richiami, a volte lugubri degli animali notturni in amore; nessuno parlava. Soltanto, ogni tanto, qualcuno volgeva lo sguardo preoccupato verso l'uomo che se ne stava appartato. Nella mente di questo, come in una di chi sta per morire, scorrevano le scene della sua vita trascorsa, come nella visione di un film. Si rivide rincorrere, nei liberi spazi, in groppa ad un cavallo, con avvinghiato alla sua schiena un fanciullo esile, delicato, d'avvenente aspetto; anche lui armato d'arco di frecce, un cinghiale. Il maturo uomo, man mano che procedeva, spiegava al fanciullo le fasi della caccia; gli accorgimenti d'adottare e le astuzie da usare. Ad un certo punto, il porco selvatico, sfinito dalla corsa e braccato dai cani, si rifugiò all'interno di un grosso arbusto di rovi e spini; attorno al quale i segugi, che recavano con loro, abbaiando e latrando, si posero in agguato. "E' il momento!". Affermò, Amsicora smontando da cavallo, a suo figlio Iosto; il quale fu agguantato, sollevato di peso dalla groppa del destriero e posto in piedi, per terra. Amsicora gli porse il piccolo arco che gli aveva tolto dalla tracolla e gli ordinò: "Mettiti dietro quel masso e quando il cinghiale esce dalla macchia, cerca di colpirlo con una delle frecce tolte dalla tua faretra! Io ti sarò accanto". Incitò quindi i cani a stanare la fiera e dopo un po', questa uscì dal suo rifugio, grugnendo ferocemente e tentando di caricare i mastini con le lunghe zanne. Iosto, non si fece cogliere dal timore e con insospettato coraggio scaricò il suo arco e la piccola freccia andò ad infilarsi in una spalla dell'animale che divenne ancora più feroce; dopo qualche attimo, fu la volta d'Amsicora. Tese la corda del suo grande arco, come nessun altro sarebbe riuscito; lasciò partire un grosso dardo che trapassò il petto della malcapitata fiera e gli spaccò il cuore: la morte fu istantanea.
Quel feroce, rude e selvaggio uomo che era Amsicora, si comportò in una maniera che nessuno mai si sarebbe aspettato da lui; abbracciò e carezzò con tanto affetto quel suo unico figliolo e, sollevatolo in alto sulle possenti braccia, lo roteò attorno a se, gridando: "Bravo! Bravo!". Il cinghiale fu caricato di traverso sul cavallo e portato via: per qualche giorno la provvista di carne era assicurata. In quasi tutti i momenti della sua vita, Amsicora si rivide accanto ad Iosto; al quale, prematuramente insegnò ciò che lui sapeva. Era impaziente che questo crescesse e potesse un giorno occupare, degnamente il suo posto. Gli insegnò l'arte della guerra e della guerriglia, l'uso delle armi; il modo di rinvigorire, irrobustire il suo corpo e temprarlo contro tutte le avversità. La maniera d'eccellere nelle gare di corsa, lanciare le lunghe aste appuntite, duellare con spada e pugnale, affrontare la lotta libera o s'istrumpa; l'allenò nel sollevamento dei pesi e in qualsiasi altro esercizio fisico. Gli insegnò, però, soprattutto l'onestà, il coraggio, la lealtà, la difesa dei più deboli, la giustizia e le altre virtù, che un condottiero deve possedere; più ancora, gli inculcò l'amore per la libertà e la patria. Per la quale, s'è necessario, donare anche la vita. L'ultimo sentimento che gli instillò nell'animo, fu uno spietato e profondo odio per i romani invasori; dei quali non tollerava l'orgoglio e la tirannia.
Ecco, perché, pur essendo libero nelle sue foreste, ricco e potente, temuto e rispettato da tutti i pelliti (rivestiti di pelli) e dagli altri isolani, volle appartarsi dai romani; che continuò ad infastidire con azioni di guerriglia. Tenendo sempre presenti le sorti della Sardegna tutta; la quale anelava liberare dal giogo della tirannia di Roma.
2.
Gli uomini, che si sono visti all'inizio di questa storia, in una radura, attorno ad un fuoco, abbigliati di pelli, con le quali si difendevano dal freddo e dalle altre intemperie, erano chiamati, per detto loro costume, appunto "pelliti".
Il loro ambiente naturale era costituito da impervi monti, da foreste talmente folte che i raggi del Sole non filtravano fra le fronde; dall'intrigo della flora del sottobosco, dov'era facile smarrirsi per gli sprovveduti o nascondersi per coloro che lo conoscevano. Dai luoghi ricchissimi di fauna, anche di quella ora estinta o in via d'estinzione; da numerosissime fonti disseminate dappertutto. Alcuni storici, vogliono questa regione posta nei pressi del paese di Padria (SS); altri nei territori dei comuni di Scano Montiferro, Santu Lussurgiu, Pitinnuri e Cuglieri. L'autore di quest'opera, propende per l'ultima ipotesi, perché come osserva lo scrittore latino Antonino, nel suo "Itinerario", a pag. 78, scrive: "Gli attuali abitanti di Cuglieri sono vestiti alla foggia di sardi pelliti". Adesso è necessario un po' di ripasso di storia antica.
Nel 537, anno di Roma, il pretore Cornelio Mamula, lasciò il governo della Sardegna a Q. Mucio Scevola; al quale non arrise certamente la fortuna. Mugone, fratello d'Annibale e amico d'Amsicora (i due avevano tenuto incontri segreti), che un primo tempo doveva recarsi in Italia a portare aiuto al germano con numerosi rinforzi d'uomini e mezzi, stava invece destinando quelle forze per la Spagna, dalla quale arrivavano brutte notizie per l'armata punica. Nel frattempo, si parò davanti ai Cartaginesi, la consolante speranza di riportare sotto il loro antico dominio la Sardegna: erano stati, segretamente spediti a Cartagine dagli isolani, dei messi che recavano la notizia che le truppe romane erano scarse e sbandate. Il pretore Mamula che ben conosceva la Sardegna, lasciò in mano al suo successore una bruttissima eredità: gli animi dei sardi erano esasperati dalle angherie romane e fremevano, impazienti di ribellarsi ai dominatori, al fine di migliorare la loro sorte.
Il pretore Mamula aveva amministrato la Sardegna crudelmente, inasprendo gli isolani con prelievi forzati di vettovaglie e nuovi tributi. Mancava ormai una scintilla per far scoppiare la ribellione e la persona che la guidasse. Per chiedere l'aiuto delle forze militari di Cartagine s'inviarono, nuovamente dei messaggeri segreti, memori che sotto la dominazione di Cartagine, i sardi avevano goduto d'una certa autonomia ed erano stati trattati meglio. I fautori della cospirazione furono i più notevoli abitanti dell'isola capeggiati da Amsicora. Gran concitazione provocò in Cartagine le notizie e le richieste d'aiuto dei sardi. Gli africani, non potendo abbandonare la difesa della Spagna e non sapendo rinunciare ai lusinghieri inviti a loro fatti dai sardi, dopo ampi e numerosi dibattiti, decisero che colui chiamato Magone, con la flotta già approntata e col suo esercito si recasse in Spagna e, che Asdrubale, con uguali forze, veleggiasse alla volta della Sardegna.
3.
Nel frattempo, Cornelio Mammola, rientrato a Roma si recò al Senato a riferire sulla situazione sarda; affermò che nell'isola v'era un concreto pericolo di rivolta e che ciò era, ormai nell'animo di tutti i sardi. Mucio Scevola che l'aveva sostituito, non aveva compiuto niente per evitare questo pericolo; lo riteneva, perciò inetto a governare una guerra e a condurla. L'esercito stanziato in Sardegna, se sufficiente in tempo di pace, non lo sarebbe stato per resistere ad una vasta sollevazione di popolo. Per questo motivo, i senatori, Padri della Patria, decisero che Q. Fulvio Flacco arruolasse cinquemila fanti, quattrocento cavalli e, che nel più breve tempo possibile, li inviasse in Sardegna; fosse dato il comando al ritenuto più idoneo, sino a quando Mucio Scevola fosse stato nuovamente in grado di governare.
Sembrò che in Roma non vi fosse nessun altro più indicato di T. Manlio Torquato a condurre quella guerra di repressione che s'andava organizzando; tanto più che questo nel periodo d'incarico di console in Sardegna, era già riuscito a soffocare nel sangue un'altra rivolta degli isolani, perciò il suo nome sarebbe stato molto più temuto di quello di Scevola, per reprimere quella sommossa. La quale, andandosi ad aggiungere alle tristi vicende che affliggevano la repubblica romana, gravi timori instillava negli animi degli stessi cittadini romani.
A questo punto è giusto, però ammirare la ferrea perseveranza d'animo con il quale i romani padroneggiarono tutti gli avvenimenti, che da varie parti incalzavano e che annientato avrebbero qualunque altro popolo, anche se più valoroso, ma meno costante. In tale critica situazione, mentre già dubitavano di poter tenere il loro dominio in alcune terre della stessa Italia, quali la Campania e la Puglia, dove, scriveva lo storico Floro, i punici tenevano i romani "con la spada alla gola"; questi nel frattempo che fronteggiavano il nemico, ardirono, nientemeno, di recarsi ad approvvigionarsi di quanto era loro necessario in tutti i più distanti luoghi, compresa l'Africa. La repubblica romana, nonostante ciò, non dubitò per niente di poter portare le sue armi in Sicilia, nella Spagna e in Sardegna. Verso quest'ultima, avevano nel frattempo indirizzato le loro forze, gli africani comandati da Asdrubale, ma la fortuna fu avversa nella navigazione, perché una furiosa tempesta travagliò la flotta che dalla violenza delle onde fu mandata ad incagliarsi sulle coste delle Isole Baleari; perciò, tra il tempo perduto nella forzata deviazione di rotta e quell'impiegato per riparare le navi, la flotta romana comandata da Manlio Torquato arrivò per prima a Cagliari.
4.
Appena giunto, il nuovo pretore trovò gli interessi della repubblica molto trascurati per l'immobilismo e l'incuria di Mucio Scevola. Sollecitamente si mise all'opera per rimettere ordine e ripristinare il buon andamento delle faccende romane. Tirò in secco il naviglio sulla spiaggia e armò la ciurma per unirla all'esercito di Mucio Scevola; si trovò cosi ad avere ventiduemila fanti e milleduecento cavalieri, con i quali, muovendosi con ordine, andò a piantare il campo non lontano dagli alloggiamenti dei sardi. Comandante di questi era Amsicora, il quale già era stato fra i primi a mandare gli ambasciatori ai governanti di Cartagine. Del poco che scrisse lo storico Livio, interessato soltanto a raccontare i fasti della repubblica romana, si legge che Amsicora, per il suo amore alla libertà e gli sforzi fatti per restituirla alla patria, si meritò, giustamente la fama d'eroe.
Di questo, scrive lo storico, cav. Pasquale Tola nel suo "Dizionario degli Uomini Illustri di Sardegna":
<< Feroce per indole, fatto più crudele dalla vita selvaggia negli aspri monti e nelle inaccessibili foreste, insofferente della superbia e del giogo romano. Un'occasione egli aspetta di scuotere l'uno e abbassare l'altra". >>
Al momento dell'arrivo dell'esercito romano, Amsicora era lontano dal campo, essendosi recato in un'altra provincia per sollecitare il soccorso di nuovi uomini che erano attesi dalle sue schiere. Per questo motivo, il vecchio console romano si trovò di fronte al duce sardo, nella persona del figlio giovinetto d'Amsicora, Iosto dall'avvenente aspetto e dall'animo generoso che denotavano già, quanto aiuto e conforto avrebbe dato alla patria se il destino non gli fosse stato avverso. Rimasto al campo, non tanto per sostituire il padre, quanto per ricordarlo; un grave errore fu quello che uomini inferociti e senza freno, fossero affidati ad un giovinetto smanioso d'attaccare gli odiati romani. Iosto, imbaldanzito, senza curarsi dei pericoli che correva; privato del sostegno dei militi Cartaginesi e degli aiuti che suo padre era andato a cercare, nonostante le vivide raccomandazioni fattegli da questo, ruppe gli indugi e attaccò gli uomini di Manlio. Fu agevole per questi scompigliare le schiere sarde e metterle in rotta di fuga.
Al termine della battaglia si contarono fra gli isolani tremila morti e ottocento prigionieri; i fuggiaschi che riuscirono a raggrupparsi, vagarono per alcuni giorni nella campagna, poi si recarono presso la città di Cornus, vicino ad un luogo chiamato Pitinuri, fra Cuglieri e Bosa. Qui s'era rifugiato anche Amsicora, che attendeva con i suoi, Asdrubale, per ricostituire l'esercito sardo con gli uomini superstiti dell'armata sarda. Asdrubale, finalmente giunse con i sospirati soccorsi.
Manlio, a tale notizia, retrocesse sino a Cagliari, perché ritenne di garantirsi le spalle e perché essendogli sconosciuti i luoghi, non gli conveniva avere degli scontri lontano dalle città amiche. Così operando, Manlio diede la possibilità ad Amsicora di congiungere le sue schiere con quelle di Cartagine. Manlio non poté ritardare lo scontro, perché il duce dei sardi gli si mise alle calcagna, sottoponendo a ferro e a fuoco le terre degli alleati di Roma e procurando "tabula rasa"; per tale motivo il pretore romano fu costretto andargli incontro con il suo esercito.
5.
Sulle prime, le due armate si tennero entro lo spazio davanti ai loro alloggiamenti e si combatterono alla spicciolata, senza ottenere alcun risultato utile. Infine, impazienti d'avere maggior spazio, s'affrontarono in pieno campo, con i vessilli spiegati e combatterono per molte ore, ordinatamente. La fortuna e la disciplina romana prevalse sui sardi e i Cartaginesi; i quali abbandonarono il campo di battaglia con tutto l'ardore con il quale vi aveva combattuto. Arrivò, allora il momento della strage generale fra gli sconfitti: dodicimila fra sardi e africani furono passati a fil di spada, tremila e più caddero in mano ai vincitori con ventisette vessilli.
Lo stesso Asdrubale, Annone e Magone, condottieri di Cartagine, s'arresero ai romani; Magone che era parente stretto d'Annibale, capo supremo dei Cartaginesi, costituì un prezioso ostaggio per i governanti di Roma. La resa d'Annone, che fu l'autore e il sostenitore della sommossa nell'isola, fu pure un altro gran successo per i romani, che così si liberarono del maggior sobillatore dei sardi. Non fu così per i condottieri sardi; i quali, dove fu maggiore lo stimolo del combattere, ancor di più fu la disperazione. Con la forza di questo si lasciarono uccidere piuttosto che arrendersi, anche il giovinetto Iosto che tentava d'essere fra i più valorosi combattenti e cercava la gloria trovò, invece ... la morte; trafitto dalla lancia del centurione Ennio, famoso poeta latino che non cantò, però, le gesta gloriose del giovinetto che aveva ucciso. Il padre, Amsicora, più infelice del figlio; considerata la triste sconfitta della sua armata, disdegnò d'arrivare ad alcun accordo col nemico e con i fidi, si rifugiò all'interno dell'isola. Qui gli giunse la crudele notizia della morte del suo unico figlio.
6.
Si ricorda l'uomo, all'inizio di questa storia, seduto su di un masso, ai margini di una radura illuminata dalla Luna?
Egli è ... Amsicora! Questo, dopo avere atteso che gli uomini attorno al fuoco si rifocillassero e poi, stremati dalla fatica e dalla lunga marcia per arrivare sin lì, si mettessero a dormire nelle capanne di frasche; costatò che come duce era ormai troppo vecchio e non sarebbe più potuto essere utile alla sua stremata patria. Non gli era rimasto più nessuno al quale lasciare l'amore per detta, l'odio per il nemico e le armi, con il quale combatterlo. Entrò nella capanna accanto alla quale sostava, in modo che nessuno l'avesse visto, impedito d'estrarre il suo pugnale e ... piantarselo nel petto.
A questo punto è d'obbligo un commento, che migliore non potrebbe essere di quello del famoso scrittore sardo, barone Giuseppe Manno, nella sua ponderosa e nota opera "Storia di Sardegna" che con gran deferenza riporto:
<< La fama d'Amsicora poco poté sopravvivere, perché gli scrittori romani, intenti a magnificare le cose proprie, con rapidità e talvolta con disprezzo, rappresentarono le virtù dei nemici. Prova ne sia, l'aver tacciato con l'ingiusta nota di viltà e debolezza, gli sforzi compiuti dagli isolani in quella sventurata battaglia, quantunque debole non sia sempre il vinto e mai vile quando muore per la patria e, se queste mie pagine passeranno ai posteri, il nome d'Amsicora e di Iosto, non più si dovranno a mala pena trovare negli annali di una nazione che con la gran mole delle sue gesta eclissò fame anche più grandi: la loro storia poggerà sopra un terreno più propizio e questa storia, ingemmata dal loro nome, ricorderà ai miei compatrioti la costanza di quel canuto duce. Forse l'animo del lettore generoso e sensibile si sentirà toccato di compassione nei casi del giovinetto suo figlio. >>
Si riprende l'episodio della vittoria di Manlio, il quale perseguitati i fuggiaschi che s'erano rifugiati nella città di Cornus, in pochi giorni la indusse alla resa; altrettanto operò con quelle che avevano parteggiato per i rivoltosi. Il pretore romano, quindi, le tassò in denari e in frumento, in proporzione ai mezzi e al demerito di ciascuna e in breve poté condurre l'esercito di Roma a Cagliari, dove rimise in mare le navi e salpò alla volta di Roma. Qui giunto, annunciò ai Padri della Patria che la Sardegna era stata domata e consegnando i quattrini ai questori, il frumento agli edili e gli schiavi al pretore Q. Fulvio, ebbe, anche la gloria d'avere con quella guerra, rimpinguato, pur in tempi d'estremo pericolo, le risorse della Repubblica Romana. L'unico beneficio che i sardi ottennero fu quello di essere governati per altri e tre anni dal mite Pretore Q. Mucio Scevola, anziché dallo spietato T. Manlio Torquato, al quale per prassi sarebbe spettato.
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