Ci sono episodi che restano impressi nella storia, tramandati di generazione in generazione affinché non ne sia perduto il ricordo; le battaglie rappresentano sovente avvenimenti che nella memoria collettiva più di ogni altra cosa rimangono impressi.
Gli eventi bellici sono stati fattori determinanti nella storia dell'umanità; spesso un singolo scontro, anche breve, fu determinante a cambiarne il corso (si pensi alla conquista di Costantinopoli per mano turca nel 1453 o alla celeberrima giornata di Waterloo del 1815). Una sola battaglia può determinare un radicale cambiamento della politica, della società, della storia stessa di una singola entità statale. Questo fu il caso di uno dei più potenti e fieri stati dell'Italia preunitaria, la Repubblica di Venezia; il 14 maggio 1509 rappresenta per la Serenissima la data spartiacque fra il culmine della sua potenza e l'inizio del suo lento declino, cominciato con la giornata di Agnadello.
L'Italia agli inizi del XVI secolo
Gli inizi del Cinquecento rappresentano per la penisola italiana uno dei momenti cruciali della sua storia; siamo nell'età delle "guerre horrende" come le definì Guicciardini, l'età delle guerre d'Italia e dell'inizio del dominio peninsulare delle grandi monarchie europee.
Con la morte di Lorenzo de' Medici (1492) finiva infatti la cosiddetta "politica dell'equilibrio", sancita con la pace di Lodi del 1454, che aveva tentato di porre una sorta di bilanciamento fra i principali stati italiani. In realtà già prima della morte del "Magnifico", i vari ducati, regni e repubbliche della penisola sottostavano a un clima di diffidenza, minaccia e tensione; a nord-est Venezia aveva raggiunto l'apice della sua potenza, proseguendo una politica espansiva nell'entroterra verso la Romagna, il Trentino e la Lombardia. A sua volta il Ducato di Milano, retto da Ludovico Sforza, "il Moro" (1452-1508), guardava con astio non soltanto l'odiata Repubblica, ma anche gli altri principati italiani, dalla medicea Firenze, centro rinascimentale per antonomasia, all'aragonese Napoli, florida sul piano economico ma retta da una dinastia mal vista sia dalla popolazione che dalla stessa nobiltà locale. Al centro si stagliava lo Stato Pontificio, retto da Alessandro VI (1431-1503), compagine statale celebre per mecenatismo e sviluppo artistico, ma discutibile sul piano religioso e spirituale; la corte papale del Rinascimento era infatti un intreccio di corruzione, nepotismo e simonia; lo stesso pontefice si preoccupava più del futuro dei suoi parenti che della cura della Chiesa, giungendo persino a concepire la creazione di uno stato centro - settentrionale da porre nelle mani di suo figlio, il celeberrimo Cesare Borgia (1475-1507). La breve epopea di costui vide il tentativo di riunire sotto il suo controllo le città romagnole, creando un breve ducato a scapito degli stessi territori pontifici (1501-1503).
Un equilibrio instabile dunque, che ebbe fine con la già citata morte di Lorenzo il Magnifico, suo principale sostenitore; per l'Italia era giunta l'ora di subire l'invasione da parte straniera. E fu proprio un principe italiano a provocarla: Ludovico il Moro. Spinto dalla rivalità con le altre casate italiane e dalla volontà di diventare il centro dell'equilibrio italiano, il signore di Milano invitò il re di Francia, Carlo VIII (1470-1498), a scendere in Italia per occupare il Regno di Napoli, sul quale il monarca sosteneva di vantare diritti feudali dovuti al precedente dominio angioino. Seppur costretto ad una rapida ritirata da una lega degli stati italiani (1495), l'invasione di Carlo VIII diede inizio al ciclo di guerre che avrebbero devastato la penisola nel trentennio successivo.
I piani del Moro, il quale pensava di potersi controllare il sovrano, finirono per provocare lo sfacelo dell'equilibrio italiano a favore delle ingerenze straniere. Nell'arco di un decennio la geografia politica italiana fu stravolta; lo stesso Ludovico fu il primo dei signori italiani a crollare, travolto dall'esercito di Luigi XII (1462-1515), cugino di Carlo VIII e re di Francia: il Ducato di Milano fu così annesso alla corona francese. Lo stesso sovrano, alleatosi con gli aragonesi spagnoli, abbatté il Regno di Napoli (1501); tuttavia i territori meridionali passarono alla corona di spagnola in seguito a una breve guerra fra le due potenze (1501-1503). La Repubblica fiorentina era in piena crisi, dovuto al primo crollo della signoria medicea (1494), alla breve esperienza del governo di Savonarola (1494-1498) e alla ribellione di Pisa, alla quale il governo fiorentino non riusciva a porre rimedio; la Repubblica pertanto iniziò a dipendere dallo "straniero" per conservare la propria autonomia, poggiandosi ora alla Francia di Luigi XII, ora all'Impero di Massimiliano I (1459-1519). In una simile situazione si trovano anche i Ducati di Savoia, Ferrara, Mantova, mentre da anni la Repubblica di Genova era di fatto un protettorato della corona francese. In questi anni Cesare Borgia, approfittando della crisi in atto e dell'appoggio paterno aveva creato il suo personale ducato, occupando le città di Rimini, Forlì, Cesena, Imola, Fano e Pesaro (1501-1503), e alla cui espansione pose termine la morte del padre e l'ascesa al soglio pontificio di Giulio II (1443-1513), nemico giurato dei Borgia. Solo uno stato in Italia non aveva subito alcun danno, anzi, aveva visto crescere la propria potenza: Venezia.
L'espansione di Venezia e lo scontro con Giulio II
La Repubblica Serenissima aveva approfittato dei vari conflitti per estendere la propria influenza in Italia; nel 1499 si era schierata al fianco di Luigi XII, contribuendo all'abbattimento della signoria sforzesca su Milano e ricavando in cambio la città di Cremona e il controllo sull'area dell'Adda. Successivamente, nel 1503, aveva appoggiato le pretese spagnole sul sud, ricavando la conferma del controllo sui porti pugliesi di Otranto, Brindisi, Barletta, Monopoli e Gallipoli, ottenuti con la breve restaurazione aragonese (1496). Padrona indiscussa dell'Adriatico, dominatrice assoluta del nord-est, Venezia aveva raggiunto l'apice della propria espansione. La Repubblica sembrava l'unica potenza italiana in grado di unificare il nord sotto un'unica insegna.
La crescente potenza della città lagunare destava preoccupazione sia agli altri stati italiani che alle potenze straniere presenti nella penisola, ma soprattutto a papa Giulio II, appena asceso al soglio pontificio: a preoccupare il pontefice era la dichiarata volontà della Repubblica di espandersi verso la Romagna. Con la caduta di Cesare Borgia e il crollo dei suoi possedimenti romagnoli (1503), Giulio II aveva dato inizio a una politica volta a ricostituire e rafforzare l'antico Stato della Chiesa, in particolar modo quei territori umbri, emiliani e romagnoli che, seppur parte integrante del patrimonio di San Pietro, da secoli erano soggetti a signorie e a tendenze autonomistiche; alla fine del 1503 il papa iniziava la sua campagna di conquista militare, recuperando Perugia e, soprattutto, Bologna, strappata alla signoria dei Bentivoglio. L'obbiettivo era quello di rendere Roma l'ago della bilancia della politica italiana, ma prima bisognava fare i conti con l'altra "candidata", Venezia, la quale aveva posto lo sguardo sulle città appartenute al Borgia con l'intenzione di aumentare la propria influenza in quel settore, dove già controllava da tempo Cervia e Ravenna.
Tra il 1503 e il 1504 iniziarono i primi contrasti tra le due parti; Venezia aveva annesso le città di Rimini e Faenza, Giulio II occupava Pesaro. Le tensioni sfociarono nel momento in cui il papa prendeva possesso di Cesena e Imola; il nocciolo del problema stava nel fatto che la Serenissima aveva preso possesso dei contadi delle rispettive città (e una città, privata delle campagne circostanti, è soggetta a grosse difficoltà). Giulio II reagì con durezza all'azione veneziana, pretendendo non solo la restituzione dei contadi, ma anche delle altre città romagnole; al netto rifiuto, il pontefice iniziò allora una serie di trattative con le potenze straniere al fine di creare una lega contro la città di San Marco.
La lega di Cambrai
Le trattative avviate dal papa contro Venezia coinvolgevano gran parte degli stati italiani ma anche le principali potenze europee. Tutti avevano dei conti da regolare con lo Stato marciano; il re di Francia guardava alle città lombarde della Serenissima, con la volontà di ripristinare la grandezza dell'antico Ducato milanese; a sua volta Massimiliano I rivendicava Veneto, Istria e Friuli quali possedimenti dell'Impero; Ferdinando d'Aragona rivoleva i porti pugliesi, mentre il Regno d'Ungheria non nascondeva le mire sulla Dalmazia; il Ducato di Ferrara ambiva al Polesine, quello di Mantova ad Asola, quello di Savoia guardava a Cipro, Firenze non digeriva l'appoggio veneziano alla ribelle Pisa
ognuno aveva un motivo d'astio o rivalsa nei confronti della potente Repubblica. Tuttavia Venezia poteva contare sulla potenza del suo esercito e, cosa non da poco, sulle varie discordie che regnavano fra i suoi nemici, specialmente fra l'Impero e la Francia; infatti a Giulio II occorsero più di tre anni per creare un'unione anti-veneziana: agli inizi del 1508 il tutto era ancora da definire. Ad accelerare il tutto fu la frenesia di Massimiliano nell'attaccare Venezia, convinto di poterla battere con le sue sole forze; le truppe imperiali andarono però in contro a una rovinosa sconfitta in Cadore, che non solo respinse l'invasione ma aprì all'esercito repubblicano le porte di Pordenone, Gorizia e, clamorosamente, di Trieste e Fiume.
Il trionfo veneziano allarmò tutti, Massimiliano I in testa; la disfatta spinse l'imperatore a accettare le proposte papali. A Cambrai, nel Dicembre del 1508, fu stipulata la lega anti-veneziana; vi aderirono Giulio II, Luigi XII di Francia, Massimiliano, la Spagna e i ducati di Mantova, Ferrara e Urbino; sino all'ultimo furono sul punto di aderirvi anche l'Ungheria e il Ducato di Savoia; realmente neutrali rimasero l'Inghilterra e la Svizzera. Resasi conto del pericolo, la Serenissima tentò in extremis una riconciliazione col papa, offrendo concessioni in Romagna, ricevendo non solo un netto rifiuto, ma anche l'interdetto papale.
Era l'inizio del conflitto: Venezia sfidava l'Europa.
La Repubblica non perse tempo, organizzando immediatamente le difese; il Senato sapeva bene che occorreva sconfiggere i nemici separatamente, sfruttando il vantaggio di combattere nel proprio territorio; se anche solo uno degli eserciti avversari fosse stato battuto o quantomeno costretto alla ritirata, difficilmente la lega di Cambrai avrebbe resistito alle tensioni presenti al proprio interno; inoltre gran parte delle truppe nemiche erano ancora in fase di allestimento, su tutte quelle imperiali, in netto ritardo, mentre i ducati mantovano ed estense attendevano ai confini, senza prendere alcuna iniziativa autonoma. Gli unici attacchi erano arrivati in Romagna, dove l'esercito pontificio aveva messo a ferro e fuoco i contadi marciani, preso Imola e posto l'assedio a Ravenna; Venezia aveva scelto di non intervenire, poiché ad ovest risultava imminente l'invasione francese.
Due eserciti a confronto
Nell'età in cui armi da fuoco e fanteria stanno per soppiantare la cavalleria pesante, l'esercito di Luigi XII aveva in quest'ultimo reparto il vero nerbo, segno che le "lanze" erano tutt'altro che superate; ben 2.300 "uomini d'arme" (ossia cavalieri) accompagnavano il re, attorniato dal fior fiore della nobiltà francese; spiccavano le figure di Carlo d'Amboise (1473-1511), governatore di Milano; di Lapalisse (1470-1525); del celeberrimo Pierre Terrail de Bayard, noto come il "Baiardo" (1473-1524), il cavaliere "senza macchia e senza paura"; chiudeva lo stato maggiore il milanese Giacomo Trivulzio (1440-1518), maresciallo di Francia.
A ciò si aggiungevano circa 4.000 balestrieri a cavallo, costituenti la cavalleria leggera, il cui utilizzo andava aumentando, specie nelle operazioni di esplorazione; la fanteria contava tra i 12.000 e i 14.000 uomini, per lo più guasconi, piccardi e italiani, mentre 50 cannoni costituivano l'artiglieria. Non mancavano le truppe mercenarie, seppur in minoranza, costituite da 8.000 svizzeri; nucleo però difettoso di esperienza: il nerbo delle forze elvetiche aveva scelto la neutralità. Anche Venezia aveva tentato sino all'ultimo di arruolare le temibili fanterie, senza riuscirvi; pesava sì la neutralità dichiarata, ma anche il fatto che gli svizzeri non combattevano mai contro altri svizzeri, e Luigi XII era arrivato prima.
Una possente macchina bellica, attorniata dal classico corteo di lavandaie, mercanti, curiosi e, specialmente, prostitute. Ma Venezia non era rimasta immobile e, malgrado il fallimento delle trattative con gli svizzeri, l'esercito da essa costituito appariva molto temibile, al cui tradizionale grido di battaglia "Marco! Marco!", il Senato aveva voluto aggiungere "Italia! Italia!", a significare una missione contro lo straniero invasore, forse nel tentativo di trovare qualche possibile alleato nella penisola.
L'armata di San Marco, costituita sia da forze proprie che mercenarie, contava circa 30.000 uomini; 1.700-1800 lanze costituivano la cavalleria pesante; quella leggera ne presentava più del doppio, con circa 2.400 balestrieri a cavallo, 1.450 cavalieri dalmati e 300 "stradioti", i celeberrimi mercenari albanesi. 20.000 uomini componevano la fanteria, tra "brisighelli", la temuta truppa di ventura romagnola proveniente dalla rocca di Brisighella, e "cernide", reparti di fanteria arruolati a forza dai territori della Repubblica, tra le quali si distinguevano quelle padovana, bresciana e trevigiana. Completavano lo schieramento 36 cannoni, con 8 pezzi da cinquanta libbre. Lo Stato maggiore non è interamente veneziano; infatti, sebbene il grosso dei comandanti provenisse dalle fila del patriziato, tra i quali il futuro doge Andrea Gritti (1455-1538), il Senato aveva affidato il comando a due dei più noti capitani di ventura dell'epoca, il capitano generale Niccolò Orsini, conte di Pitigliano (1442-1510), e il provveditore generale Bartolomeo d'Alviano (1455-1516), entrambi al servizio della Serenissima dalla fine del Quattrocento. Di origini romane, l'Orsini era capitano generale dell'esercito marciano dal 1504, nel quale militava dal 1498; in precedenza aveva servito le Repubbliche di Firenze, Siena, il Papato e il Regno di Napoli; nel 1499 aveva conquistato per Venezia l'importante città di Cremona. Era uno dei capitani più noti e rispettati della penisola; suo punto di forza era la prudenza e l'attesa del momento giusto per colpire. Nato a Todi (o ad Alviano) nel 1455, Bartolomeo d'Alviano rappresentava invece l'incarnazione dell'uomo d'azione; educato sin da bambino al "mestiere delle armi", amante dei classici (tanto da latinizzare il proprio nome in Liviani), era noto in tutta Italia per le sue doti militari, fondate sul coraggio, l'intuizione e sull'offensiva; un uomo dunque tutt'altro che prudente. "Prestato" dalla Serenissima alla Spagna, era stato l'assoluto protagonista della decisiva battaglia di Garigliano (1503), che costò il sud Italia alla Francia, mentre nel 1508 aveva guidato le truppe di San Marco in Cadore, infliggendo la citata sconfitta alle truppe imperiali.
Due comandanti celebri, capaci, ma con opposte mentalità, l'una prudente, l'altra d'azione: ciò avrebbe potuto nuocere agli interessi di Venezia. Il Pitigliano, fedele alla propria mentalità, aveva intrapreso una tattica volta a osservare le mosse del nemico, forte della possibilità di poggiarsi sulle città fortificate e sulla conoscenza del territorio; al contrario l'Alviano insisteva sull'azione, proponendo un attacco diretto su Milano al fine di costringere l'armata francese al ripiegamento, allontanandola dalle terre marciane. Alla fine il Senato veneziano scelse una via di mezzo, appoggiando la strategia dell'Orsini ma imponendo l'ordine di non retrocedere.
L'invasione francese
Verso metà Aprile, le truppe di Luigi XII diedero inizio alle ostilità, occupando Treviglio; al fine di evitare il possibile saccheggio, la cittadinanza obbligava la guarnigione veneziana ad arrendersi; la cittadina fu risparmiata e le forze francesi, lasciato un piccolo presidio, si ritirarono. Fu ripresa dai veneziani l'8 Maggio; per punirla del tradimento, venne messa a saccheggio dai brisighelli.
Così facendo, l'esercito veneziano si attardava; era quello che Luigi XII aspettava. Accampati a Cassano d'Adda, i francesi approfittarono del sacco di Treviglio; nella notte tra l'8 e il 9 Maggio, dopo aver costruito due ponti di barche, attraversavano l'Adda, entrando nel territorio di San Marco. Invano l'Alviano, saputa la notizia, spingeva per un attacco contro l'avversario in movimento; sia per l'esercito ancora "distratto" nel saccheggio, che per l'oscurità della notte, l'Orsini sceglieva di aspettare il giorno.
I due eserciti si trovavano ora a poca distanza; i francesi avevano preso e saccheggiato Rivolta, i veneziani si erano trincerati a Casirate. Nessuna delle due parti aveva intenzione di fare il primo passo; si registravano solamente piccoli duelli fra "uomini d'arme" e alcune scaramucce fra reparti di cavalleria in esplorazione; le fortificazioni del campo veneziano e la consistenza dell'esercitano rendevano difficile l'attacco ai francesi. Per una settimana regnò un clima d'attesa finché, alle 3.00 di mattina del 14 maggio 1509, lo Stato maggiore veneziano fu allarmato nel sonno: le truppe francesi si muovevano. Luigi XII aveva iniziato la marcia verso Pandino. Il conte di Pitigliano, consultati i propri ufficiali, sceglieva di muovere a sua volta l'esercito, al fine di anticipare l'avversario e trincerarsi presso la cittadina, in modo da bloccare l'azione francese. Se la manovra fosse riuscita per Luigi XII sarebbe stato un colpo duro, poiché si sarebbe visto costretto o a un difficile attacco o a un ripiegamento, che avrebbe scosso la truppa, specie quella mercenaria, innervosita dalla tensione dell'attesa, dalla dura vita degli accampamenti e dal ritardo del pagamento. Per contro l'Alviano s'impuntava a proporre l'avanzata su Milano, al fine di tagliare all'esercito francese le vie di rifornimento e costringerlo ad un duro ripiegamento; ancora una volta però l'Orsini la spunta: il suo piano appare più fattibile e con più garanzie di vittoria.
L'esercito veneziano si metteva in moto al fine di anticipare il re di Francia; l'armata veniva disposta in colonna, ordinata i quattro "colonnelli" composti ciascuno da uno squadrone di lanze, uno svariato numero di cavalleria leggera e una "bataglia" di fanteria. Al comando dell'avanguardia si poneva l'Orsini; seguiva il colonnello di Bernardino Fortebraccio da Montone; l'artiglieria veniva collocata al centro sotto il comando del provveditore Vincenzo Valier; il terzo colonnello era affidato ad Antonio dei Pio da Carpi; l'ultimo, avente funzione di retroguardia, era affidato all'Alviano, il quale, spostatosi in testa con la maggior parte della cavalleria leggera, ne aveva affidato il comando a Piero Del Monte (ca1450-1509).
L'avanguardia veneziana giungeva a Pandino prima dei francesi; ma mentre s'iniziava a fortificare il campo e a studiare il terreno, giungeva l'allarme: la retroguardia era stata attaccata. Lo Stato maggiore fu colpito dall'agitazione, l'Orsini insisteva nell'ordinare il ripiegamento della retroguardia, senza capire che lo scontro era iniziato; solo l'Alviano, ignorando gli ordini, prese i suoi cavalleggeri e si mosse verso il nemico.
La battaglia
Mentre i primi reparti marciani giungevano a Pandino, l'avanguardia francese, guidata dal Chaumont e dal Trivulzio, forte di 500 lanze, di un cospicuo numero di cavalleria leggera e di alcuni pezzi d'artiglieria, aveva intercettato il quarto colonnello veneziano, guidato da Piero Del Monte e costituito da 400 cavalieri pesanti e 5.400 fanti, metà rappresentati dalle cernide padovana e friulana.
Il contatto era avvenuto vicino a una cascina denominata "Mirabello", non lontana dal centro di Agnadello; un terreno pianeggiante segnato dalla presenza di qualche vigneto e di un piccolo argine rialzato costeggiante un canale in secca. A iniziare fu la cavalleria leggera francese, provocando le forze marciane con un'azione di disturbo. Quest'ultime, lungi dal perdere la testa, iniziarono a disporsi per reggere il probabile urto; le cernide si schierarono dietro l'argine, al fine di sfruttare il terreno, affiancate da 500 fanti mercenari al comando di Saccoccio da Spoleto (?-1509); alle loro spalle, in riserva, si posizionava il resto della fanteria mentre la cavalleria si disponeva più a sud, lontana dal tiro dei cannoni avversari, mentre il del Monte mandava a chiedere rinforzi.
E' proprio il posizionamento dell'artiglieria francese, postasi di fronte all'argine a una distanza di 150/200 m, a far iniziare lo scontro. Una prima raffica s'abbatteva sui fanti di Saccoccio, al riparo dietro l'argine; ora i pezzi da campagna di inizio Cinquecento necessitavano di una distanza minima di 200 m per avere effetto su bersagli mobili come la fanteria: una distanza minima e pericolosa, vista la lentezza della procedura di caricamento. Senza aspettare né l'ordine dal comandante, il Del Monte, né l'arrivo dei rinforzi e dell'artiglieria, ma soprattutto una seconda raffica, Saccoccio da Spoleto si lanciava con i fanti all'assalto dei cannoni francesi. Ecco risuonare il grido "Marco! Italia!": la battaglia aveva inizio.
Con furia cieca i fanti veneziani correvano verso gli artiglieri nemici; ma a pochi metri dall'impatto furono colpiti da una seconda scarica dei pezzi e dal tiro incrociato delle balestre e delle armi da fuoco guasconi che proteggevano l'artiglieria. Ciò nonostante, riprendevano l'avanzata, senza avvedersi sul fianco dell'arrivo della cavalleria del Trivulzio e del Chaumont; Saccoccio veniva così preso tra due fuochi, con i cannoni di fronte e la cavalleria francese a lato: il destino suo e dei suoi uomini sembrava segnato.
Fu allora che l'Alviano, affiancato dalla sua fedelissima cavalleria, giungeva sulla scena; ignorando l'ordine di ritirata del Pitigliano, comandava immediatamente alle sue lanze la carica; a sua volta il Del Monte portava la fanteria di riserva in soccorso agli uomini di Saccoccio. Tutto era ancora aperto.
L'azione combinata riusciva; la cavalleria del Trivulzio veniva travolta e messa in fuga dall'Alviano, mentre la fanteria, rinforzata dall'intervento del Dal Monte, travolgeva i guasconi e superava i cannoni francesi. La situazione sul campo si era capovolta; Venezia era in vantaggio. Le truppe marciane necessitavano però dell'artiglieria, assiduamente richiesta sia dall'Alviano; nel frattempo erano giunti di rinforzo le fanterie del terzo colonnello, 5.400 fanti fra mercenari e cernide bresciana e trevigiana con 560 cavalleggeri fra "uomini d'arme" e cavalleria leggera; presero posizione sull'argine, mentre 800 fanti scelti, al comando di Citolo da Perugia (?-1510), si portavano subito nella mischia.
Anche le forze francesi ricevevano aiuti; giungevano sul campo i temuti fanti svizzeri, i quali si scagliarono sulla provata fanteria veneziana; furono però clamorosamente travolti e ributtati indietro: la vittoria sembrava a portata delle truppe di San Marco.
All'improvviso però giunse l'eco dell'urlo "Francia! Francia!"; più di duecento cavalieri, agli ordini del Baiardo, caricavano le forze avverse: sono le lanze della "bataglia" di Luigi XII. Il grosso delle truppe transalpine era giunto sul luogo dello scontro. L'avanzata dell'Alviano veniva bruscamente bloccata. Nel frangente il Trivulzio riusciva a riorganizzare la propria cavalleria e a lanciarla contro la fanteria veneziana: furono recuperate le artiglierie. I cannoni ripresero immediatamente a bersagliare l'argine, dove in attesa rimanevano le fanterie del terzo colonnello, prive del proprio comandante: Antonio dei Pio si trovava ancora a Pandino con l'Orsini! E da là giungeva sempre l'ordine di ritirata! Fu la svolta della battaglia; bersagliate dai colpi di cannone, le cernide bresciana e trevigiana, lasciate senza ordini, non solo non soccorsero i commilitoni impegnati nello scontro, ma, colpite dal panico, si diedero alla fuga. Pare fossero le cernide bresciane a rompere le righe.
La defezione della fanteria sull'argine creava una falla enorme fra le truppe veneziane impegnate nella lotta e il resto dell'esercito; il compito di colmare il vuoto lasciato sarebbe spettato alla cavalleria pesante di riserva, al comando di Giacomo Secco; questi però, scegliendo clamorosamente di seguire gli ordini del Pitigliano, aveva ordinato il ripiegamento. Del vuoto creatosi ne approfittarono invece il Trivulzio e il Chaumont; con un'abile manovra della cavalleria leggera, presero alle spalle l'Alviano. Scoppiava anche un forte temporale, che rendeva più difficoltose le manovre di entrambe le fanterie: ma il numero dei francesi era nettamente superiore a quello dei veneziani.
Ciò che rimaneva delle truppe marciane si strinse in quadrato, deciso a non arrendersi, nella speranza della venuta dell'Orsini e delle artiglierie; ma costui si ostinava a non muoversi da Pandino: non aveva capito l'entità dello scontro. Anche le ultime speranze si spegnevano; a quattro ore dall'inizio dello scontro, le forze francesi avevano conquistato il campo. Piero Del Monte e Saccoccio da Spoleto giacevano a terra morti, attorniati da decine di nemici abbattuti, mentre Citolo da Perugia era ferito e catturato dagli avversari. Bartolomeo d'Alviano lottò sino all'ultimo, ferito sul volto e con la propria cavalcatura abbattuta; caduto prigioniero, fu risparmiato da Luigi XII il quale, colpito dal suo valore, gli promise eterna prigionia per non trovarselo più di fronte: la sua insegna sarebbe stata esposta a Parigi quale trofeo di guerra.
L'esercito veneziano era distrutto; l'Orsini, in preda al panico, decise di ritirarsi all'interno del territorio della Repubblica; solamente le schiere del capitano generale e di Fortebraccio da Montone rimasero unite; il grosso era annientato, caduto prigioniero o si era dato alla fuga disperata. Al conte di Pitigliano rimanevano poco più di 4.000 cavalieri, fra pesanti e leggeri, e tra i 7.000 e gli 8.000 fanti; aveva perso quasi i due terzi della propria armata. Avrebbe accusato l'Alviano e la sua foga di agire; ma la sconfitta era sua e della sua ostinazione a non volersi impegnare nello scontro; se fosse giunto in soccorso, forse le sorti sarebbero state diverse. Ma con i "se" non si scrive la Storia. Niccolò Orsini morì di malattia nello stesso anno a Lonigo (Vicenza).
Le conseguenze della rotta di Agnadello
La "rotta della Ghiaradadda" fu un colpo terribile per Venezia; la ritirata di ciò che rimaneva dell'esercito marciano si arrestò solamente sulle "ripe salse", ovvero tra Mestre e Peschiera. Le potenze della lega di Cambrai approfittarono della crisi veneziana per agire; le truppe pontificie conquistarono le terre romagnole, inclusa Ravenna, mentre nel sud la Spagna si riprendeva i porti pugliesi; il duca di Ferrara occupava il Polesine e Rovigo. Quanto a Luigi XII, questi annetteva al Ducato di Milano le città di Brescia, Bergamo, Crema, Cremona, Peschiera e la Ghiaradadda. Verona, Padova e Vicenza si ribellavano dandosi a Massimiliano I.
Nonostante tutto, Venezia sarebbe stata in grado di riprendersi; approfittando della lentezza delle forze imperiali, della seguente riappacificazione con Giulio II (1510) e dell'appoggio delle campagne venete, ostili all'occupazione imperiale, la Serenissima diede avvio alla riconquista dei territori perduti: già alla fine dello stesso anno, il Veneto era quasi stato recuperato. La guerra sarebbe proseguita sino al 1516, con numerosi cambiamenti di alleanze e fronti; la Serenissima avrebbe fatto fronte alla Francia alleandosi al Papato, all'Impero e alla Spagna (Lega Santa, 1511) per poi cambiare clamorosamente schieramento (1513) e affiancare Luigi XII prima Francesco I poi. I nemici di Agnadello avrebbero trionfato assieme a Marignano nel 1516, la battaglia che permise alla Francia di riprendersi Milano, precedentemente perduta, e a Venezia di recuperare il grosso dei territori. Marignano fu il capolavoro di Bartolomeo d'Alviano, il quale perse la vita proprio in quella giornata.
Alla fine del 1516, la Serenissima aveva recuperato tutti i territori; perse però definitivamente la Romagna, Cremona e la Ghiaradadda, le città di Fiume, Gorizia e Trieste e i porti pugliesi. Ma ciò che contava era un'altra cosa; dall'esperienza delle guerre d'Italia, Venezia usciva comunque ridimensionata; dopo la giornata di Agnadello, la politica marciana sarebbe mutata verso un atteggiamento non più aggressivo ma difensivo e di contenimento, declassando inesorabilmente tra le potenze di secondo piano, lasciando il posto alle grandi monarchie straniere, nuove regine della politica internazionale. La Repubblica Serenissima aveva fatto il suo tempo: iniziava ora il lento processo di decadenza.
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