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Processi militari per crimini di guerra
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PROCURA MILITARE DELLA REPUBBLICA

presso il TRIBUNALE MILITARE DI

R O M A

ATTO DI APPELLO

(artt. 261 c.p.m.p., 593 e segg. c.p.p.)

Il Procuratore militare della Repubblica

 

appella avverso la sentenza del Tribunale militare di Roma in data 22 luglio 1997, con la quale l'ex maggiore Karl HASS e l'ex capitano Erich PRIEBKE, entrambi già appartenenti alle SS germaniche, sono stati riconosciuti responsabili del reato continuato ed aggravato di concorso in violenza con omicidio in danno di cittadini italiani (artt. 13 e 185, c. 1 e 2, c.p.m.g., in relazione agli artt. 81, 110, 575 e 577, nn. 3 e 4, e 61, n.4, c.p.) per l'eccidio delle "Cave Ardeatine" (Roma, 24 marzo 1944), con la condanna di HASS alla pena della reclusione per anni dieci e mesi otto (di cui dieci anni condonati) e di PRIEBKE alla pena della reclusione per anni quindici (di cui dieci condonati), previa concessione ad entrambi delle circostanze attenuanti (art. 62 bis c.p.) e di aver commesso il fatto per essere stati determinati da un superiore a commettere il reato (art. 59, n.1, c.p.m.p.), nonché al solo HASS dell'attenuante di aver prestato opera di minima importanza nella preparazione e nell'esecuzione del reato (art. 59, n.2, c.p.m.p.).

1. Premessa.

La sentenza del Tribunale militare di Roma è caratterizzata da gravi errori di diritto, nonché da ambiguità e contraddizioni, che, pur a fronte dell'affermazione della colpevolezza di entrambi gli imputati, Erich PRIEBKE e Karl HASS, concorrono nella determinazione, in concreto, di pene decisamente incongrue quanto alle rispettive misure.

Il punto focale risulta correlato alla specifica connotazione del fatto al centro del processo, avente indici di eccezionale criminosità in ragione delle modalità di attuazione dell'eccidio: riassuntivamente, l'inaudita crudeltà, tanto più grave in quanto attuata con premeditazione.

L'esistenza di tali circostanze aggravanti è stata riconosciuta dal Tribunale al punto da reputarle idonee, per effetto di argomentate motivazioni tecnico-giuridiche, a determinare il risultato dell'imprescrittibilità del reato contestato, pur a fronte della ritenuta esistenza di circostanze attenuanti, non dichiarate formalmente prevalenti sulle prime, ma, alle quali, di fatto, è stata conferita efficacia poziore. Ne è scaturito un giudizio di comparazione, aprioristicamente e espressamente dichiarato inapplicabile dal Collegio (sulla base di una ritenuta ratio storicamente individuata) e, di fatto, contraddittoriamente utilizzato, mediante un procedimento logico avente notevoli aree di oscurità.

In effetti, la trasposizione sul piano giuridico dell'ineludibile rilevanza delle concrete modalità dell'eccidio, così come puntualmente acclarate nel corso di due dibattimenti (quello del 1948 nell'ambito del processo contro il Tenente Colonnello delle SS tedesche Herbert KAPPLER e l'altro conclusosi con la sentenza che si impugna) non può sfociare in un risultato tale da "banalizzare" e rendere inefficace il contenuto precettivo di disposizioni alle quali il Tribunale conclama fedeltà (segnatamente agli artt. 23 c.p.m.g. e l'art. 69 c.p. nella originaria formulazione).

La cadenza argomentativa de Collegio rimane oscillante in una linea d'ombra in cui l'intento empirico di carattere umanitario nei confronti degli imputati, segnatamente in ragione della loro età avanzata (certamente apprezzabile ma da realizzare nella fase propria e non elusivamente e surrettiziamente in sede di giudizio di comparazione), fa aggio sul rispetto delle norme in materia di circostanze del reato, realizzando il risultato di inaccettabile compromesso.

Peraltro, anche l'iter seguito dal Tribunale per dichiarare l'imprescrittibilità del reato rivela un'evidente macchinosità, di dubbio rigore logico-giuridico, a fronte delle argomentazioni già prospettate sul punto da questo Ufficio, che il Collegio ha ritenuto fondate, ma depotenziate quanto alla loro "decisività" (p. 103 della sentenza), per effetto dell'altra soluzione preferita.

Il risultato obbligato della cadenza argomentativa sostenuta da questa Procura, alla quale sono riservate dal tribunale positive considerazioni (pagg. 104 - 110), non conduce - diversamente da come opina il Collegio -all'alternativa tra la mera disapplicazione dell'art. 157 c.p. e la proposizione di apposita questione di legittimità costituzionale. Invero, la "disapplicazione", come canone ermeneutico ed operativo, rileva nei rapporti tra legge ed atto amministrativo ritenuto incidenter tantum illegittimo, mentre, nel caso in esame, si verte sul rapporto tra due norme di eguale rango formale: una a valenza generale e l'altra speciale. In altri termini, avuto riguardo alla differenza concettuale tra disposizione e norma, si configura un concorso apparente di norme coesistenti - quella incorporata nell'art. 157 c.p. e l'altra, sulla imprescrittibilità, di origine internazionalista e direttamente immessa nel nostro ordinamento per effetto dell'art. 10, c.1, Cost. - che si risolve, sulla base dell'art. 15 c.p., senza la necessità di ricorrere ad interventi della Corte costituzionale. In definitiva, la norma sui reati speciali costituiti da crimini di guerra prevale sulla disposizione, avente portata generale, sicché l'imprescrittibilità opera indipendentemente dall'entità della pena, in ragione della qualificazione formale del fatto di reato.

Contrariamente a quanto si potrebbe ritenere a prima vista, non si tratta di risultato caratterizzato da particolari indici di eccezionalità. L'ordinamento conosce altri casi di reati speciali imprescrittibili, a fronte delle disposizioni generali del codice penale (cfr., sul punto, MANZINI, "Trattato di diritto penale italiano", 1981, col. III, p. 581; per una problematica generale dell'adattamento del diritto interno alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, CASSESE in "Commentario della Costituzione", col. I, Bologna, 1975, p. 485 e segg.).

In dettaglio, le osservazioni dell'appellante avverso la sentenza risultano dal par. 2 e 3 seguenti.

2. Erronea applicazione di circostanze attenuanti nei confronti di Erich PRIEBKE (artt. 5°, n.1,c.p.m.p. e 62 bisc.p.) e di Karl HASS (artt. 59, n.1 e n.2, c.p.m.p.).

Il Tribunale individua la sussistenza delle aggravanti contestate, sulla base di affermazioni nette di responsabilità, che non possono essere, poi, in sede di valutazione delle attenuanti, obliterate.

In particolare, relativamente al PRIEBKE, la sentenza che l'imputato ha "con piena coscienza e volontà fornito il proprio contributo causale all'eccidio delle Cave Ardeatine" partecipando "al reato non già in fase meramente esecutiva ma sin dal momento organizzativo" (pag.61), essendo chiamato "a collaborare nella preparazione della strage, partecipando a formare gli elenchi dei martiri da passare per le armi e successivamente controllandoli al loro arrivo alle Cave in posizione di assoluta preminenza organizzativa" (pag.25), essendo fra l'altro "affidatario delle liste dei morituri", "compito tutt'altro che marginale e secondario" (pag.56).

Con riguardo all'aggravante di cui all'art. 61, n.4, c.p., il Collegio - dopo aver ribadito il ruolo di rilevante importanza svolto dal PRIEBKE sia nella preparazione sia nella esecuzione dell'eccidio ed aver sottolineato il grado di inaudita gravità in cui la crudeltà si è manifestata - ha ritenuto ascrivibile all'imputato l'aggravante in questione in quanto, in primo luogo "l'ordine di eseguire l'eccidio delle Cave Ardeatine non ha trovato nel PRIEBKE un mero esecutore, bensì esso è stato recepito in spirito di piena condivisione; in secondo luogo, non può non rivelarsi come l'ordine superiormente impartito non si spingeva fino a dettagliarne le specifiche modalità esecutive, le quali pertanto vennero programmate ed eseguite dall'"imputato" (pag.73).

Ad ulteriore conferma del reale convincimento del Collegio sopra richiamato, si deve considerare quanto affermato nel provvedimento impugnato, in ordine all'uccisione delle cinque persone in più rispetto al numero, divisato originariamente, dei soggetti da fucilare.

Il Tribunale ha correttamente ritenuto non verosimile la tesi secondo cui i cinque sventurati furono passati per le armi per errore e solo a seguito di un'involontaria loro inclusione nelle liste. Ha considerato, invece, plausibile che "vi sia stato un momento in cui il PRIEBKE, quale affidatario delle liste, si è accorto che vi erano cinque prigionieri in più" (pag.45), rilevando come debba "affermarsi che l'uccisione delle cinque persone eccedenti il numero dei trecentotrenta fu posta in essere con piena consapevolezza e che tale consapevolezza fu massima nel PRIEBKE, quale ufficiale che, tenutario delle liste delle vittime e preposto alla formazione dei gruppi che di volta in volta venivano avviati a morte, direttamente rilevò l'eccedenza numerica" (pag.49).

Quanto alla posizione dell'ex maggiore HASS, il Tribunale ha individuato differenze nel ruolo da questi svolto rispetto a quello del PRIEBKE, concludendo che egli era pienamente consapevole dell'inaudita criminosità del programma da realizzare alle Cave Ardeatine (p.63), ma ne afferma la responsabilità (a titolo di dolo eventuale) anche nei confronti delle cinque persone che furono eliminate perché testimoni pericolosi (p.65), evidentemente perché l'ex ufficiale partecipò alla riunione dei capi servizi, tenuta da KAPPLER dopo l'azione partigiana di via Rasella, nel corso della quale venne rilevata l'esigenza della massima segretezza dell'esecuzione (p.66).

Sorprendentemente, però, il Collegio nega l'esistenza per l'HASS dell'aggravante della premeditazione per carenza dell'elemento ideologico (p.68), anche se di tale esclusione non è cenno nel dispositivo. Si tratta di parte delle contraddizioni, sulle quali si tornerà.

E' evidente l'antinomia logica tra la ricostruzione in fatto e l'applicazione per entrambi gli imputati dell'attenuante di cui all'art. 59, n.1, c.p.m.p., specie tenuto conto dell'acclarata intensità del dolo attribuita al PRIEBKE.

L'art. 59, n.1, c.p.m.p., configura, com'è noto, una circostanza meramente facoltativa che richiede una duplice valutazione: la configurabilità della "determinazione" da parte del superiore e l'opportunità di una diminuzione della pena, considerate le particolarità del fatto e la personalità del reo.

La "determinazione", nel significato, conforme alla ratio legis, di forte coazione psicologica nella genesi del rapporto causale, non può ritenersi sussistente sol perché il fatto è stato commesso sulla base di un ordine impartito dal superiore. E' necessario che sia riscontrabile un'attività del superiore specificamente diretta e risultata idonea a creare nel subordinato il proposito criminoso; attività, fra l'altro, tale da comportare l'applicabilità nei confronti del superiore dell'aggravante speculare prevista dall'art. 112, n.3, c.p..

Infatti, come precisato in ordine alla suddetta aggravante dalla Corte di cassazione (Sez. II, 27 luglio 1989, n.10693), il dato qualificante della determinazione è rappresentato da un comportamento che, al di là di ogni classificazione del rapporto sottostante, abbia consentito la realizzazione di specifici reati, le facoltà di reazione del soggetto "determinato" un forza dell'esercizio di una specifica attività di coercizione, di condizionamento psicologico o comunque di persuasione.

Nel caso di specie, non appare rilevabile una siffatta condotta riferibile al KAPPLER ovvero ad altro superiore. In particolare, in relazione alle dichiarazioni degli imputati di essere stati minacciati e di aver ucciso per sottrarsi al pericolo di essere deferiti ai Tribunali delle SS. il Tribunale afferma: "(...) Non è vero. Né il PRIEBKE, né l'HASS hanno ricevuto alcuna minaccia, tanto meno dal KAPPLER: il primo, il "tenente feroce", uno dei torturatori di via Tasso, era del KAPPLER un collaboratore tra i più fidati (...) il secondo, Capo Sezione Spionaggio, era in evidente rapporto confidenziale con il KAPPLER (...)" (pag.56).

D'altro canto non possono considerarsi "determinati" a commettere il reato soggetti quali il PRIEBKE e l'HASS che, in sede di ricostruzione del fatto sono stati ritenuti non solo, per il rispettivo ruolo direttivo, collaboratori attivi e zelanti del KAPPLER, ma, segnatamente il PRIEBKE, in posizione di relativa autonomia nell'integrare, con disposizioni di dettaglio, la fase esecutiva della prescrizione di servizio ricevuta (p.73 della sentenza).

Appare poi tutt'altro che condivisibile la ritenuta opportunità di diminuzione della pena, atteso che - pur trattandosi di esercizio di un potere discrezionale - il giudice di merito deve tener conto, anche alla luce delle pronunce costanti della Corte di cassazione (Sez. II, 2 agosto 1965, n.126; Sez. I, 20 aprile 1979, n.3847; Sez. II, 9 febbraio 1980, n.2032; Sez. VI, 18 novembre 1989, n.16058), fra l'altro, della gravità e più generale delle "particolarità del fatto", che, nel caso di specie, non sono, ad evidenza, tali da giustificare un giudizio di concedibilità.

Quanto alle attenuanti generiche, relativamente al PRIEBKE, non appaiono, in concreto, sussistere gli elementi positivi indicati dal giudice di primo grado. Emergono, anzi,incongruenza in relazione alle valutazioni già esplicitate dal Collegio in sede di giudizio sulle aggravanti.

Infatti, il Tribunale, nel ritenere applicabili le attenuanti generiche anche al PRIEBKE sotto il profilo dei motivi a delinquere, afferma che l'imputato avrebbe posto in essere la condotta criminosa, perché chiamato ad assolvere un ruolo consequenziale alle funzioni esercitate nell'organigramma del Comando tedesco (cfr. pag.84 dell'impugnata sentenza).

Tali considerazioni non appaiono compatibili con il ruolo di rilevante importanza che, a giudizio del medesimo Collegio, il PRIEBKE avrebbe svolto, fra l'altro, con "spirito di piena condivisione", provvedendo a programmare, oltreché eseguire, con zelo, l'ordine illegittimo che fu il risultato di una perversa interazione psicologica tra i vari comandi tedeschi di diverso livello, tutti protesi a realizzare la vendetta collettiva a seguito dell'azione partigiana di via Rasella. Al processo di formazione della volontà di procedere alla fucilazione collettiva non fu peraltro estranei il PRIEBKE, come le risultanze processuali hanno inequivocabilmente provato.

Per quanto concerne, poi, l'altro elemento positivo considerato dal giudice di primo grado e cioè la condotta susseguente al reato, va rilevato che il PRIEBKE ha tenuto un comportamento processuale che - contrariamente a quanto dichiarato nella sentenza impugnata - non è stato certamente collaborativo. L'imputato non solo si è - com'era in sua legittima facoltà - sottratto all'esame dibattimentale, ma non ha in alcun modo mostrato il benché minimo segnale di una rivalutazione critica della propria condotta, chiudendosi in un algido e quasi sdegnoso isolamento.

Non è inoltre condivisibile il giudizio positivo in ordine alle condizioni di vita del PRIEBKE, fondato sulla considerazione che l'imputato, prima del suo arresto in Argentina nel maggio del 1994, avrebbe tenuto una condotta normale, vivendo per cinquant'anni senza mai nascondere la propria identità, sia sul rilievo attribuito all'età avanzata del medesimo.

A parte il valore improprio conferito alla ritenuta "normalità", lo stesso Tribunale, nel far riferimento a norme del nostro sistema penale che attribuiscono rilevanza all'età dell'indagato o condannato, richiama disposizioni che, in realtà, o sono dirette ad evitare la misura cautelare della custodia in carcere ovvero attengono alla fase esecutiva, in cui più propriamente devono essere prese in considerazione le condizioni soggettive, in esse compresa l'età del condannato.

Quanto alla ritenuta concedibilità all'HASS dell'attenuante dell'aver prestato opera di minima importanza, appare di tutta evidenza l'erronea applicazione dell'art. 59, n.2, c.p.m.p.

In primo luogo, l'opera prestata da taluno dei concorrenti può ritenersi di "minima importanza" soltanto qualora abbia esplicato un'efficacia eziologica del tutto marginale e quasi irrilevante nella produzione dell'evento (Cass. Sez. I, 11 agosto 1978, n.10693; Cass. Sez. I, 18 marzo 1982, n.2975, Cass. Sez. I, 29 dicembre 1988, n.12886; Cass. Sez. IV, 7 luglio 1993, n.6664).

In tal senso, non può certamente ritenersi di minima importanza la condotta dell'HASS. Egli ha, infatti, posto in essere un contributo senza dubbio essenziale ai fini della sicura e compiuta realizzazione del fatto. Appare, sotto questo profilo, già di per sé rilevante la considerazione che l'HASS, conformemente a quanto disposto dal KAPPLER, fu chiamato a dare l'esempio alla truppa, attraverso la partecipazione personale all'uccisione delle vittime, al fine di evitare qualsivoglia titubanza nell'attuazione dell'efferata esecuzione dell'eccidio, come del reato, sotto un diverso profilo, il Collegio riconosce (p.63 della sentenza).

In ogni caso, a prescindere dalle suesposte considerazioni, va rilevato che la norma dell'art. 59, n.2 c.p.m.p. esclude l'applicabilità dell'attenuante in questione nell'ipotesi in cui sussistano le aggravanti previste dall'art. 58 c.p.m.p. ed, in particolare, per quanto di rilievo nel caso di specie, le aggravanti del concorso con un inferiore (art. 58, c.1, c.p.m.p.) e del concorso di cinque o più persone (art. 112, c.1, c.p.).

Ebbene, il Tribunale espressamente rileva che "l'HASS, quale maggiore delle SS tedesche, ha concorso nel reato di cinque persone, tra le quali anche il PRIEBKE, suo inferiore in grado. Ma in realtà nessuna di queste due aggravanti, né quelle dell'art. 112, c.1, c.p., né quella dell'art. 58 c.p.m.p. risulta ascritta agli imputati" (pag. 79 della sentenza).

Invero, nel capo di imputazione,le predette aggravanti sono sostanzialmente e chiaramente contestate: oltre al concorso con inferiore, individuabile nel coimputato capitano PRIEBKE, appare infatti esplicitata anche la presenza di più di cinque concorrenti, in quanto si fa riferimento, oltre a KAPPLER, ad "altri militari tedeschi (alcuni dei quali già giudicati)", con rinvio implicito ad una sentenza (che il Tribunale ha ritualmente acquisito agli atti).

Quanto sopra rilevato risulta determinante ai fini dell'applicabilità dell'art. 59, n.2, c.p.m.p.. Infatti, né à essenziale la contestazione formale delle aggravanti in questione, né assume rilevanza alcuna il fatto che non si sia tenuto conto delle predette circostanze nella determinazione della pena: ciò non fa venir meno l'obbligo del giudice di considerare le medesime aggravanti - ove ritenute sussistenti, come nel caso di specie - con l'effetto dell'inapplicabilità dell'attenuante di cui si tratta (con riferimento ad analoga previsione normativa contenuta nell'art. 114 c.p., cfr. Cass. Sez. I, 28 marzo 1969, n.1506; Cass. Sez. I, 23 settembre 1977, n.11103).

3. Erronea applicazione di provvedimenti indulgenziali.

Il Giudice di primo grado ha ritenuto applicabili al fatto commesso da entrambi gli imputati i provvedimenti indulgenziali emanati a decorrere dal 1966, sul presupposto della mancata, espressa esclusione del reato militare di cui all'art. 185 c.p.m.g. dal beneficio in questione.

Contrariamente a quanto disposto dall'art. 3 del D.P.R. 24 gennaio 1963, n.5, i successivi decreti di concessione dell'indulto non includono nell'elencazione dei reati esclusi dal beneficio quelli di cui al titolo IV, libro III c.p.m.g.

Da tale rilievo il Tribunale ha tratto il convincimento della mutata volontà del legislatore di ricomprendere anche tali fattispecie penali nel beneficio, "dato che in nessuno di essi si rinvengono disposizioni tendenti al ripristino dell'esclusione" (pag. 114 del provvedimento impugnato).

Orbene, il Tribunale, pur richiamandosi ai principi generali consolidati in punto di interpretazione delle norme clemenziali, non ha tuttavia rilevato che, nel corso di specie, il rispetto di tali regole interpretative non comporta l'inclusione del reato de quo nel beneficio.

La causa dell'erronea applicazione da parte del giudice di primo grado di alcuni dei decreti indulgenziali indicati deve individuarsi nella omessa considerazione della peculiarità del sistema penale militare, in relazione alla scelta del legislatore di definire molte delle fattispecie penali militari (tra cui quella di cui all'art. 185 c.p.m.g.) attraverso il richiamo integrativo a corrispondenti fattispecie penali comuni. Infatti il sistema del codice penale militare, nella duplice ramificazione "di pace" e "di guerra" - com'è noto - ha recepito, come basilare principio informatore, la complementarità rispetto al codice penale comune. Non si è trattato di opzione eminentemente "ideologica", ma di tecnica legislativa atta a garantire, il più possibile, la realizzazione di un codice "snello". Sintomatica, sotto tale profilo, era l'originaria formulazione dell'art. 264 c.p.m.p., relativa ai cosiddetti reati militarizzati, che costituiva apparentemente una norma ad effetti processuali, ma che, in realtà, aveva una portata sostantiva, espressione concreta di un principio di eterointegrazione del codice penale militare.

In tale quadro è frequente il ricorso alla tecnica legislativa del rinvio ricettizio: le disposizioni richiamate costituiscono il nucleo centrale della fattispecie, che trova complemento, per modalità soggettiva o temporali, nella norma "militare".

E' questo, ad evidenza, il caso dell'art. 185 c.p.m.g.

In particolare, il reato in questione - in applicazione della tecnica legislativa indicata - risulta definito nei suoi elementi costitutivi proprio attraverso il rinvio ricettizio all'art. 575 c.p.. Pertanto il richiamo all'omicidio comune deve considerarsi ontologico e non soltanto quoad poenam, come invece affermato nella sentenza impugnata.

Va a questo punto rilevato che in tre dei sei decreti indulgenziali applicati (D.P.R. 4 agosto 1978, n.413; D.P.R. 18 dicembre 1981, n.744; D.P.R. 16 dicembre 1986, n.865) il legislatore ha espressamente disposto l'esclusione dell'indulto per il delitto di omicidio di cui all'art. 575 c.p.. Dunque, sulla base delle considerazioni sinora effettuate, a tale espressa previsione legislativa consegue l'inapplicabilità dei tre decreti suindicati anche al reato di cui all'art. 185 c.p.m.g. per effetto della stessa peculiare configurazione del sistema penale militare e, pertanto, prescindendo da qualsiasi intervento di assimilazione analogica svolto in via interpretativa.

E' opportuno altresì evidenziare che, anche laddove il legislatore, prima del 1966, ha fatto esplicito riferimento a reati militari previsti dal c.p.m.g. per escluderli dall'indulto, non ha, invero, richiamato specificamente l'art. 185 c.p.m.g., non abbisognevole, per quanto sinora detto, di previsione specifica ulteriore rispetto a quella dell'art. 575 c.p., bensì l'intero titolo IV del libro III, con l'evidente intento di impedire l'applicazione del beneficio ad una serie eterogenea di reati, che, diversamente, sarebbero stati ricompresi nel provvedimento clemenziale.

4. Conclusioni.

Sulla base delle considerazioni che precedono, si chiede la riforma della sentenza impugnata, secondo i rilievi formulati, limitatamente ai seguenti capi: concessione delle attenuanti di cui agli artt. 59, n.1, c.p.m.p. e 62 bis c.p. all'imputato Erich PRIEBKE e delle attenuanti di cui agli artt. 59, n.1 e n.2, c.p.m.p. all'imputato Karl HASS;applicazione dei provvedimenti di indulto ad entrambi.

Per l'effetto, si chiede la rideterminazione delle pene già inflitte secondo la corretta osservanza delle norme di legge.

 

Roma, 27 ottobre 1997

IL PROCURATORE MILITARE DELLA REPUBBLICA

(dr. A. INTELISANO)

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