Articolo di Alberto Rosselli (le fotografie sono fornite dall'autore stesso)
Il 10 giugno 1940, la flotta italiana dislocata in Africa
Orientale, disponeva di forze e di scorte del tutto insufficienti per
intraprendere una guerra destinata, contrariamente alle opinioni di
Roma, a durare molto più a lungo del previsto.
Come è noto, l'Impero d'Africa Orientale, un immenso territorio
che comprendeva Eritrea, Etiopia e Somalia, risultava geograficamente
isolato rispetto alla madrepatria e alla più vicina colonia italiana,
la Libia. L'A.O.I. confinava infatti con possedimenti e colonie inglesi
e francesi (Sudan, Kenya, Somalia francese e Somalia britannica) e,
fatto ancora più grave, la sua linea costiera risultava troppo lunga
e scarsamente difendibile da una flotta di superficie e sottomarina,
che alla vigilia del conflitto non superava le trenta unità.
Inoltre, la vicinanza di importanti scali aeroportuali
nemici (Porto Sudan, Aden, Gibuti, Mombasa) permise soprattutto all'Inghilterra
di predisporre, fino dal mese di marzo del '40 (quando all'orizzonte
iniziò a prospettarsi un possibile ingresso dell'Italia in guerra a
fianco della Germania), di un'adeguata forza navale in grado non soltanto
di rintuzzare eventuali iniziative italiane nel Mar Rosso e nell'Oceano
Indiano, ma di insidiare da vicino l'unica grande base tricolore di
tutto l'Impero, quella di Massaua.
La carenza di materie prime, nafta, pezzi di ricambio,
munizioni, siluri e attrezzature e l'impossibilità di ricevere alcun
aiuto consistente da parte della madrepatria, mise subito in una condizione
di inequivocabile svantaggio la Squadra Italiana del Mar Rosso concentrata
a Massaua.

Il cacciatorpediniere Pantera
Quest'ultima, in data 11 giugno '40, era composta dalla
5° Squadriglia Ct formata dai caccia (ex esploratori) Tigre,
Pantera e Leone (1.530 tonnellate di dislocamento); dalla
3° Squadriglia Ct formata dai vecchi caccia C. Battisti, N.
Sauro, D. Manin, F. Nullo (1060 tonn.); dalla nave
coloniale Eritrea (2.170 tonn.); dalle torpediniere V.G. Orsini
e G. Acerbi (670 tonn.); dalle cannoniere G. Biglieri
(620 tonn.) e Porto Corsini (290 tonn.); dal posamine Ostia
(620 tonn.); dai M.A.S. 204-206-210-213-216 e dalle navi armate
(due moderne bananiere) Ramb I e Ramb II. Completavano
la Flotta i sommergibili Archimede, Galilei, Torricelli
e Ferraris (880/1.230 tonnellate di dislocamento), Galvani
e Guglielmotti (896/1.265 tonn.) e Perla e Macallè
(620/855 tonn.).

Il sommergibile Galilei
E' da notare che, a parte la Flotta del Mar Rosso, l'Italia
non disponeva per la difesa delle coste somale di alcuna nave militare
degna di nota, salvo qualche antidiluviano dragamine ed alcuni sambuchi
o velieri armati di mitragliatrici. Nella primavera del '40 il Comando
Supremo della Marina progettò di mandare alcune unità (soprattutto sommergibili
di grosso tonnellaggio) a Chisimaio, per insidiare, in caso di guerra,
il traffico anglo-francese nell'Oceano Indiano, ma la pochezza degli
impianti di quel piccolo porto (che, secondo logica, avrebbe dovuto
essere attrezzato nella maniera idonea già negli anni Trenta), sconsigliò
alla fine questa mossa.
Ma torniamo a Massaua. L'armamento principale, e originale,
delle unità classe Tigre (navi da 31 nodi di velocità) era di
8 pezzi da 120/45, due da 76 e 6 tubi lanciasiluri, mentre quello delle
unità classe Sauro (35 nodi di velocità) era composto (sempre
in origine) di 4 pezzi da 102, due mitragliere da 40 e 6 tubi lanciasiluri.
Poco prima dello scoppio della guerra e nel corso di quest'ultima l'armamento
di alcune navi della Flotta del Mar Rosso venne modificato e trasposto
per rinforzare le batterie terrestri e per rendere bellicamente efficienti
le ex bananiere Ramb I e Ramb II (che vennero dotate,
sembra, di 4 pezzi da 120 e alcune mitragliere da 13,2). Le torpediniere
classe Orsini (30 nodi di velocità) erano invece dotate di 4
pezzi da 102/45 più 4 tubi lanciasiluri e le cannoniere (9 nodi di velocità)
disponevano di due pezzi da 76/40. Il posamine Ostia aveva 2
cannoni da 102/45 e un pezzo da 76/40 e l'Eritrea poteva contare
su 4 pezzi da 120/50, due mitragliere da 40 e due da 13,2.
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La nave coloniale Eritrea
Nel maggio del 1940, la Flottiglia Sommergibili italiana
di base a Massaua era composta da otto unità: Archimede, Galilei,
Torricelli, Ferraris, Galvani, Guglielmotti,
Perla e Macallè. Archimede, Guglielmotti,
Galvani e Torricelli avevano un dislocamento normale di
1.016/1.266 tonnellate ed erano armati con otto tubi lanciasiluri da
533 millimetri con 14 armi, più un pezzo prodiero da 100/43 e due impianti
binati antiaerei da 13,2. Il Galilei e il Ferraris dislocavano
invece 985/1.259 tonnellate ed erano armati con 8 tubi lanciasiluri
da 533 con 16 armi, più due pezzi da 100/43 e due mitragliere antiaeree
da 13,2 singole. Il Perla aveva un dislocamento normale di 696/825
tonnellate ed era armato con 6 tubi lanciasiluri da 533 millimetri con
12 armi, più un cannone da 100/47 e due mitragliere da 13,2. Il Macallè,
infine, dislocava 680/848 tonnellate ed era armato con 6 tubi lanciasiluri
da 533 con 12 armi, più un pezzo da 100/47 e due mitragliere da 13,2.
Infine, i cinque vecchi ma velocissimi M.A.S. (da 40 nodi) dislocati
a Massaua erano dotati di due siluri e di due mitragliatrici da 6,5
(o una da 13,2).
Le operazioni dei sommergibili
L'11 di giugno del '40, le prime unità della Flotta Italiana
del Mar Rosso ad entrare in azione furono i sommergibili: un esordio
purtroppo funestato da alcuni gravi incidenti di natura tecnica dovuti
alle esalazioni di cloruro di metile provenienti dai primordiali impianti
di refrigerazione di bordo. Gli avvelenamenti subiti dagli equipaggi
del Perla e del Macallè portarono, oltre che alla morte
e a gravi attacchi di demenza da intossicazione, addirittura all'incaglio
del primo scafo e al naufragio del secondo. Mentre l'Archimede
dovette, sempre a causa della fuoriuscita di cloruro di metile, rientrare
precipitosamente a Massaua con una mezza dozzina di morti a bordo.

Il sommergibile Perla
Sempre nel mese di giugno, il Galilei, che navigava
nel Mar Rosso, venne individuato e attaccato con bombe di profondità
da un paio di unità cacciasommergibili inglesi. Costretto a riemergere,
il Galilei venne abbordato dalla corvetta Moonstone e
catturato con tutto l'equipaggio. Malauguratamente, i marinai britannici
riuscirono a mettere le mani sui codici cifrati e sui documenti operativi
dell'unità, comunicando così alle basi di Porto Sudan e Aden l'esatta
posizione delle altri navi italiane.
E fu così che, tra il 22 e il 23 giugno, cacciatorpediniere
e corvette inglesi non ebbero difficoltà ad intercettare il Galvani
e il Torricelli. L'equipaggio di quest'ultimo, tuttavia, riservò
al nemico una fierissima resistenza. Costretto all'emersione rapida
nello Stretto di Perim, il sommergibile italiano accettò l'impari fida
a colpi di cannone e di mitragliere con tre caccia (Kartoum,
Kandahar e Kingstone) e una cannoniera, la Shoreham,
inglesi. Il comandante Pelosi e i suoi uomini, abbarbicati intorno ai
due pezzi da 100 millimetri e alla "binata" da 13,2 affrontarono il
fuoco di 22 canne da 120 e da 102 millimetri e di 25 mitragliere da
20 e 37 millimetri nemiche, riuscendo a danneggiare gravemente la cannoniera
Shoreham. Nonostante il tiro incrociato nemico, Pelosi manovrò
in modo da collimare il caccia Kartoum e gli lanciò contro due
siluri che centrarono il bersaglio affondandolo. Dopo quasi un'ora di
combattimento, l'unità italiana venne anch'essa colpita gravemente e
Pelosi, seppur ferito, fece a tempo a mettere in salvo l'equipaggio
e ad autoaffondare lo scafo.
Dopo questo scontro, i sommergibili italiani superstiti
dovettero fare i conti con la scarsezza di nafta e di pezzi di ricambio,
limitando giocoforza le loro azioni.
Il 13 agosto del '40, il Ferraris tentava di intercettare
nel Mar Rosso la nave da battaglia inglese Royal Sovereign, proveniente
da Suez, che tuttavia sfuggì all'agguato raggiungendo poi Aden.
Il 6 settembre, il Guglielmotti, appostato a sud
delle isole arabe Farisan, riuscì invece a silurare e ad affondare la
petroliera Atlas.
Tra il 20 e il 21 ottobre, il Guglielmotti e il
Ferraris tentarono di intercettare un poderoso convoglio nemico
(31 piroscafi scortati dall'incrociatore Leander, dal caccia
Kimberley, da 5 "sloops" e protetto da 50 tra caccia e bombardieri
di base ad Aden) proveniente dall'Indiano e diretto a Porto Sudan e
Suez. Le due unità non riuscirono però ad incrociare il convoglio che
venne però individuato dai caccia Pantera, Leone e Nullo.
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Nello scontro con le navi di scorta, il Nullo
venne colpito e affondato nei pressi dell'isola Harmil. La fotografia
a fianco raffigura una formazione di caccia ed è stata scattata
a bordo del Nullo. |
Nel marzo del '41, quando ormai le riserve di carburante
erano quasi esaurite e l'esercito inglese, proveniente dal Sudan, era
in procinto di sfondare la linea difensiva di Cheren (Eritrea), Supermarina
decise di fare rientrare in Europa (nella base atlantica di Bordeaux)
gli ultimi quattro sommergibili di Massaua: Gugliemotti, Ferraris,
Archimede e Perla, tentando un pericoloso viaggio senza
scalo, con periplo africano, di oltre 14.000 miglia. L'impresa, giudicata
rischiosissima dagli stessi alleati tedeschi, riuscì invece perfettamente.
Tra il 1 e il 3 marzo, i quattro sommergibili (il primo fu il più piccolo
Perla) lasciarono Massaua e, uno dopo l'altro, circumnavigando
il continente africano, raggiunsero la base italiana di Betasom (Bordeaux).
IL Guglielmotti ci mise 64 giorni e il Perla (che nelle
acque del Madagascar venne rifornito di nafta dall'incrociatore corsaro
tedesco Atlantis) ne impiegò ben ottanta.
Le azioni delle unità di superficie nel Mar Rosso
Dopo avere effettuato, dall'estate del '40 al febbraio
del '41, 15 missioni nel corso delle quali i modesti mezzi italiani
riuscirono ad infliggere qualche danno alle unità mercantili e militari
inglesi, Supermarina, alla fine di marzo, decise di impiegare i superstiti
caccia del Mar Rosso in una duplice e suicida operazione contro Porto
Sudan e Suez, ordinando nel contempo alle altre unità ausiliarie a lunga
autonomia (le due Ramb e la nave coloniale Eritrea di
tentare di raggiungere il Giappone).
A tutti gli altri mercantili venne invece consigliato
di tentare di guadagnare i più vicini approdi neutrali del Madagscar
francese (dei 50 piroscafi italiani e tedeschi bloccati a Massaua fino
dallo scoppio della guerra, soltanto due riuscirono a raggiungere lo
scalo malgascio di Diego Suarez, mentre la motonave Himalaya,
compiendo un record da guinness dei primati, decise di tagliare l'Oceano
Indiano, raggiungendo il Pacifico, doppiando il Capo Horn e raggiungendo
miracolosamente indenne il porto di Rio de Janeiro).

La motonave Himalaya
Furono quindi formate due squadriglie, la prima, formata
dai Ct pesanti Leone, Pantera e Tigre, e la seconda
dai più leggeri Sauro, Manin e Battisti. I "Leone"
in virtù della loro maggiore autonomia avrebbero dovuto attaccare Suez,
distante non meno di 50 ore di navigazione, mentre i "Sauro" avrebbero
attaccato la più vicina Porto Sudan.
L'operazione contro Suez avrebbe dovuto avvantaggiarsi
della cooperazione dell'aviazione tedesca che da Creta avrebbe dovuto
colpire simultaneamente lo stesso obiettivo con almeno una squadriglia
di bimotori Heinkel 111 da bombardamento. Tuttavia, all'ultimo momento,
i tedeschi dichiararono la loro indisponibilità e al Comando delle forze
navali italiane del Mar Rosso non rimase che ridimensionare il piano.
Il 31 marzo, venne quindi deciso di far compiere ad entrambe le squadriglie
un attacco congiunto contro Porto Sudan, distante 300 miglia. L'intera
navigazione si sarebbe dovuta svolgere di notte e a tutta velocità per
evitare di essere individuati dalla Royal Navy e dalla RAF che, dopo
il crollo di Cheren e la distruzione di quasi tutta l'aviazione italiana,
dominava incontrastata tutti i cieli dell'Africa Orientale.
Appena uscito dal porto di Massaua, il Ct Leone
urtò con la prora uno scoglio e dovette abbandonare subito l'impresa.
Poi, come da copione, dopo appena due ore, i rimanenti 5 caccia italiani
iniziarono ad essere attaccati da gruppi di bimotori inglesi Bristol
Blenheim. Pur rendendosi conto dell'inutilità dell'operazione (le forti
difese terrestri e aeree di Porto Sudan erano già in allerta), gli italiani,
con grande coraggio e un pizzico di follia, decisero di proseguire egualmente
verso l'obiettivo. Per lo sforzo, le vecchie unità motrici del Battisti
andarono ben presto in avaria e la nave venne dirottata lungo le coste
arabe per essere autoaffondata dall'equipaggio. Alle prime luci dell'alba
i rimanenti 4 cacciatorpedineri arrivarono a 30 miglia dall'obiettivo
ma fu a quel punto che un vero e proprio nugolo di bombardieri e caccia
britannici iniziò a bersagliarli con grandinate di ordigni da 110 e
224 chilogrammi. Zigzagando tra le alte colonne d'acqua e cercando di
rispondere ai continui attacchi con il fuoco delle poche mitragliere
da 13,2 in dotazione, le unità italiane furono ben presto costrette
a rompere la formazione, sbandando a destra e a sinistra. Verso le 7,30,
gli inglesi concentrarono i loro colpi sui più deboli Manin e
Sauro che ben presto vennero colpiti, mentre il Pantera
e il Tigre, intercettati anche da una squadriglia di cacciatorpediniere
nemici puntarono ad est verso la costa araba per autoaffondarsi.
Alle ore 9, una bomba da 224 chilogrammi centrò in pieno
il Sauro che in pochi minuti affondò con quasi tutto l'equipaggio,
mentre il Manin, dimostrando una capacità di manovra e di difesa
a dire poco straordinarie, riuscì a stare a galla per altre due ore,
danneggiando con le sue 13,2 un paio di bombardieri inglesi. Poi, inquadrato
da due bombe da 224 si spaccò improvvisamente in due tronconi, colando
a picco. Alcuni superstiti vennero raccolti da navi inglesi alcuni giorni
dopo, in un mare infestato dai pescicani attirati dal sangue di tante
vittime.
Le ultime operazioni
Alla vigilia della caduta di Massaua (1 aprile 1941),
rimanevano in porto due sole unità efficienti: la vetusta torpediniera
Orsini e il MAS 213.
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La Orsini (al comando del tenente di vascello
Valente, nella foto), al sopraggiungere delle prime colonne blindate
britanniche, aprì subito il fuoco contro-costa con i suoi pezzi
da 102 e 40, rallentando la marcia nemica nei pressi di Embereni.
Poi, esaurite tutte le munizioni decise di autoaffondarsi. |
L'8 aprile, il MAS 213 del guardiamarina Valenza ottenne
il più brillante successo di tutta la campagna, attaccando e silurando
l'incrociatore Capetown da 4.200 tonnellate (armamento: 5 pezzi
da 152; due da 76; quattro da 47; due mitragliere da 40 e 9 da 20; otto
tubi lanciasiluri). L'unità inglese, fortemente sbandata, venne trainata
da alcuni rimorchiatori a Bombay dove rimase inutilizzata per un anno.
Ma anche dopo la caduta di Massaua, gli inglesi ebbero
a patire un'ultima rilevante perdita, questa volta dovuta alle mine
magnetiche italiane. Il 13 giugno, poco prima della caduta di Assab,
l'incrociatore ausiliario britannico Parvati saltò in aria avendo
urtato un ordigno all'entrata di questa base.
Come si è accennato le navi ausiliare delle Flotta Italiana
del Mar Rosso (l'Eritrea, la Ramb I e la Ramb II)
riuscirono a lasciare preventivamente la minacciata Massaua già all'inizio
di febbraio, ma di queste soltanto l'Eritrea e la Ramb II
raggiunsero la lontana Kobe alla fine di marzo.
La Ramb I, infatti, venne intercettata il 27 febbraio
a sud-ovest delle isole Maldive dall'incrociatore inglese Leander
che la affondò a cannonate.
Si concludeva così la vicenda della Squadra Navale Italiana
del Mar Rosso che con la sua attività, seppur menomata dalla carenza
di carburante, pezzi di ricambio e munizioni, riuscì senza dubbio a
creare parecchi problemi alle Forze aeronavali britanniche impegnate
nella conquista dell'Africa Orientale e nella sorveglianza delle rotte
strategiche lungo il Mar Rosso.
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