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Argomento: Arte della guerra - Recensione di Gianfranco Cimino (11/06)
Copertina Le ombre dei guerrieri di Jon Lendon, UTET
Recentemente ho avuto modo di acquistare "Le ombre dei guerrieri" di J. E. Lendon, edito in Italia da UTET, e dato l'interesse suscitato, almeno nei paesi anglosassoni, da questo libro, ho pensato di recensirlo, sperando che possa essere di un qualche interesse per i frequentatori di ICSM. La recensione è divisa in due parti, nella prima esporrò sommariamente il contenuto del libro, nella seconda proverò ad esporre qualche mio pensiero critico. Subito dopo aver letto il libro in questione ho pensato ad un concetto espresso da un grande studioso della classicità, Aldo Schiavone, nel suo bellissimo libro "La storia spezzata", un libro che consiglio a chiunque voglia ricondurre alla sua giusta dimensione il rapporto tra mondo classico e mondo moderno.

Cito dunque testualmente da "La storia spezzata", Cap. 1: "Ma dalla ripetuta percezione di una compiutezza che non riesce a spezzare i suoi confini può ben generarsi - insieme all'appagamento e allo sviluppo di un forte senso della misura - uno stato di ansia: e soprattutto in una cultura aristocratica che aveva introiettato da una tradizione antica l'idea dell'impegno civile e militare, della prova continua, della vita come azione, e che seguitava a proporsi modelli di comportamento fortemente competitivi ed emulativi".

Ed infatti è su questi modelli di comportamento fortemente competitivi ed emulativi, e trasposti in un passato "eroico" e fuori dal tempo storico, che Lendon fissa la sua attenzione, focalizzandoli nel campo della storia militare greca, ellenistica e romana, e sostenendo che l'evoluzione dell'arte della guerra classica, non dipese tanto da fattori tecnici, dalla logica militare interna, quanto da influenze culturali, dalla visione del mondo propria della civiltà classica. Intendiamoci, Lendon non nega l'importanza dell'innovazione, del prestito o dell'adattamento alla minaccia nella (lentissima) evoluzione dell'arte militare classica, ma nega che essi giocassero il ruolo fondamentale che troppo spesso noi moderni attribuiamo loro.

Se vogliamo tutti quanti noi abbiamo prima o poi affermato che la guerra è un fenomeno sociale e come tale è legato agli ideali ed alla cultura di chi la pratica, ma Lendon spinge questa asserzione alle sue estreme, e logiche conseguenze, mostrando concretamente come l'evoluzione dell'arte della guerra classica sia stata influenzata, se non determinata, da tali aspetti culturali. A parere dell'autore essi sono ancor oggi, mutatis mutandis, molto forti, tanto da affermare che, ad uno storico, tra parecchie migliaia di anni, la nostra arte della guerra Occidentale contemporanea sembrerà altrettanto ritualizzata di quella greca o delle tribù della nuova Guinea.

Prima di passare a definire quali siano i modelli di comportamento da emulare, e come si realizzasse questa emulazione vorrei però sottolineare l'importanza dell'introduzione del libro, in cui Lendon fissa chiaramente alcuni importanti concetti, quali l'idea, o meglio la mancanza quasi totale dell'idea, di progresso nell'antichità classica, ed i tempi (per noi) lunghissimi del progresso militare di quell'epoca. Le affermazioni dell'autore a questo riguardo possono sembrare un po' forti, vedi ad esempio la frase "nessuna (innovazione) costituì un miglioramento così determinante da obbligare tutte le nazioni ad adottarla per non combattere in condizioni di grave svantaggio", oppure "nel complesso l'evoluzione tecnologica in campo militare fu assai più ridotta negli ottocento anni dal 500 a.C. al 400 d.C. che nei quaranta anni dal 1910 al 1950". Eppure l'analisi che Lendon compie nell'Introduzione è fondamentale per comprendere la natura dell'evoluzione dell'arte della guerra nell'età classica (specie per chi è abituato solamente alla veloce evoluzione dell'arte militare a partire dalla seconda metà del XIX sec.).

Ma ora ritorniamo al filone principale del libro: fin dal primo capitolo lo studioso americano individua la centralità dell'epica omerica per la cultura greca, e conseguentemente, per l'arte della guerra greca; un'etica, quella dell'epos, fortemente competitiva.

Ovviamente il punto di partenza del ragionamento di Lendon è costituito da un'attenta analisi della rappresentazione del combattimento nell'Iliade, fattaci da Omero.

Una volta stabilito il "paradigma culturale", Lendon trae da esso le debite conseguenze in campo militare, a partire dalla sua influenza sullo sviluppo della guerra oplitica. In effetti, per lo storico, la falange oplitica fu il modo in cui i Greci, che nutrivano una vera e propria venerazione per l'epos omerico, introdussero i loro valori individualistici e competitivi nella realtà della guerra, semplificando il combattimento e vincolandolo a regole rigido: nella falange era possibile conservare la competizione tra individui e distinguere chiaramente i vincitori dai vinti, perché non è tanto nel combattimento corpo a corpo che il guerriero competeva, ma nel tenere a piè fermo la sua posizione all'interno dello schieramento.

Interessante è anche un altro concetto (duale stavolta), ripreso dall'Iliade, ma anche dall'Odissea: la tensione continua presente nell'arte militare greca tra pragmatismo e ritualismo, tra l'inganno (l'etica di Odisseo) e il combattimento faccia a faccia (l'etica di Achille).

Su questa falsariga Lendon non solo analizza la guerra oplitica in base alla comune cultura dei Greci, ma descrive anche la sua successiva evoluzione, dalle guerre persiane alla guerra del Peloponneso, all'emergere della potenza di Tebe, ed al contemporaneo apparire (o meglio riemergere) di nuovi tipi di truppa, peltasti e cavalieri, ed all'utilizzo di nuove tattiche unito ad una maggiore attenzione all'addestramento.

Le parti del libro dedicate all'inizio del IV sec. a.C., all'affermarsi della falange di picche e dell'arte della guerra macedone sono tra le più interessanti (ma a parer mio anche controverse) dell'opera. Infatti finora vi era stato un vivace dibattito relativo a tale evoluzione, ma questo dibattito era rimasto a livello puramente tecnico (analisi dell'evolversi delle armi offensive e difensive, di nuove tattiche e di nuovi tipi di truppa), mentre Lendon analizza il tutto da un punto di vista culturale, rintracciando importanti influenze omeriche in questi avvenimenti.

Per l'autore, il combattimento nell'Iliade si presenta in così tante e tali forme da poter fornire ai guerrieri greci (ed ai loro generali) diverse modalità di adeguarsi (così legittimandosi) a tale etica, in una continua tensione competitiva tra il comandante e le truppe e tra i vari tipi di truppa tra di loro, tensione alimentata anche dalla inquestionabile convinzione di tutte le parti in gioco che lo stile di combattimento proprio dell'epos fosse anche il più efficace, da qualsiasi punto di vista lo si esaminasse. E' importante anche dire che Lendon crede che questa dialettica abbia in realtà favorito un pensiero "creativo" e non "prescrittivo" in campo militare (ma questa osservazione, secondo me, potrebbe essere comunque rivolta al pensiero greco classico in generale).

Su tale dialettica non solo si basa l'evoluzione dell'arte della guerra greca (e macedone), ma anche fenomeni particolari quali la disciplina di tipo tutto particolare propria degli eserciti greci, il caratteristico stile di comando di Alessandro (e dei migliori tra i suoi successori), sempre sospeso tra leadership e combattimento in prima linea, e l'importanza accordata in epoca ellenistica agli allenamenti competitivi ed alle gare, segno che la competizione non poteva essere più mantenuta sui campi di battaglia e doveva così spostarsi in altri campi.

Passiamo ora alla seconda parte del libro, dedicata all'arte della guerra romana, e sviluppata, dal punto di vista metodologico, in maniera simile alla parte dedicata ai Greci. Ma se la metodologia è la stessa, ovviamente il punto di partenza è diverso, in quanto diversi sono i valori ideali a cui la società romana inizialmente si ispira, anche se successivamente, la cultura greco ellenistica avrà una fortissima influenza su quella romana.

Lendon individua il "motore culturale" dell'evoluzione militare romana nella tensione tra "virtus" e "disciplina", così come descritto nel mito fondante della civiltà romana, ovvero nel corpus di leggende riguardanti Roma arcaica, fino ai primi, leggendari tempi della Repubblica. Questi antichi racconti proponevano un insieme di modelli etici degni di ammirazione, che mettono l'accento su una tradizione di combattimento individuale aggressivo ed eroico da cui deriva, per emulazione, un comportamento a livello individuale coraggioso, aggressivo e competitivo sul campo di battaglia reale. I Romani quindi, rimasero attaccati al proprio particolare epos, che dava loro direttamente un'etica più prescrittivi di quella greca, e che essi quindi portarono ad interpretare in maniera molto più conservatrice dei Greci.

Ma prima di iniziare la sua analisi lo storico americano dedica spazio al significato della disciplina romana, contestualizzandola storicamente, e contestualizzando anche l'altissima considerazione di cui essa ha goduto nella nostra cultura moderna e contemporanea fin dal Macchiavelli; considerazione tale che ancor oggi "i soldati moderni emulano l'esercito dei Romani, per la sua disciplina, gli studiosi lo lodano, il pubblico lo ammira."

Partendo da tali presupposti il passaggio dalla falange arcaica alla legione manipolare viene spiegato dall'autore come il logico adattamento alla virtus aggressiva: come per Greci vi era un comportamento fondamentale di competizione individuale nel dimostrare il proprio coraggio, ma i Romani avevano un comportamento più aggressivo; non bastava loro, come dimostrazione di valore, mostrarsi saldi nei ranghi, essi volevano, in ottemperanza ai loro modelli culturali, attaccare il nemico. La falange arcaica non era in grado di reggere questa tensione tra virtus aggressiva e disciplina, e si sviluppò quindi la legione manipolare, che, divisa per scaglioni di età, dai più anziani hastati ai giovani velites dava "pari opportunità" a tutti, ma soprattutto a coloro che, essendo più giovani, non avevano ancora dimostrato il proprio valore, di distinguersi. Per dirla con le parole di Lendon "La legione manipolare era una soluzione al problema di riconciliare la cultura competitiva del duello individuale con il combattimento non aggressivo e di massa della falange"; aiutava i Romani "ad esprimere il meglio di sé come guerrieri"; conseguentemente le azioni di coraggio individuale erano premiate e si ci aspettava che per colpire un nemico un soldato valoroso potesse abbandonare temporaneamente il proprio posto nei ranghi (Livio, 22,38,4).

Ricordiamo qui che la maggior parte degli studiosi ritiene che il passaggio dalla falange arcaica avvenisse invece per le mutate esigenze tattiche (la necessità di poter combattere in terreno rotto, ad es. durante le guerre sannitiche). Lo storico passa così ad analizzare la campagna di Pidna alla luce della sua teoria. Abbiamo quindi un Emilio Paolo criticato dai suoi per la poca aggressività e che deve usare astuti espedienti per evitare che i soldati gli prendano la mano ed ingaggino battaglia in un momento poco favorevole. D'altronde in questa continua tensione tra virtus e disciplina quest'ultima non veniva considerata dagli stessi generali romani, come un valore superiore al puro valore guerresco: la disciplina romana era più forte di quella greca, ma la virtus non rimaneva delegittimata nel confronto. Generali come Paolo Emilio e Fabio Massimo a fatica si imponevano ai loro uomini, e spesso, anche ai loro ufficiali; la leadership di tipo intellettuale, di cui il massimo esponente era Scipione, il cui coraggio personale non poteva essere peraltro messo in discussione, era spesso osteggiata a Roma.

Passando poi alla Tarda Repubblica il quadro generale non cambia: Lendon ci propone infatti un Cesare fine tattico ed abile stratega, attorniato ed assecondato da un corpo di ufficiali, i legati, che però faticavano a incanalare l'aggressività dei soldati, e soprattutto dei centurioni, che così si appropriavano della virtus, antica prerogativa dei nobili. Ma d'altronde lo stesso Cesare riteneva fondamentale la virtus dei centurioni e dei semplici soldati. In quest'ottica l'affermarsi della coorte viene visto dallo studioso come l'affermarsi di questa nuova leadership, che cerca la manovra e la tattica fine in contrapposizione al puro scontro frontale. Ed il fatto che la coorte abbia avuto tante difficoltà ad affermarsi è dovuta alla resistenza dei ranghi, che pure dovettero cedere, essendo anche mutati i rapporti di potere tra gli ufficiali nobili ed i soldati, non più cittadini possidenti, ma semplici "proletarii".

Neanche sotto l'alto Impero la tensione tra virtus e disciplina si risolve. Lendon infatti passa a descriverci il comportamento di comandanti e soldati dell'esercito romano durante la guerra giudaica 67 - 70 d.C. e, dal suo racconto emerge il quadro di un esercito imperiale ben inquadrato, addestrato ed equipaggiato, ma che coltivava e cercava in egual modo virtus e disciplina, anche reclutando tra le popolazioni barbare, ma sottoponendole poi alla dura disciplina romana ed a un lungo addestramento sotto ufficiali romani (ed alcuni la chiamano barbarizzazione !!). Ma la situazione si evolve, e, sotto l'influsso di modelli greci ed ellenistici (Alessandro Magno, sopra tutti), la virtus venne coltivata anche dai gradi più alti, fino allo stesso Tito, che da una parte esigeva la massima disciplina, ma dall'altra doveva tollerare la coraggiosa aggressività dei suoi, anche perché anche in lui stesso spesso la virtus prevaleva sulla disciplina. Lo studioso, infine, propone anche una digressione sull'applicabilità del moderno concetto di coesione e di "legame orizzontale" tra i soldati, ponendo l'accento sul fatto che la competizione aggressiva tra i soldati (e le unità), non favoriva certo la coesione come la intendiamo noi e fornendo anche alcuni esempli tratti dalle operazioni di Tito contro Gerusalemme assediata. Lendon ne deduce quindi che altre forze, quali il comando o la pura costrizione, dovevano allora motivare i soldati Romani.

Infine gli ultimi due capitoli del libro sono dedicati all'esercito tardo romano del IV sec., e l'autore basa la sua analisi dal racconto ammianeo della battaglia di Strasburgo (357 d.C.), dai ritrovamenti di maschere equestri romane con sembianze femminili, dall'Ektasis di Arriano, e dall'analisi di Vegezio per proporre l'idea di un "ritorno al passato" nell'arte militare romana, causata dalla cultura dominante dell'epoca, che produceva comandanti con tendenze arcaicizzanti, e che si rifacevano costantemente ai valori greco - ellenistici, anche in campo militare. A maggior riprova di quanto esposto Lendon passa ad analizzare la campagna di Giuliano l'Apostata in Mesopotamia (363 d.C.) e ci mostra come la cultura greca dell'Imperatore, il suo essere esperto di storia antica, la sua costante imitazione di modelli quali Alessandro Magno o Traiano, influenzarono in maniera determinante la sua condotta, comunque aggressiva e con una leadership di tipo eroico; una condotta che portò lui stesso alla morte, ed il suo esercito ad una durissima ritirata seguita da una pace umiliante. Anche nella successiva battaglia di Adrianopoli un Imperatore meno abile come Valente, similmente ispirandosi a tali valori, condusse l'esercito romano d'Oriente ad una ancor più disastrosa e definitiva sconfitta.

La conclusione di Lendon è quindi che le più grandi sconfitte romane del IV secolo furono causate dallo scollamento tra le potenzialità dell'esercito romano di allora (minato dalla difficoltà di trovare adeguati reintegri in tempi ragionevolmente brevi) e la cultura dei suoi comandanti, basata sulla virtus romana e sull'eredità ellenistica, aemulatio che li spingeva ad uno stile di comando troppo aggressivo e coraggioso per lo strumento militare romano dell'epoca.

Ovvero, per concludere con le parole dello studioso "L'esercito del IV secolo doveva essere manovrato con astuzia oculata, come una spada: la sua rovina fu di essere comandato da persone come Giuliano e Valente, che lo impiegavano come una mazza, come sempre avevano fatto i comandanti romani".

Prima di esporre qualche considerazione critica devo avvertire il lettore che il libro di Lendon non è affatto un testo "facile", nonostante lo stile scorrevole e colloquiale, per nulla accademico. Infatti esso presuppone una buona conoscenza non solo della storia antica e della storia militare classica, ma anche dei fondamenti della stessa civiltà classica, visto che l'autore si sposta spesso dalla storia militare a quella del pensiero. Si tratta di un testo che ha uno scopo, e quindi uno spessore, molto diverso da quello, ad esempio del libro del Prof. Brizzi "Il Guerriero, l'oplita, il legionario".

Ciò premesso, quello che mi ha colpito di più del libro di Lendon è stata la metodologia usata, molto diversa da quella seguita nella maggior parte delle opere sull'argomento che ho potuto leggere. Ad esempio nel "Guerriero, l'oplita, il legionario" il Prof. Brizzi, pur accennando ad un'analisi di tipo culturale, prosegue poi con un'analisi di tipo più tradizionale, che poi scivola nell'ambito più prettamente tecnico.

Il punto di vista generale da cui Lendon si pone, un'indagine culturale dell'evoluzione guerra nel mondo antico, è talmente interessante e carica di possibili sviluppi, da far passare in secondo piano i punti più discutibili della sua teoria. D'altronde ho l'impressione che lo storico stesso consideri il suo punto di vista come complementare, e non alternativo a quelli oggi più comunemente accettati, basati sull'influenza militare interna (vedi Brizzi) o su quelle socio - istituzionale (Hanson).

Sarebbe quindi desiderabile riesaminare, in maniera più approfondita di quanto abbia potuto fare Lendon in un solo libro, certi "punti di svolta" della storia militare classica, combinando e l'approccio culturale e quello tecnico - militare, o anche socio - istituzionale, aspetti questi ultimi due che lo storico americano volutamente ignora, per arrivare ad un'interpretazione nuova, e più completa, di fatti la cui spiegazione era rimasta sempre dubbia. Penso, ad esempio, alla nascita della falange macedone; il sottoscritto preferisce una teoria consolidata che vede nelle riforme di Ificrate, e nell'influenza del periodo passato da Filippo di Macedonia nella Tebe di Epaminonda come ostaggio presso il generale Pammete, l'influenza determinante nella nascita della picca. Ma come osserva giustamente Lendon, dove finisce l'influenza tecnico - militare di Ificrate e dei Tebani, e dove comincia quella, ben più radicata nella visione del mondo greca, di Omero?

E ancora, esaminare la storia militare antica secondo categorie, quali quelle tecnologiche o della risposta evolutiva alla minaccia, prettamente moderne, non può condurre ad una visione distorta di essa?

Quanto ho detto, quindi, spiega il mio giudizio positivo sul libro; certo vi sono molte punti specifici nelle teorie di Lendon che non mi convincono, ad esempio l'evoluzione militare ellenistica dopo Alessandro o quella romana del III e IV sec. d.C. e che non convinceranno altri dei suoi lettori, ma essi nulla tolgono al valore innovativo del pensiero di Lendon.

Gianfranco Cimino
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