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Argomento: Storia Militare Romana - Recensione di Gianfranco Cimino (05/03)
Copertina La grande strategia dell'Impero Romano di Edward N. Luttwak, Rizzoli (7,50 Euro)
Luttwak e la difesa in profondità nel IV sec.

Approfondimento da it.cultura.storia.militare (26/04/03) by Gianfranco Cimino

Arrivati a questo punto della discussione è necessario passare ad un'analisi più lunga ed accurata e di quanto ci dicono le fonti, sia primarie che secondarie (ritrovamenti archeologici compresi) e di quanto ci dice Luttwak. Ciò anche per smorzare gli inutili toni polemici che si stanno manifestando sempre più, anche forse da parte mia.

Poiché una delle caratteristiche dell'opera di Luttwak è il lunghissimo intevallo temporale preso in esame, dal I sec. d.C. al IV sec. d.C., per un totale di circa 400 anni, conviene, una volta tanto, seguire lo studioso americano e suddividerlo negli stessi sub periodi presi da lui in esame.

Inizierò quindi la discussione dall'ultimo periodo preso in considerazione da Luttwak, che va dalla morte di Settimio Severo (211 d.C.) alla morte di Valentiniano I (375 d.C.); ancora una volta seguendo "La grande strategia dell'Impero Romano", prenderò in considerazione il sub - periodo che, per l'analista americano, è quello della "difesa in profondità", che grosso modo comincia con il regno di Diocleziano (284 d.C.).

Può sembrare strano che decida di cominciare l'analisi dell'opera di Luttwak partendo dal suo capitolo finale, ma, a parte l'intenzione di continuare il dialogo con Iso, è questa parte del libro ad essere la meno fondata sulle evidenze del periodo.

Esaminiamo dal punto di vista metodologico gli assunti di Luttwak. Egli presuppone, per la sua grande strategia di "difesa in profondità", che ci sia stato un "piano", anche se non esplicitato, ma unificato e predeterminato, per la difesa dell'intero Impero, piano portato avanti per l'intero periodo terarchico ed oltre. Le evidenze che Luttwak porta per la sua teoria sono soprattutto archeologiche, non essendoci ovviamente fonti primarie per il periodo che ci parlino di tale strategia (ricordiamo che il termine "strategia" è affatto moderno, e gli antichi trattati militari erano incentrati soprattutto sull'aspetto tattico e grande tattico). Ma l'archeologia non ci dice nulla di preciso né sulla contemporaneità della costruzione delle fortificazioni, né sulla contemporaneità della loro occupazione, né sulla consistenza quantitativa delle eventuali truppe che le occupavano.

Tanto per chiarire il tipo di fortificazione che Luttwak associa alla difesa in profondità è comune in tutto il periodo tra la metà del III sec. d.C. e la metà del VI sec. d.C., non solo, ma è virtualmente indistinguibile, dal punto di vista delle forme, da alcuni prototipi tardo ellenistici (vedi ad es. il forte di Theangela in Caria, che risale al I o II sec. a.C.). Non possiamo essere quindi minimamente sicuri che queste fortificazioni siano state pianificate ed eseguite in uno spazio di tempo relativamente breve (ad es. sotto la Tetrarchia); in pratica ciò comporta che Luttwak assegna al periodo Tetrarchico fortificazioni che potrebbero essere più "giovani" di 50 e più anni e più vecchie di un paio di secoli.

Fatto ancor più grave, non siamo affatto sicuri che tutte le fortificazioni esistenti in un dato periodo siano state occupate o in uso contemporaneamente. Ad es., per Southern & Dixon questo non è certamente vero per tutti i forti del "Litus Saxonicum" in Britannia (di cui ho più volte chiesto il comando al Patricius Laurentius).

Infine, anche se supponessimo tutte le fortificazioni pianificate e costruite in un lasso di tempo relativamente breve, non sappiamo nulla riguardo alla quantità di truppe ivi assegnate o stazionanti; ricordiamo che la Notitia Dignitatum, cui Luttwak, attraverso Van Berchem, spesso si rifà, risale almeno agli ultimissimi anni del IV sec. d.C. o ai primi decenni del V d.C.

Ciò comporta, tra l'altro, che tratti del Limes supposti molto guarniti nel lavoro di Luttwak, possano in realtà essere stati sguarniti, o viceversa.

Infine, per quanto riguarda le funzioni da associare a tali fortificazioni, che, nonostante quello che scrive Luttwak, avevano un carattere fortemente regionale (quelle dei confini aperti dell'Europa Centrale erano notevolmente differenti da quelli africani, ed entrambi erano dissimili da quelli della famosa "Strata Diocletiana"), non siamo affatto sicuri che avessero gli scopi attribuiti loro da Luttwak. Molte piccole fortificazioni di confine, specie quelle piazzate a cavallo di vie di comunicazioni, erano adibite probabilmente al controllo degli spostamenti pacifici di uomini, merci ed animali tra il Barbaricum e la Romania; erano insomma più simili alle ns. dogane (ricordiamo che Roma non aveva una chiara distinzione tra polizia ed esercito) che ad opere militari; le fortificazioni interne sui nodi stradali erano un deterrente contro le azioni di brigantaggio, croniche in vaste aree dell'Impero, oppure delle stazioni militari di cambio e di sosta. Fatto più importante Luttwak omette completamente le fortificazioni al di là del confine, che andavano dalle opere a cavallo di confini fluviali, a protezione di ponti, guadi e punti di approdo (veri e propri piccoli porti fluviali) ad avamposti fortificati, fino ad arrivare a fortificazioni a circa 200 Km ad est del Danubio nel suo tratto tra Acquincum a nord e Mursa (sita vicino alla confluenza tra Drava e Danubio) a sud, con tanto di fortificazioni ultra danubiane a Contra Constantiam ed Hatuan. L'aspetto offensivo di certe fortificazioni della fine III sec. - IV sec. è completamente taciuto da Luttwak, ma di ciò piu tardi.

Come caso tipico degli errori in cui si può incorrere non seguendo metodologie rigorose prendiamo il caso della Strata Diocletiana, su cui si sofferma l'analista americano (Cap. III Par. VI), descrivendo le truppe a guardia di questo Limes; questa descrizione è ripresa da Van Berchem, ma il lavoro di questo studioso è stato criticato perché pretende di retrodatare le informazioni prese dalla Notitia Dignitatum, che risale ai primi anni del V sec., o poco prima, alla situzione al tempo di Diocleziano, quasi 100 anni prima. Inoltre questa Strata non serviva a contenere una perdurante minaccia, ma era una via di comunicazione tra Palestina e Mesopotamia romana, nonché un tramite commerciale con le tribù del deserto, le cui incursioni sporadiche non compromettevano certo il mantenimento di fecondi rapporti commerciali con l'Arabia.

Purtroppo questa accettazione acritica delle fonti secondarie pervade l'intera opera di Luttwak, piuttosto allergico alle fonti primarie.

E' chiaro quindi che le evidenze su cui si basa l'ipotesi di Luttwak siano quanto meno discutibili; ma c'è di più.

Il concetto stesso di Limes come illustrato da Luttwak è discutibile: il limes era più inteso come una zona di transito perpendicolare al confine stesso (è questa è l'origine del termine) che una zona di confine come noi l'intendiamo; quindi, con tutta probabilità il termine si riferisce più alla permeabilità, non solo ad azioni ostili, ma anche a traffici commerciali, a spostamenti di greggi, di popolazioni e quindi di influenze culturali, che alla impermeabilità del confine romano.

E non solo per i Romani il Limes non era il ns."confine", ma, per la maggior parte dell'Impero, i confini come noi moderni li intendiamo non erano affatto segnati; la distinzione tra Romania e Barbaricum, specie nel IV sec. d.C. doveva essere molto più lasca (pensiamo solo alla proprietà di appezzamenti di terra che si estendevano attraverso il Limes stesso), ed in definitiva quasi inesistente per i perduranti ideali universalistici dell'Impero.

Insomma, il Limes come lo intende Luttwak è molto più simile alla cortina di ferro della guerra fredda che a quello concepito dai Romani del III - IV sec. d.C.

Poste queste necessarie premesse metodologiche, passiamo ad analizzare la natura della minaccia che, sul Limes Renano-Danubiano, minacciava l'Impero. Premetto che ciò è necessario per illustrare la natura delle operazioni belliche in Europa alla fine del III sec. e per tutto il IV secolo. Mi soffermo sull'Europa perché la minaccia persiana era più tradizionale, e veniva contenuta con un confine fluviale e numerose città fortificate, mentre sulle frontiere Arabe ed Africane il problema era il controllo, quasi di polizia, delle tribù nomadi, nonché possibili rivolte interne.

Analizzando quindi le operazioni militari del tardo III sec. - IV sec., in Europa, ci accorgiamo che la stragrande maggioranza delle operazioni che si svolgono al di qua del Limes è del tipo che potremo con termine moderno definire "a bassa intensità", con azioni che coinvolgevano qualche centinaio di uomini per parte, la maggior parte delle quali potevano essere gestite dalle truppe di frontiera (i limitanei). Solo relativamente poche incursioni coinvolgevano qualche migliaio di barbari; e pochissime effettivi di poche decine di migliaia di uomini: dalla stabilizzazione dei confini effettuata da Diocleziano (anni '80 del III sec. d.C.) ad Adrianopoli, l'unica incursione importante in Gallia viene effettuata dagli Alamanni e si risolve nella loro disastrosa sconfitta ad Argentorate (Strasburgo). In pratica, se è vero che la guerra diventa endemica sul Limes (ma ciò non comporta, dato l'estremo frazionamento politico delle tribù germaniche, l'interruzione degli scambi commerciali ed il traffico di persone ed idee), è una guerra fatta di raids e scorribande portate avanti da bande poco numerose di guerrieri il cui unico scopo è un facile saccheggio e l'acquisto di prestigio personale, molto importante in una società, come quella Germanica, impregnata di ethos guerriero. Né si deve credere che i Romani stiano passivi: operazioni che potremo definire di "controguerriglia" sono portati avanti da unità specializzate come gli "Exculcatores Britanniciani" o gli "Insidiatores". In pratica abbiamo una situazione endemica di guerra a bassa intensità (quasi a livello di quello che oggi definiremo operazioni di polizia) su una fascia non molto profonda al di qua ed al di là del limes. Ma se questo tipo di attività belliche coinvolgono più le terre romane che quelle barbare, quando si tratta di azioni belliche in grande stile oltre il Reno ed oltre il Danubio, svolte molto in profondità, con lo scopo di sottomettere singole tribù o gruppi di tribù germaniche, i Romani mostrano una grande iniziativa; e, si badi bene, non sono certo contrattacchi locali.

Passo quindi ad enumerarle, non per pignoleria, ma perché il loro numero e la loro intensità, ben note agli studiosi del periodo, sono completamente ignorate da Luttwak.

Comincia Massimiano con operazioni oltre il Reno contro Alamanni e Franchi (287-288 d.C.), Diocleziano passa oltre il Danubio contro i Sarmati (294 d.C.), Costantino il Grande conduce estese campagne oltre il Reno (ad esempio nel 306 d.C. contro i Bructeri) ed oltre il Danubio (numerose campagne tra il 325 ed il 334 d.C., a quell'epoca risale la sottomissione dei Goti), in quella che era la Dacia i Romani mantengono numerose teste di ponte. Nel 357 d.C. Giuliano l'Apostata passa il Reno su un ponte all'altezza di Magonza ed attacca con successo gli Alemanni (Ammiano Marcellino Res Gestae XXVII,1, 2), imponendo tributi e riedificando un forte costruito sotto Traiano; l'anno successivo Costanzo II passa il Danubio e semina la distruzione tra Sarmati e Quadi, che devono addivenire ad una pace umiliante (Ammiano Marcellino Res Gestae XXVII,12, 4-21), poi è ancora Giuliano ad attaccare sul loro suolo i Franchi (Ammiano Marcellino Res Gestae XX,10, 2 - 360 d.C.); lo stesso poco marziale Valente conduce operazioni in profondità nella vecchia Dacia (367 e 369 d.C. (Ammiano Marcellino Res Gestae XXVII, 5 -2), portando alla resa i Goti; Valentiniano I nel 368, 374 e nel 375 d.C. conduce campagne contro gli Alemanni, oltre il Reno (Ammiano Marcellino Res Gestae XXX,3, 1), e contro Quadi e Sarmati oltre il Danubio (Ammiano Marcellino Res Gestae XXX,5, 13), in questa occasione il sanguigno Imperatore fa costruire dei forti nel mezzo del territorio nemico, per sottolinerare la loro sottomissione; suo figlio Graziano conduce una campagna in Germania nel 378 d.C. contro gli Alemanni Lentiensi (Ammiano Marcellino Res Gestae XXXI, 10, 11), ancora alla fine del IV secolo, tra il 388 ed il 392 d.C. il Comes Arbogaste, lui stesso di origine Franca, conduce una serie di efficaci operazioni contro i Franchi Ripuari, mentre tra il 395 ed il 402 Stilicone passa il Reno per attaccare gli Svevi.

Di tutto ciò nell'opera di Luttwak non vi è traccia. Come si possono collocare queste operazioni, preparate mediante l'uso offensivo di fortificazioni atte a garantire un facile transito verso e nel territorio nemico, e certamente di grande portata, visto che erano condotte dagli Imperatori alla testa del loro Comitatus (e quindi con effettivi di circa 20.000 uomini), portate in profondità nel territorio nemico, in un quadro di difesa in profondità come quello propostoci da Luttwak?

Vediamo come Luttwak ci definisce la strategia della "difesa in profondità" nel Cap. III para I della sua opera (cito verbatim):

"basata (la difesa in profondità) su la combinazione di roccheforti autonome e reparti mobili di soldati dislocati davanti e dietro di esse. In base a questo sistema difensivo le operazioni belliche non presentano più un equilibrio simmetrico tra forze strutturalmente simili. L'offensiva nemica infatti è l'unica a poter sfruttare il vantaggio di una piena libertà di concentramento, mentre la difesa può contare sul reciproco sostegno delle roccaforti indipendenti e delle truppe mobili schierate sul campo di battaglia"

A parte lo svarione sull'offensiva nemica che "è l'unica a poter sfruttare il vantaggio di una piena libertà di concentramento", mentre erano i Romani ad avere questo vantaggio a piacimento, essendo la logistica dei barbari pressocchè non esistente, e rifuggendo comunque in genere essi dal combattimento in campo aperto se non in condizioni estremamente favorevoli, non capisco proprio come questa definizione possa adattarsi al panorama da me sopra delineato, con operazioni a bassa intensità al di qua del Limes ed operazioni a bassa ed alta intensità molto al di là di esso.

Ne consegue che quando Luttwak va ad enumerare le funzioni delle fortificazioni romane, sempre al I para del III cap. ha ragione solo per quanto riguarda la prima funzione (quella logistica), e la terza funzione (quella di comunicazione, se per comunicazioni intendiamo anche e soprattutto quelle verso il territorio nemico), e al limite per la quinta (rifugio in caso di sconfitta). Anche i numerosi diagrammi presenti nel Capitolo III, ivi compreso quello della difesa avanzata, non contemplano la possibilità di azioni offensive in profondità, ma solo limitati contrattacchi locali.

La mia impressione è che Luttwak abbia preso un modello teorico certo non da lui inventato (la difesa in profondità) e l'abbia a forza calzata su una realtà storica che non era quella che egli ci dipinge, né per quanto riguarda la situazione politico-miltare reale, né per quanto riguarda l'entità e le modalità della minaccia, né per quanto riguarda l'entità e le modalità della risposta.

Forse questo stravolgimento totale della realtà storica può soddisfare i moderni analisti militari, ma certamente non gli studiosi e gli appassionati di storia militare antica; soprattutto il libro di Luttwak, se letto senza adeguata preparazione, tende a generare idee false ed alquanto strane nel lettore.

Concludendo, rimando ad un altro post l'analisi critica degli altri capitoli della "Grande strategia dell'Impero Romano", in cui tratterò anche delle critiche più radicali dell'opera di Luttwak, come quelle di Isaac e Whittaker, ed altre più recenti, che tendono a negare anche la sola idea che alla base della politica di sicurezza romana ci fossero le motivazioni razionalistiche e modernistiche avanzate da Luttwak.

Sed de hoc satis (per ora).

PS. Chissà perché quando penso alla difesa in profondità da parte dei Romani, penso a legionari ed auxilia che attendono l'attacco dei barbari (stile operazione Barbarossa) trincerati su fronti lunghissimi, protetti da bunker, campi minati e reticolati, supportati da artiglieria pesante ed elicotteri, e con alle spalle, pronti alla controffensiva, catafratti e clibanarii su tanks e veicoli da combattimento per la fanteria, mentre i Mauri Feroces proteggono i loro commilitoni dall'alto con le loro forze aeree .. magari fosse stato così facile e lineare.

Ma l'incubo peggiore è la deterrenza romana in stile Luttwak, con missili nucleari Imperiali minacciosamente puntati su Germania Magna, Scythia e Parthia.

Luttwak e l'apparato militare romano

Approfondimento da it.cultura.storia.militare (04/05/03) by Gianfranco Cimino

In questo ulteriore, ed ancora più lungo post, mi dedicherò all'analisi dei capitoli I e II della "Grande strategia dell'Impero Romano" dell'analista americano Edward N. Luttwak. Questo post fa seguito al mio precedente sulla difesa in profondità nel III e IV sec. d.C., e ne riprende talune delle idee, ma può essere anche letto in maniera completamente indipendente.

La scelta di dividere (da una parte I e II sec. d.C., dall'altra fine III sec. e IV sec. d.C.) l'opera di Luttwak, che prende in considerazione un lunghissimo intervallo dal I sec. d.C. al IV sec. d.C., per un totale di circa 400 anni, non è casuale. Infatti Luttwak sostiene che il periodo preso in considerazione dalla sua opera può essere diviso in tre sub periodi:
- Sistema Giulio Claudio degli eserciti mobili e degli stati clienti (30 a.C. - 68 d.C.)
- Sistema delle frontiere "scientifiche" e della difesa di "sbarramento" (68 d.C. - 180 d.C.)
- Sistema della difesa in profondità (180 d.C. - 378 d.C. circa)

Mentre, a mio modesto avviso, la differenza tra I e II sec. d.C. non è tale da richiedere una trattazione separata, mentre una parte del III sec. d.C. (dalla morte di Settimio Severo - 211 d.C. all'accessione alla porpora di Diocleziano - 284 d.C.) la richiede, viste le peculiarità del periodo. Il lasso di tempo che va dal 284 d.C. alla fine del IV sec. è stato invece trattato nel mio post precedente. Ma le ragioni di tale periodizzazione saranno evidenti dal prosieguo della mia analisi, per cui passo senz'altro avanti.

Mi interessa qui prendere in esame i seguenti punti delle tesi di Luttwak, fondamentali per la sua trattazione del I e II sec. d.C.:

- Le cause della superiorità militare romana.
- La scarsa efficacia dell'esercito romano nei conflitti a bassa intensità.
- L'uso dell'apparato militare come forza di dissuasione.

Le cause della superiorità militare romana.
Nell'introduzione alla sua opera Luttwak pone delle premesse, che poi si ripercuoteranno nella sua intera opera, sulla macchina bellica romana. Egli afferma testualmente "Se la forza dell'impero romano fosse derivata da una superiorità tattica sul campo di battaglia, da comandanti più capaci, o da una tecnologia bellica più perfezionata, ci sarebbe poco da spiegare e molto da descrivere. Ma non è così. La tattica dei Romani era quasi sempre efficace, ma non nettamente superiore e il soldato romano del periodo imperiale non era famoso per il suo elan." E ancora "Le armi romane, ben lungi dal'essere universalmente più avanzate, erano spesso inferiori a quelle usate dai nemici, che pure l'impero sconfiggeva con impressionante regolarità". Luttwak passa poi ad esprimere la sua teoria dell' apparato militare come forza di dissuasione, né fa, nel corso dell'opera, un'analisi approfondita di quanto affermato.

Ma noi ci possiamo senz'altro soffermare su quali siano i reali fattori che hanno portato al successo l'apparato militare romano. Io orienterei la discussione su quattro fattori: organizzazione, equipaggiamento, morale ed aggressività.

Organizzazione.
L'organizzazione della legione in coorti è strettamente funzionale: permetteva alla legione di combattere conflitti a "bassa intensità", siano essi le campagne in Spagna o i conflitti endemici lungo il Reno o il Danubio, o ingaggiare "conflitti ad alta intensità", in questa flessibilità è senz'altro superiore al vecchio ordinamento manipolare. Inoltre l'ordinamento coortale, riducendo il numero dei comandanti in seconda del legato da trenta comandanti di manipolo a dieci comandanti di coorte, migliorava la struttura di comando e controllo. Perciò quando Augusto strutturò il suo esercito imperiale conservò questo ordinamento coortale, affiancando alle legioni alae e coorti ausiliarie anch'esse di 500 uomini circa, anche se esistevano,,in numero inferiore, formazioni "milliarie" da mille uomini, e deposte sul territorio imperiale non secondo un "grande piano" teorico, ma secondo le reali necessità locali.

A questo punto devo aprire una breve digressione. Luttwak afferma che la fanteria degli auxiliares fosse essenzialmente una forza di fanteria leggera, complementare alla fanteria pesante legionaria. Ma questo suo punto di vista non è fondato su alcuna fonte primaria: sia le fonti letterarie (vedi ad es. Tacito e la sua descrizione di Mons Graupius nell'Agricola), sia quelle artistiche (la colonna Traiana, dove gli auxiliares sono equipaggiate come fanteria pesante) ci descrivono una fanteria ausiliaria capace di combattere nella linea principale di battaglia, anche se impiegabile, all'occorrenza, per schermagliare. Quando l'esercito romano avrà bisogno di truppe con tecniche di combattimento particolari, verranno creati i "numeri" e le unità etniche o di specialisti (II sec. d.C.). Per un discorso più approfondito su questo argomento rimando all'opera di Le Bohec "L'esercito romano".

Vi è infine da tenere in debito conto la superiorità dell'apparato logistico romano, che permetteva agli eserciti imperiali di poter tenere il campo molto più a lungo dei loro nemici, Germani, Celti o Parti che fossero.

Equipaggiamento
L'affermazione di Luttwak sulla tecnologia delle armi romane ("Le armi romane, ben lungi dal'essere universalmente più avanzate, erano spesso inferiori a quelle usate dai nemici, che pure l'impero sconfiggeva con impressionante regolarità") è quanto meno sconcertante, se applicata al I e II sec. d.C. Ogni soldato regolare romano poteva contare su un equipaggiamento almeno pari, se non migliore, a quello del meglio armato e protetto dei suoi nemici. Una parziale eccezione poteva essere la cavalleria catafratta dei Parti, ma quando Roma decise di dotarsi di una cavalleria analoga la parità qualitativa, se non quantitativa, fu presto raggiunta. Bisogna inoltre considerare che i recenti ritrovamenti archeologici sul vallo di Adriano ci fanno supporre che la fanteria legionaria usasse più di quanto si pensasse equipaggiamento protettivo aggiuntivo per gli arti superiori ed inferiori, derivato dall'equipaggiamento gladiatorio. In questo caso la fanteria romana avrebbe avuto un grado di protezione paragonabile, tenendo conto dello scudo, a quello di un cavaliere Partico smontato. Il tutto senza tenere conto che nel periodo in esame nessun nemico dell'impero aveva le stesse capacità di Roma nella poliorcetica e nella fabbricazione ed uso di macchine da guerra. Ma la questione dell'equipaggiamento non è fine a se stessa: dopo tutto la superiorità tecnologica romana non era decisiva nella stessa misura in cui lo fu quella degli eserciti europei del XVIII e XIX sec. durante l'espansione coloniale. L'importanza dell'equipaggiamento si riflette nell'alto morale di cui disponevano generalmente le forze imperiali nel periodo preso in considerazione.

Morale
Il fattore umano, durante l'età antica, è sempre stato fondamentale, non ci sorprende vedere quindi come fosse cura della macchina bellica romana far sì che il morale dei propri uomini fosse generalmente alto. Era questo elan che permetteva alla fanteria romana di schierarsi in formazioni molto più sottili di quelle della fanteria nemica, specie di quella germanica o celtica, facendo sì che il numero degli uomini che effettivamente combattevano fosse più alto di quello tipico di altre formazioni, barbariche e no (vedi ad es. la falange). A formare e mantenere alto il morale delle truppe concorrevano l'addestramento, la disciplina, l'orgoglio, e la consapevolezza di essere ben equipaggiati, sostenuti e nutriti da un'efficiente macchina logistica, nonché un certo senso di superiorità nei confronti di un nemico ritenuto, forse a torto, inferiore; non per nulla i pur prodi Britanni, che successivamente avrebbero dato ottimi soldati all'impero, erano chiamati Brittunculi dalla truppa di stanza in Britannia. Vi erano anche altri fattori a rendere alto il morale dei soldati imperiali; ad es. era molto raro che vedessero terre romane messe a ferro e fuoco e cadaveri di civili romani, mentre era ben più frequente che la prima esperienza del nemico avuta dai soldati fossero combattenti uccisi o pronti per essere venduti in schiavitù e terre ed insediamenti nemici devastati. Insomma, l'impressione che il singolo soldato riceveva dalla poderosa macchina da guerra romana era tale, il più delle volte, da sminuire, ai suoi occhi, il nemico. Era ben raro, quindi, che il morale di un esercito romano crollasse, ma quando ciò avveniva era la catastrofe, come per l'esercito di Crasso a Carre.

Aggressività
L'esercito romano incoraggiava sia l'aggressività a livello di unità che quella individuale, anche mediante l'uso di decorazioni e premi, in denaro o bottino, molto apprezzati e ricercati dagli uomini. I comandanti osservavano attentamente il comportamento delle unità e dei singoli, e coraggio, aggressività ed iniziativa venivano premiati, codardia ed indisciplina sanzionati, spesso con estrema durezza. La tattica, ma anche la strategia romana, erano basati sull'aggressività; generalmente le forze romane, anche se inferiori, cercavano sistematicamente di strappare l'iniziativa al nemico, cercando di attaccare battaglia prima possibile; questo approccio implicava una grande fiducia dei comandanti nel morale e nell'addestramento delle truppe; essendo l'esercito romano generalmente vincitore, questa fiducia doveva essere ben riposta.

La scarsa efficacia dell'esercito romano nei conflitti a bassa intensità.
Uno dei punti più stressati da Luttwak è quello che l'esercito romano fosse strutturalmente sbilanciato verso quello che l'analista USA definisce "high intensity warfare". Cito testualmente dal para IV cap. I de "La Grande Strategia dell'Impero Romano": ". nel complesso, la superiorità relativa dell'esercito romano si manifestava ancora nella guerra ad alta intensità"; uno strumento militare decisamente poco flessibile dunque. Per lo studioso americano le implicazioni strategiche di tale assunto sono chiare (cito ancora una volta testualmente dal para IV cap. I):". esisteva una ragione tecnica e militare alla base dei limiti geografici dell'espansionismo imperiale".

Una volta di più, però, Luttwak non effettua nessuna analisi dettagliata del suo assunto e delle conseguenze di tale assunto. Ma siamo poi tanto sicuri delle limitate capacità romane nella "guerra a bassa intensità", e che da questo siano derivati i famosi "limiti geografici dell'espansionismo imperiale"? Per cercare di ottenere un risposta passerò qui ad analizzare due campagne condotte dai Romani nel periodo in questione, davvero illuminanti.

La ribellione del Numida Tacfarina in Africa (iniziata nel 14 d.C e definitivamente terminata nel 24 d.C.) è un caso esemplare, in quanto illustra sia la flessibilità dell'apparato militare romano, che lo spirito offensivo che lo permeava a tutti i livelli. Tacfarinas aveva armato ed addestrato un esercito secondo il modello romano; non appena la ribellione scoppiò M. Furio Camillo marciò contro di esso con un esercito ben più piccolo, costituito dalla Legio III Augusta, due ali di cavalleria ausiliaria e qualche coorte di fanteria ausiliaria; nonostante l'inferiorità numerica, una volta ingaggiato il combattimento, i Numidi furono messi in fuga (Tacito, Annales, 2.52). Vista la superiorità romana in una situazione di guerra ad alta intensità, Tacfarina saggiamente si orientò a compiere una serie di raids, conducendo quindi una guerra che Luttwak definirebbe a bassa intensità. Le guarnigioni romane rispondevano a questi raids attaccando sistematicamente coloro che li effettuavano, piuttosto che difendere semplicemente le posizioni loro assegnate. Quando i Numidi stabilirono una base da dove lanciare i loro raids i Romani l'attaccarono e la distrussero (Tacito, Annales, 3. 20-21). Infine i Romani stabilirono una serie di piccole guarnigioni nella provincia, ed organizzarono colonne mobili con cui attaccare e tendere imboscate agli attaccanti. Questa situazione di guerra a bassa intensità andò avanti per diversi anni, ed i Romani riportarono diversi successi su piccola scala, fino a quando Tacfarina fu ucciso ed il suo esercito distrutto in un attacco a sorpresa montato da una colonna Romana contro il suo campo ad Auzea (Tacito, Annales, 3. 73-74; 4.23).

Il conflitto è interessante perché i Romani battettero i Numidi al loro stesso gioco, usando tecniche di raid, attacchi di sorpresa ed imboscata, e cercarono sempre di mantenere l'iniziativa attaccando comunque il nemico; a questi attacchi non parteciparono solo forze ausiliarie, ma anche forze di fanteria legionaria (oltre alla Legio III Augusta fu usata la IX Hispana), che facevano parte delle colonne mobili di attacco (Tacito, Annales, 3.21; 4.23; 4.24). Quindi, nonostante queste tattiche d'impiego non fossero quelle normalmente in uso per la fanteria legionaria, nondimeno Giunio Bleso le applicò con successo, unendo ad esse la tipica capacità romana, derivante dalla superiore logistica, di continuare effettive operazioni militari per lungo tempo, anche durante l'inverno. In molte occasioni, compreso l'attacco finale, nl quale le truppe romane avevano il preciso ordine di "rimuovere" Tacfarina, le più mobili forze numide furo colte di sorpresa da colonne d'attacco romane pesantemente armate ed equipaggiate.

Altro caso esemplare è la campagna condotta da Germanico in Germania. Dopo la sanguinosa repressione dell'ammutinamento del 14 d.C. il generale romano operò una devastante spedizione punitiva contro i Marsi. L'anno successivo le operazioni, che per Tiberio erano forse solo azioni punitive tese a restaurare il prestigio Romano in Germania dopo Teutoburgo e l'ammutinamento del 14 d.C., ma per Germanico potevano preludere all'invasione vera e propria della Germania Magna, ricominciarono all'inizio della primavera (Tacito, Annales, 1.55), quando Germanico e Cecina, operando separatamente ognuno con un esercito basato su 4 legioni, attaccarono i Chatti. Germanico condusse l'attacco principale, prendendo di sorpresa i barbari, devastando il loro territorio e la loro capitale tribale, Mattium, mentre Cecina impediva ai Cherusci di intervenire e sconfiggeva nuovamente i Marsi, che erano invece intervenuti. E' chiaro che a questo punto la coalizione messa su da Arminio era indebolita, e Germanico approfittò di un appello di Segeste, suocero di Arminio, per condurre un attacco contro i Bructeri; nuovamente Cecina marciò (via terra) separatamente da Germanico (via fiume). I Bructeri, sorpresi, furono sconfitti da forze leggere ed il loro territorio devastato, l'acquila della Legio XIX fu ripresa. Successivamente mentre Cecina agiva in avanscoperta in direzione dell'Elba, Germanico marciò su Teutoburgo per dare degna spoltura ai morti romani (un episodio dal carattere propagandistico e non certo strategico). Fu effettuato un tentativo di portare Arminio alla battaglia, che non riuscì, poiché il capo germanico riuscì a ritirarsi ed i Romani subirono anzi una battuta d'arresto durante l'inseguimento (Tacito, Annales, 1. 63). La ritirata di Germanico via mare fu funestata dalle tempeste, mentre Cecina fu attaccato durante la via del ritorno da Arminio (Tacito, Annales, 1. 63), e riuscì a stento a districarsi durante la battaglia cosiddetta dei "ponti lunghi". In effetti le perdite romane, sia pur pesanti, erano da attribuir più all'attrito che all'azione nemica. Nell'anno successivo Germanico effettuò nuovamente simili azioni, riuscendo per due volte a battere Armnio (Idistavisio e campi Angrivarii), ma senza riuscire a catturarlo o a distruggerne completamente l'esercito. Germanico avrebbe voluto proseguire la campagna, ma il più prudente Tiberio ritenne sufficienti i risultati raggiunti e, forse anche per gelosia, richiamò Germanico.

Le campagne di Germanico mostrano come l'esercito Romano sapesse affrontare situazioni in cui il nemico, in questo caso i Germani, avevano una struttura politica ed un'economia difficili da colpire. Non essendoci città da saccheggiare e capitali nemiche da conquistare o altri "beni fissi" da distruggere o di cui impadronirsi, i Romani cercavano di spezzare la volontà nemica di resistenza, devastando il territorio ostile e cercando di uccidere o fare prigionieri (da avviare alla schiavitù) il maggior numero di barbari. Attacchi sui villaggi, sui raccolti e sul bestiame si susseguivano con l'obiettivo di portare il nemico alla battaglia campale, o comunque di rendere una vita normale impossibile. In questa maniera un esercito romano poteva portare la distruzione in un'area più grande di quella che poteva poi effettivamente controllare. Si cercava inoltre di indebolire eventuali coalizioni nemiche colpendo singolarmente una tribù dopo l'altra, e cercando di metterle una contro l'altra. I Romani, inoltre, davano grande importanza alla cattura o alla neutralizzazione dei capi nemici (vedi l'esempio di Arminio). Queste operazioni potevano impegnare molte truppe, anche per minimizzare le possibilità di vittorie occasionali da parte dei nemici, che sarebbero state dannose sul piano psicologico, come lo fu la vittoria di Arminio su Varo, e richiedere diverso tempo, poiché il territorio nemico doveva essere minuziosamente passato al setaccio, ed ogni singolo insediamento o gruppo di armati attaccato e distrutto. Ciò implicava una serie di operazioni su larga ma anche su piccola scala, nella quale l'esercito romano, in particolare le formazioni ausiliarie, mostrò di eccellere. Le lunghe e dispendiose campagne di Germanico sono un buon esempio di questo concetto.

Ma la cosa più importante è che l'obiettivo di tali operazioni non era tanto materiale (ad es. la conquista di una roccaforte), ma psicologico: ottenere il crollo della volontà di resistenza del nemico attraverso il lento ma progressivo logoramento della sua volontà di combattere. La natura stessa degli attacchi romani, massicci ed improvvisi, doveva avere seri effetti sul morale della popolazione avversaria.

E' pericoloso razionalizzare la condotta della guerra in questo periodo, pretendendo che essa fosse decisa da fattori puramente economici; in realtà il conflitto era deciso dalla rispettiva volontà dei contendenti di continuare a combattere. Nel caso della Germania Magna fu la volontà romana a cedere: la sconfitta di Varo persuase Augusto, tutto teso a dare di sé all'opinione pubblica romana un'immagine "pacifica", a rinunziare ai suoi piani di conquista; analogamente la prospettiva di un conflitto lungo e sanguinoso, come fatto intravedere dalle azioni di Germanico, fu sufficiente a far desistere un già titubante (per motivi di politica interna) Tiberio, quando le risorse dell'impero, se maggiormente sfruttate, avrebbero permesso, alla lunga, quella vittoria di cui Germanico appariva sicuro.

Per i Parti basterà osservare che, già sulla difensiva all'inizio dell'Impero, ricevettero tre maggiori invasioni coronate da successo ad opera di Traiano, Lucio Vero e Settimio Severo, perdendo il controllo di molto territorio, tanto che, ove non fosse subentrata la dinastia Sassanide, l'occupazione romana di tutta la Mesopotamia ed il collasso del regno partico apparivano probabili. Anche in queste operazioni militari l'esercito romano mostrò una grande flessibilità, opponendosi con grande successo ad eserciti composti integralmente di cavlleria, per la maggior parte leggera. Mi pare di poter concludere quindi che la tesi di Luttwak sulla scarsa flessibilità dell'apparato militare romano sia infondata, e con essa le motivazioni addotte per i limiti geografici dell'espansionismo imperiale.

Conclusione: l'apparato militare come forza di dissuasione,
Nelle prime due parti del post ho affrontato questioni forse anche minori, ma propedeutiche alla questione più importante: l'apparato militare romano fu davvero impiegato, nel periodo in esame, come forza di dissuasione?

Per rispondere a questa domanda Luttwak prende in considerazione vari fattori, a partire dal ruolo dei cosidetti stati clienti, alla descrizione del Limes, alla distribuzione delle truppe lungo il Limes stesso. Ma questi fattori possono essere interpretati in altra maniera da quella proposta da Luttwak.

Per quanto riguarda gli stati clienti essi esistevano solo in Oriente, giacchè i Germani non avevano strutture statali tali da poter essere stabilmente attratte nell'orbita romana. Gli stati clienti orientali non servivano a proteggere i territori romani contro le minacce "ad alta intensità", che certamente quella dei Parti non era tale, e neanche proteggevano dalle non meglio definite minacce "a bassa intensità", che, tra l'altro, non erano di tale importanza da costringere Roma a mantenere un sistema di stati clienti. Piuttosto si può vedere negli stati clienti dell'Oriente una tappa del progressivo assorbimento di queste piccole entità statali nel mondo romano. Infatti Augusto aveva trovato in Oriente una situazione che era quella voluta da Marco Antonio, che delegava ampiamente i poteri a principi indipendenti. Egli avviò quindi una lenta politica di assorbimento mediante annessione di tali stati, ricordiamo tra gli altri l'annessione della Galazia e quella di una parte del Ponto; questa politica fu portata a termine sotto i Flavi. Comunque le monarchie che ancora sussisteranno, dopo Augusto, in Oriente, non avevano praticamente altra differenza dalle province vere e proprie, che quella di conservarsi l'apparenza (e solo quella) di ordinamenti autonomi di tipo ellenistiche; il fatto stesso che accettassero presidi romani ridimensiona il cosiddetto "spiegamento in economia di forze" descritto da Luttwak

Il concetto stesso di Limes come illustrato da Luttwak è discutibile: il Limes era più inteso come una zona di transito perpendicolare al confine stesso (è questa è l'origine del termine) che una zona di confine come noi l'intendiamo; quindi, con tutta probabilità, specie nel periodo in esame, il termine si riferisce più alla permeabilità, non solo ad azioni stili, ma anche a traffici commerciali, a spostamenti di greggi, di popolazioni e quindi di influenze culturali, che alla impermeabilità del confine romano. Alcune infrastrutture del Limes, invece di vere e proprie fortificazioni, possono essere state delle strutture di controllo dei frequenti traffici commerciali tra l'impero e l'esterno. Ciò è ben esemplificato dalle caratteristiche del Limes nelle zone in cui esso appare di tipo "aperto", come in Africa o in Oriente; in realtà Luttwak da un'importanza spropositata alle zone di Limes "chiuso" (ad es. vallo di Adriano) che erano in realtà minoritarie. Infatti anche il Limes fluviale sul Danubio e sul Reno si può considerare di tipo aperto, essendo sempre stati considerati i fiumi eccellenti vie di comunicazione. Il fraintendimento del concetto di Limes di Luttwak è ancora più evidente se si considera il significato "simbolico" di alcuni elementi morfologici naturali o artificiali quali appunto i fiumi o gli steccati, per la cultura classica. Una semplice palizzata non era tanto una difesa, ma un modo di "delimitare" un determinato spazio o mondo, nel caso quello romano da quello barbarico. Infine Luttwak non prende, ancora una volta, in considerazione gli elementi offensivi al di là del confine, che invece illuminano il caratteristico spirito offensivo romano.

Per quanto riguarda infine la disposizione delle truppe, è facile leggerla in chiave offensiva, anziché difensiva, ed in chiave di soppressione delle minacce interne al mondo romano stesso. Ad esempio lo spostamento di legioni da Occidente ad Oriente dopo l'assorbimento dei regni clienti può essere stato deteterminato dal bisogno di mantenere la sicurezza interna, di fronte alle minacce di rivolte, specie da parte degli Ebrei, o anche da una rinnovata spinta offensiva verso i Parti, che si comincerà a manifestare sotto Nerone e avrà un culmine sotto Traiano. Da notare che, nello stesso periodo, la minaccia dei Parti era praticamente non esistente: dopo la battaglia del Gindaro, e constatata l'impossibilità di avere ragione delle città fortificate romane, l'aggressività dei Parti svanirà, tranne qualche sussulto verso la fine del II sec. - inizio III sec. verso l'Armenia. Non vi era quindi alcun bisogno di dispositivi difensivi, ma tant'è, Luttwak, pur di portare avanti il suo discorso imperniato su una grande strategia romana fondamentalmente difensiva, imperniata sulla dissuasione, trascura tutti gli elementi di segno opposto.

Per ottenere quindi una risposta alla nostra domanda è senz'altro meglio analizzare la storia della politica estera romana, cominciando dai tempi degli scontri con le grandi monarchie ellenistiche. I Romani fecero allora effettivamente uso della forza militare come forza di dissuasione: avevano una macchina bellica soverchiante e la determinazione ad usarla, se necessario, come dimostrato a Pidna, a Magnesia o a Cinocefale. La deterrenza, all'occorrenza la diplomazia coercitiva, avendo anche a che fare con interlocutori che condividevano, tutto sommato, lo stesso sistema di valori dei Romani, funzionavano. Esempio famoso è quello di Popilio Lenate che nel 168 a.C. costrinse il sovrano Siriaco Antioco IV Epifane a ritirarsi senza cogliere i frutti della sua vittoria sull'Egitto. Ma a partire dalla seconda metà del II sec. a.C. le cose cambiano, e la politica estera romana si fa sempre più aggressiva ed annessionistica, anche mediante l'uso di strumenti quali il tradimento, la sovversione, il terrore usato su larga scala come arma militare (pratica questa in cui i Romani sono stati secondi ai soli Mongoli); la riduzione in schiavitù di intere popolazioni, la distruzione di città quali Corinto, Cartagine o Numanzia vengono giustificate dalla necessità di conservare ed ampliare lo stato. Roma ha ora bisogno di rendere accettabile sul piano etico la genesi del proprio Impero, e viene quindi creato e fatto sempre più ricorso al concetto di pax. In nome di questa pax viene giustificato (cfr. Cicerone, De Re Publica III, 23, 35) l'intervento a difesa degli alleati, ma non solo quello; progressivamente, alla luce di questo valore vengono giustificati atti quali il mantenimento di presidi militari, dentro e fuori le province ed i tributi necessari a mantenerle. La pax deve venir difesa non solo contro le aggressioni agli alleati, ma anche nei territori a vario tipo assoggettati, da pericoli quali il brigantaggio, le lotte intestine o le invasioni esterne. A questo punto l'unica pax possibile diventa quella Romana: i nemici della Repubblica vengono piegati, come afferma G. Brizzi "da una forza che precisamente nella pace imposta per suo mezzo trova la propria giustificazione".

Passando dalla Repubblica all'Impero questo concetto viene definitivamente incorporato nell'apparato ideologico imperiale, fino al punto che ogni realtà è considerata "res Romana o res nullius" (Alfoldi, The moral barrier on Rhine and Danube, in "The congress of Roman frontier studies 1949", a cura di E. Birley, Durham 1952). L'unica pace giusta è la Pax Romana, la Pax cruenta, come la chiama Tacito (Annales, I.10.4), ottenuta tramite la vittoria e la conquista contro i "superbi", come li chiama Virgilio, che semplicemente rifiutano di essere dei "subiecti" dell'Impero. Oramai tutti i popoli non assoggettati a Roma sono considerati dei potenziali aggressori a cui imporre la Pax Romana.

E quali siano le conseguenze storiche di questa ideologia è facile vedere; per tutto il periodo da noi considerato l'impero è estremamente aggressivo. All'aggressività mostrata dall'esercito in campo tattico e grande tattico corrisponde una parallela aggressività a livello strategico. Luttwak minimizza le campagne di conquista avvenute dalla fondazione dell'Impero, ma basta paragonare una cartina dell'impero all'ascesa al potere di Augusto (30 a.C.) con una cartina della situazione dell'Impero alla morte di Settimio Severo (211 d.C. - e la cosa sarebbe ancora più evidente se si prendesse una cartina della situazione all'apice delle conquiste di Traiano) per rendersi conto che quasi ogni imperatore ha condotto o fatto condurre campagne offensive, e moltissimi hanno conquistato territori di varia grandezza all'Impero. Tralasciando l'espansionistico regno di Augusto, abbiamo le campagne germaniche patrocinate da Tiberio, Caligola e la Mauretania, Claudio e la Britannia, la campagna in Armenia patrocinata da Nerone, l'annessione degli Agri Decumati e di altre parti della Germania sotto i Flavi, le offensive di Traiano in Dacia e Parthia, l'annessione di parte della Scozia sotto Antonino Pio e le campagne mesopotamiche di Settimio Severo che condussero alla creazione della Mesopotamia romana. Senza tralasciare il pacifico Marco Aurelio, che per sbandierate esigenze di difesa, riprese l'idea della conquista della Germania Magna, e non tralasciò di invadere la Mesopotamia con Lucio Vero ed Avidio Cassio. Ancora sull'orlo della crisi del III secolo Massimino il Trace riprese l'idea di un'invasione della Germania. Sembra salvarsi da questa tendenza offensiva il solo Adriano, forse troppo impegnato ad affogare nel sangue rivolte giudaiche. Spesso si sono presentate le campagne romane, in specie quelle di Marco Aurelio, come "difensive", ancche se condotte per la maggior parte oltre confine; in realtà in quel periodo non vi era nessuna potenza, neanche a livello regionale, che potesse rappresentare una minaccia per Roma: nell'ottica dell'ideologia universalistica romana, però, anche la sola parvenza di aggressività (come quella della Parthia verso l'Armenia) o scorrerie barbare dovevano essere sanzionate con una guerra di conquista.

Non ci fu un marcato spostamento verso la difensiva, come affermato da Luttwak, e quindi la formidabile macchina bellica romana, di cui abbiamo visto i punti di forza e la fondamentale flessibilità fu usata non come uno strumento di dissuasione, ma in maniera offensiva a tutti i livelli, da quello tattico a quello strategico. L'Impero, nel periodo preso in considerazione, circostanze permettendo, cercò sempre di espandersi, più spesso con mezzi diretti che indiretti, e questo non era dovuto ad una "grande strategia", ma ad un imperativo ideologico universalistico ancora vivo ai tempi di Giustiniano.

Infine, alla luce di quanto detto risulta anche chiaro perché ho preferito trattare unitariamente tutto il periodo che invece Luttwak divide in due sottoperiodi; infatti le differenze tra il I sec. d.C. ed il II sec. d.C non sono così fondamentali come afferma lo studioso americano.

Bibliografia
Per le prime due parti del mio post fondamentali sono state le idee espresse nel libro "The Roman Army at War 100 B.C - 200 A.D." di Adrian K. Goldsworthy, Oxford Classical Monographs, Clarendon Press, 1996. Per la terza ed ultima parte fondamentale ed illuminante è stata la lettura di "Il guerriero, l'oplita , il legionario" del Prof. G. Brizzi, il Mulino, Bologna 2002, nonché le idee di B. Isaac, autore di The Limits of Empire: "The Roman army in the East" Clarendon Press, Oxford, 1992.

Come manuale di consultazione sull'esercito romano ho utilizzato "L'esercito romano" di Y. Le Bohec, ed. NIS, Roma, 1992.

Gianfranco Cimino
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