Spesso mi chiedono perché scrivere del Regio Esercito scomparso da oltre 60 anni.
Mi vengono allora alla mente i lunghi, assolati pomeriggi dell'estate 1940 quando, bambino decenne insieme agli amici di giochi gravemente discutevamo della guerra appena iniziata che pure sembrava così lontana.
Tutt'intorno le donne affacciate alle finestre e ai balconi parlavano pigramente dei loro figli sparsi nel mondo a combattere.
Un giorno il tempo si pietrificò, vedemmo tre uomini neri che si affacciavano al cancello del grande giardino teatro dei nostri giochi. Il federale, il parroco, il maresciallo dei carabinieri entravano lentamente mentre il portiere, allacciandosi frettolosamente la giacca, ansiosamente si precipitava verso di loro. Nell'aria il silenzio sembrava assordante, i volti di pietra delle donne guardavano i quattro uomini che lentamente si dirigevano verso un portone, una casa, per portare la morte.
E, subito dopo, l'urlo di belva ferita di una madre il cui figlio non sarebbe più tornato, l'urlo nero, senza fine al quale accorrevano altre donne, altre madri che erano state risparmiate.
Ecco io ho cercato di capire chi, che cosa portassero quegli uomini neri nel giardino della mia infanzia.
Capitolo primo.
Il dopoguerra.
Nell'ottobre 1918 ancora una volta sulla fronte italiana rintronò il colpo mortale. A
Vittorio Veneto
l'Austria non aveva perduto una battaglia, ma aveva perduto la
guerra e se stessa, trascinando anche
la Germania nella propria rovina.
Erich Ludendorff
- La fine della guerra
- La smobilitazione
- I cappellani militari
- L'organigramma del Regio Esercito
- Fiume
- Gli impegni internazionali
- Il malessere dell'esercito
- La lotta tra i generali
- La presa del potere
- Diaz e Cadorna
- Relazione Belluzzo
- Ugo Cavallero
- Pietro Badoglio
- La nascita dello stato maggiore generale
- Rapporto Ferrari
- La caduta di Cavallero
- Gàzzera e Bonzani
- Le riunioni dello stato maggiore generale
- La campagna di Grecia
La fine della guerra
Il 4 novembre 1918, dopo 41 mesi di asperrima lotta, il Regio Esercito aveva disfatto per sempre la potenza asburgica lasciando sul campo 650.000 morti; l'Italia con i suoi 36 milioni di abitanti aveva fronteggiato e abbattuto un antico impero multietnico di 57 milioni di sudditi.
La guerra era stata vinta sul Grappa e sul Piave, annotava nelle sue memorie il generale Raft von Dellmensingerm capo di stato maggiore della 14ª armata austrotedesca: 'Così si arrestò, a poca distanza ancora dal suo obiettivo, l'offensiva ricca di speranze ed il Grappa divenne il monte sacro degli italiani. Di averlo conservato contro gli eroici sforzi delle migliori truppe dell'esercito austriaco e dei loro camerati tedeschi, essi, con ragione possono andare fieri'.
La guerra era stata vinta scriveva Piero Pieri da: 'Migliaia di ufficiali di complemento, eletta espressione della media e della piccola borghesia, italiani che credenti per la prima cosa nella religione del dovere, avevano guidato nell'aspra lotta il popolo italiano condividendone sacrifici e speranze'. La guerra, 'che doveva porre fine a tutte le guerre', era stata vinta dai contadini che si sacrificarono a migliaia in totale obbedienza, per una causa a loro sconosciuta.
Nello stesso tempo l'esercito germanico si ritirava invitto nei propri confini davanti agli eserciti alleati unico esempio forse di un esercito sconfitto senza essere stato battuto sul campo.
La smobilitazione
Alla fine del conflitto, costato 400 miliardi, numerosi furono i problemi che il governo dovette affrontare. La riconversione dell'industria di guerra enormemente dilatatasi, il risanamento finanziario aggravato dagli ingenti debiti verso l'estero, la smobilitazione del gigantesco apparato militare di circa tre milioni di uomini, ammontando gli effettivi, secondo dati
ufficiali (
1), a 3.044.414 tra sottufficiali e soldati e a 185.955 ufficiali. Erano ben 27 le classi che alimentarono l'esercito, dal 1874 ai giovanissimi del 1900.
La 'massa operante' era composta 82.067 ufficiali e 2.150.909 sottufficiali e truppa, la 'massa territoriale' da 103.888 ufficiali e 707.550 sottufficiali e truppa. Per i militari di truppa delle classi più anziane (1874, 1875 e 1876) il congedamento fu iniziato il giorno successivo all'armistizio e entro la fine del 1918 per le classi dal 1877 al 1884. A due mesi dalla fine delle ostilità circa un milione di uomini era tornato alla vita civile, nel marzo 1919 la cifra arrivò a due milioni, ma si dovette arrivare all'estate 1920 per il completamento della smobilitazione. Restarono alle armi circa 300.000 uomini che formarono l'esercito sul piede di pace.
Carattere diverso ebbe la smobilitazione degli ufficiali il cui numero era enormemente aumentato. La necessità di nuovi quadri per le spaventose perdite subite (alla fine del 1915 su 4.600 ufficiali subalterni circa 500 erano deceduti) e per la formazione di nuove unità aveva portato a promozioni più rapide e all'immissione nei ranghi di moltissimi giovani ufficiali provenienti da corsi affrettatamente organizzati.
Alla fine dello stesso anno tutti gli ufficiali in S.A.P. (Servizio attivo permanente) avevano avuto almeno una promozione.
Nei gradi superiori la creazione nei primi mesi di guerra di circa 130 generali e la contemporanea eliminazione di molti ufficiali per 'siluramento', per ragioni fisiche o per morte provocarono le relative promozioni dei subordinati. A fine guerra le perdite tra i quadri furono del 7,5% e tra gli ufficiali di complemento dell'8,2%. Le promozioni furono più rapide per gli ufficiali di fanteria sottoposti a uno stillicidio di perdite superiori alle altri armi combattenti. Nell'artiglieria, con un tasso di eliminati ovviamente minore, furono conseguenza dell'aumento delle unità.
In Gran Bretagna e negli Stati Uniti d'America il problema dell'inflazione dei gradi fu risolto con pragmatismo anglosassone attribuendo 'per le sole ostilità' agli ufficiali promossi a comandi superiori, detti 'gentiluomini temporanei', gradi provvisori.
In Germania si affidò a ufficiali con un grado inferiore unità i cui comandi ne avevano uno superiore in tempo di pace. Il sottotenente Rommel, ad esempio, alla fine della guerra era capitano, pur essendo fregiato dell'ordine Pour le mérite, la più alta decorazione dell'impero germanico.
In Francia Charles De Gaulle fu promosso generale di brigata 'a titolo temporaneo' nei primi giorni del giugno 1940 e andrà in pensione con il grado di colonnello.
In Italia al comando di una unità doveva corrispondere il relativo grado, così creandosi una futura eccedenza di ufficiali, con generali trentottenni come Cavallero. Se nel 1914 l'organico era di 15.878 ufficiali in S.A.P. di cui 178 generali, 2.200 ufficiali superiori, 5.300 capitani, 4.200 tenenti e 4.000 sottotenenti, alla fine delle ostilità gli ufficiali effettivi erano 21.926 di cui 556 generali, 6.360 ufficiali superiori, 8.210 capitani, 6.000 tenenti e 800 sottotenenti. Il ritorno al 1914 avrebbe comportato il congedo di 400 generali, 4.200 ufficiali superiori e 3.000 capitani. Lo spinoso problema non fu mai radicalmente risolto, in pratica l'esuberanza di ufficiali, specialmente di quelli superiori, si attenuò solo con il pensionamento per limiti di età. Come palliativo si inserirono due o tre colonnelli in ogni reggimento e si dirottarono molti ufficiali a dirigere reparti della neo costituita milizia.
Il colonnello Douhet, facendo proprio il principio anglosassone, avanzò vanamente la proposta di mantenere in servizio tutti gli ufficiali con la retrocessione di un grado. La situazione fu descritta da Angelo Gatti ne
Il Corriere della Sera del 29 settembre 1919: 'Insomma, il pletorico e disarmonico esercito che oggi abbiamo, tanti comandanti di corpo d'armata e di divisione, tanti ufficiali incaricati di uffici quasi inutili, tanti servizi non necessari alle truppe, tanti generali e colonnelli a disposizione dei comandi di corpi di armata con compiti di grado assai inferiore (in qualche Comando al posto una volta occupato da un capitano ci sono ora perfino tre colonnelli), tanti soldati che non fanno il loro mestiere (piantoni, attendenti, vice attendenti, ciclisti); che è insomma di così larga e grossa intelaiatura e di così grandi costi, e, così, com'è, di malcerta solidità'.
Viene alla mente Clausewitz: 'Presso l'armata vi sono tre comandanti e due intendenti generali, quando basterebbe un comandante e un intendente'. La smobilitazione, per l'improvviso crollo asburgico affrettatamente organizzata, si svolse con lentezza, disordine, improvvisazione e con macroscopiche ingiustizie, anche per la mancanza di mezzi di trasporto e per il timore di immettere nella vita economica del paese grandi masse di congedati mentre si andava ad affrontare il pesante problema della trasformazione dell'industria di guerra.
I cappellani militari
La smobilitazione riguardò anche i cappellani militari e fu portata a termine nel 1923.
Nell'aprile 1915 Cadorna dispose: 'L'assegnazione di un ecclesiastico oltre che agli ospedali da campo ad ogni reggimento delle diverse armi'. 9000 furono gli ecclesiastici chiamati alle armi, frati, novizi, chierici e seminaristi a cui si aggiunsero 15.000 sacerdoti di cui 2.700 prestarono la loro opera come cappellani militari, gli altri come soldati semplici al fronte o nella sanità. Tra di essi un oscuro prete bergamasco Angelo Giuseppe Roncalli richiamato come sergente di sanità nel 1915 e successivamente nominato cappellano. Nella seconda guerra mondiale gli ecclesiastici furono esenti a norma del Concordato tra Stato e Chiesa.
L'ufficio, esistente in tutti gli Stati preunitari, era stata abolito tra il 1865 e i1 1870 dallo Stato unitario, chiuso nella sua virulenta politica anticlericale, unitamente alla messa domenicale per le truppe e alla dispensa dal servizio militare per i chierici. All'epoca fu anche abolito l'appannaggio di cui godeva Sant'Ignazio di Loyola, nominato generale dell'esercito borbonico, il cui importo veniva corrisposto alla Casa professa dei gesuiti di Napoli. L'opposizione al clero nell'esercito veniva da lontano.
L'esperienza di comando alla guida di un reggimento negli anni 1883-1884 portava il napoletano Niccola Marselli, studioso di filosofia, ufficiale dell'esercito e uno dei maggiori teorici della guerra in Italia, a osservare: '[
] il prete poi è da bandire addirittura. Ligio al Vaticano, non può essere devoto allo Stato italiano; [
] non è per tanto possibile ripristinare da noi i cappellani di reggimento. [
] Né è guari possibile d'imporre l'obbligo della messa, che del resto era una teatrale
parata' (
2).
Contro il mantenimento dei cappellani militari si espressero lo stato maggiore dell'esercito e otto dei dieci comandanti di corpi d'armata con motivazioni economiche e militari che si fondavano non solo sulla laicità dell'istituzione ma anche su un diffuso anticlericalismo; ad essi si associò il ministro delle Finanze De Stefani. Di diverso avviso furono il ministro della Marina Thaon de Revel e Mussolini il quale per la milizia nel gennaio 1923 sostenne: 'Perciò, per la Milizia che dipende da me, li voglio: per gli altri reparti dell'Esercito parlerò a chi di ragione'.
Il problema fu risolto nel 1926 quando il nove marzo al Senato il capo del governo dichiarò: 'Il proposito di restaurazione di tutti i valori spirituali più caratteristicamente italiani [tra essi] quell'assistenza spirituale che, sperimentata suscitatrice di preziose energie morali durante la Grande Guerra, era stata poi ufficialmente abbandonata'. Il vecchio anticlericale pagava così il suo debito alle gerarchie ecclesiastiche che lo avevano sorretto durante la sua marcia al potere.
Il successivo undici marzo venne introdotta la figura dell'Ordinario militare e della Curia Castrense e si inserirono i sacerdoti come cappellani nell'organigramma del Regio Esercito, con il grado e lo stipendio di capitano. Le relative spese furono a carico del ministero della Guerra.
L'organigramma del Regio Esercito
L'esercito sul piede di pace annoverava negli anni 1919-1920 sei armate su due o tre corpi d'armata, a loro volta composti da due divisioni su due brigate o raggruppamenti alpini. Ogni armata aveva un parco di artiglierie costituito da tre raggruppamenti di medio calibro con 18 batterie di mortai da 210 mm., 18 cannoni da 149 A e un raggruppamento di 17 batterie di calibro fino a 305 mm.
Nel luglio 1919 fu costituito l'Ispettorato generale dell'arma di fanteria in analogia con quanto si era fatto per la cavalleria, l'artiglieria e il genio. All'Ispettorato spettava il compito di dare: 'Unità d'indirizzo all'addestramento tattico armonizzandolo coi progressi tecnici delle altre armi'.
Fiume
L'ammutinamento di reparti militari a Fiume costituì la più grave crisi per la compattezza e la disciplina di un esercito da sempre alieno da ogni forma di intervento nella vita politica e i cui ufficiali si ritenevano legati al sovrano da una personale fedeltà. Per la sua gravità va paragonato a quello dell'otto settembre 1943 quando numerosi ufficiali e soldati continuarono a fiancheggiare l'alleato germanico con il quale combattevano da tre anni.
Il 22 ottobre 1919 un reggimento croato, convertitosi alla causa serba, occupò Fiume, Corpus Separatum del regno di Ungheria che da sempre aveva goduto di un'ampia autonomia, disarmando le truppe territoriali ungheresi. Il successivo 30 le autorità fecero, di una città in cui la maggioranza degli abitanti era sicuramente italiana, come riconosceva l'inglese Times e come risultava dall'ultimo censimento asburgico, un grazioso dono al nato governo iugoslavo. Il quattro novembre navi da guerra italiane entrarono nel porto e il 17 dello stesso mese la città fu occupata da reparti italiani della brigata Granatieri agli ordini del generale Grazioli e da reparti francesi.
Vi furono subito dissidi con i francesi i quale ritenevano: 'Il territorio di Fiume parte del territorio che era appartenuto allo Stato ungherese e quindi, fino alla pace, territorio nemico occupato' e continui e spesso sanguinosi incidenti tra soldati italiani, francesi e iugoslavi e tra cittadini italiani e slavi. 'Se la parole sono femmine i fatti sono maschi [
] chi Fiume ferisce, di Fiume perisce' sostenne D'Annunzio con uno dei suoi fulminanti slogan e il 12 settembre 1919 entrò nella città su una Fiat cabriolet rossa scoperta alla testa di 2.600 ufficiali, soldati del primo e del terzo reggimento granatieri e volontari accorsi da tutta l'Italia.
Il numero andò man mano ingrossando con elementi di due battaglioni di arditi della divisione d'assalto, di due battaglioni della brigata Sesia, di un battaglione della brigata Lombardia, di uno di bersaglieri ciclisti, della quarta squadriglia autoblindomitragliatrici con cinque autoblindo. Ad essi si unirono 400 marinai della corazzata Dante Alighieri e delle siluranti Abba, Mirabello e Nullo, i generali Gandolfo e Ceccherini e molti ufficiali e soldati di altri reparti, per un complesso di 60 ufficiali e mille tra graduati e soldati.
Mussolini dalle colonne de Il Popolo d'Italia appoggiò il Vate scrivendo: 'Gli uomini oggi sono a Fiume non a Roma [
] la capitale d'Italia è sul Quarnaro, non sul Tevere', ma in pratica il fiancheggiamento fu molto limitato e prudente. A cose fatte D'Annunzio in una conversazione con il quadrumviro De Vecchi così lo ricordò: 'E il tuo Mussolini? [
] Dov'era il tuo Mussolini durante il Natale di Sangue? Mi sarebbe bastata una sua presenza simbolica; invece anche lui era lontano ed ostile'.
Negli ambienti governativi e nell'opinione pubblica più equilibrata era latente l'imbarazzo quando si pretendeva la Dalmazia, con la sua maggioranza slava, in applicazione del Patto di Londra e Fiume, che non rientrava in quel patto, per il principio della nazionalità. La situazione che andava creandosi per le pretese dei nazionalisti venne lucidamente analizzata in un documento del comando della Terza Armata del gennaio 1919: 'Le eccessive pretese che nell'interno del paese vengono sostenute da chi non conosce nemmeno superficialmente le condizioni delle coste orientali dell'Adriatico nuociono assai alla nostra causa e fanno apparire fondate le accuse che muovono contro di noi. é facile nei comizi richiedere intere province abitate da parecchie migliaia di individui di altra nazionalità, ma non è altrettanto agevole sostenere di fronte agli avversari la giustizia delle nostre aspirazioni, quando costoro dalle parole di nostri stessi connazionali traggono argomenti per dimostrare che l'Italia, dimenticando il suo passato, vuole sostituirsi all'Austria nell'oppressione politica della gente
slava' (
3).
Cadorna così commentò l'avvenimento: 'Il colpo di testa dannunziano per quanto patriottico né sia il movente, è un salto nel buio per il paese. Mi affligge l'esempio di indisciplina dato da soldati e specialmente da ufficiali anche superiori, esempio nuovo nel nostro esercito'. Caviglia, che Cadorna riteneva l'unico generale in grado di sostituirlo, aggiungeva: 'I corpi che direttamente o indirettamente hanno preso parte alla defezione dovrebbero già essere stati sciolti. [
] Tutti gli ufficiali, che sono fuori della legge, cancellati dai ruoli'. Più sfumato fu Thaon di Revel il quale parlò di un 'deplorato episodio' per il quale occorreva però 'risalirne alle cause'.
Segno della confusione dei tempi, in un paese che sembrava più sconfitto che vincitore di una durissima guerra, anche i politici democratici si divisero sull'avvenimento. Alla notizia Nitti alla Camera dei Deputati sostenne: 'Per la prima volta è entrata nell'esercito italiano, sia pure per fini idealistici, la sedizione. Il soldato che rompe la disciplina, sia pure per fini non volgari [
] mette il soldato contro la Patria. Dunque nessuna parola di indulgenza da parte mia'. Giolitti si limitò a commentare: 'L'Italia non è mica la signora Duse'. Di diverso avviso Bonomi in un discorso elettorale a Mantova: '[
] così oggi non sa condannare [il popolo italiano] l'impazienza di coloro che, disobbedendo alla disciplina militare, che deve restare salda e inviolabile, hanno ripetuto nella italiana Fiume il gesto dell'ellenica Creta'.
Il governo corse ai ripari e nominò il generale Badoglio commissario straordinario militare per la Venezia Giulia. Appena giunto a Trieste il vice capo di stato maggiore dell'esercito si rese conto: '[
] che il fermento tra le truppe rimaste fedeli al governo era grandissimo e che, a stento, si riusciva a impedire ad esse di affluire a
Fiume' (
4). Assunse così una posizione di attesa, invitò ufficiali e soldati a rientrare ai loro reparti sotto pena di denunzia per diserzione, circondò la città con reparti presumibilmente fedeli, tentò vanamente di convincere D'Annunzio a desistere dall'impresa e comunicò al presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti l'impossibilità di risolvere l'ammutinamento con la forza.
Nei giorni successivi due battaglioni di una brigata bersaglieri passarono a D'Annunzio e Badoglio chiese al governo di proclamare Fiume italiana o di sostituirlo. Su pressioni del ministro della Guerra conservò lo sgradito incarico sino al 24 novembre dicembre 1919 quando, nominato capo di stato maggiore dell'esercito in sostituzione di Diaz, fu sostituito dal generale Caviglia vincitore della battaglia di Vittorio Veneto e circondato da grande stima nell'establishment militare.
Era stato lo stesso Badoglio a farne il nome: 'E non potrei essere più al mio posto [di capo di stato maggiore dell'esercito] qualora fossi io incaricato della repressione. Io credo che a questo scopo andrebbe bene il Caviglia. Egli ha ascendente sulle truppe e nel suo discorso di Venezia ha preso posizione netta per il governo e contro D'Annunzio. [
] Il Caviglia nominato generale dell'esercito, e quindi soddisfatto, non potrebbe rifiutarsi il comando dell'8ª Armata'. é una di quelle classiche manovre in cui il generale piemontese eccelle. Scarica una patata bollente sulle spalle di un altro, mettendolo in condizioni di non potersi negare. Quando fu invitato ad assumere la direzione della repressione dei ribelli cirenaici non accennerà al 'non potrei essere più al mio posto' di capo di stato maggiore generale e non avrà nessuna remora a tenere i due incarichi.
Fu solo alla fine del dicembre 1920 che reparti dell'esercito, appoggiati dall'artiglieria della flotta, dopo scontri a fuoco che causarono 25 morti tra i soldati e 22 tra i legionari entrarono nella città ponendo fine alla Reggenza italiana del Quarnaro.
D'Annunzio lasciò la città con una delle sue imaginifiche espressioni: 'Gettiamo stanotte un alalà funebre alla città assassinata. E poi restiamo in silenzio e teniamo gli occhi fissi nel buio [
]'. Giolitti, che come primo ministro aveva ordinato l'operazione, commentò: 'Basta grattarlo un po' e viene fuori il poeta'. Il Vate lascerà anche e per sempre la vita pubblica soppiantato da Mussolini, astro nascente della politica.
Su Caviglia, che aveva eseguito gli ordini del governo, si appunteranno gli strali della stampa nazionalistica e fascista per il 'Natale di Sangue'. Del poeta scriveva l'Encyclopaedia Britannica edizione 1937: 'la sua azione aveva salvaguardato gli interessi italiani nella città'.
Gli impegni internazionali
Se da un lato il governo premeva per un sollecito completamento della smobilitazione, dall'altro impegnava l'esercito nell'occupazione di territori, nell'interposizione, separazione e disarmo di opposte milizie che si fronteggiavano in armi e nella tutela della regolarità di numerosi plebisciti europei.
In Belgio la brigata Alpi, in Libia tre divisioni, nei Balcani la 35ª divisione, in Anatolia la 33ª con presidi ad Adalia, Alicarnasso e Konya, in Siria e Palestina circa 10.000 uomini. Altri reparti furono inviati in Bulgaria, nell'alta Slesia, a Vladivostok, in Carelia, sulle coste del mare di Barents e nella zona di Krasnojarsk, in Austria, nel Burgenland, in Carinzia, a Teschen, in Masuria, nelle principali località dell'Albania, nel Palatinato, in Dobrugia, a Gerusalemme, a Istambul per partecipare alla occupazione alleata della città, in Cecoslovacchia per organizzare il nuovo esercito.
Per la Dalmazia, regione difficilmente difendibile con una linea di confine molto lunga e con una popolazione in maggioranza slava, vi furono contrasti tra i capi dell'esercito che non ne vedevano di buon grado l'incorporazione e la marina che premeva invece per estese occupazioni delle coste iugoslave. L'ammiraglio Revel in un suo intervento al Senato sosteneva: 'Senza il dominio della Dalmazia e del suo arcipelago, le aperte, popolose e ricche coste della Romagna e della Puglia saranno alle mercè del nemico'.
Nel clima di tensione si provvide ad allertare reparti alla frontiera orientale, mentre per quelli all'interno continuava l'impiego in sfibranti servizi di ordine pubblico determinati da tensioni e disordini sociali. La questione era antica ed era stata oggetto di ampi dibattiti nel secolo precedente. 'Nessuno ha rilevato ancora il danno enorme che viene all'esercito dall'esser distolto dalle sue normali occupazioni per essere impiegato, in così larga e vastissima misura, nei servizi dell'ordine pubblico. [
] L'Esercito esiste sì ma per il mantenimento dell'ordine ed è ormai completamente a disposizione dell'autorità di sicurezza pubblica' scriveva il generale Pelloux nel 1896.
In Francia il problema fu risolto creando una gendarmeria mobile, in Germania l'alto comando continuò invece ad opporsi con fermezza al servizio ritenendolo deleterio per l'addestramento e il morale delle truppe. Fu solo con la creazione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale che i reparti non vennero più impiegati. La politica degli impegni all'estero ancora una volta creava una discrasia tra la politica estera e lo strumento militare a disposizione. Col tempo e una più esatta valutazione del panorama internazionale, anche alla luce delle difficoltà interne, gli impegni vennero prima ridotti e poi progressivamente cancellati tra alte proteste della Destra nazionalista.
Il malessere dell'esercito
Gli anni del dopoguerra furono anni bui per i quadri dell'esercito. La crisi economica che attanagliava il paese, i disordini sociali, l'incapacità di formare governi duraturi, la sedizione fiumana, la propaganda antimilitarista incisero sul morale dei quadri di un esercito che per quattro anni aveva fronteggiato l'Imperial regio esercito austroungarico.
A questo si aggiungeva la scarsa fiducia della classe dirigente, privata guerra durante del controllo sulle operazioni belliche, nello stato maggiore per la pessima conduzione delle operazioni. Tale fenomeno, comune a tutti i belligeranti occidentali, portava a una riduzione del potere delle gerarchie militari a favore di quelle civili, con la conseguente strenua resistenza delle prime.
I socialisti massimalisti nel programma del 1918 reclamarono: 'Abolizione della coscrizione militare e disarmo universale in seguito alla unione di tutte le repubbliche proletarie nell'internazionale' e si lanciarono in una campagna antimilitarista superficiale e demagogica. L'euforia rivoluzionaria ebbe un ulteriore sviluppo nel XVI congresso nazionale del Partito Socialista Italiano a Bologna nell'ottobre 1919, ove si definì il nuovo programma del partito: 'La conquista violenta del potere politico da parte dei lavoratori dovrà segnare il trapasso del potere stesso dalla classe borghese a quella proletaria, instaurando così il regime transitorio della dittatura di tutto il proletariato'.
Dopo l'inchiesta su Caporetto L'Avanti sostenne: 'I generali devono essere puniti, cacciati, si devono loro sopprimere stipendi, medaglie, pensioni, indennità' e di rincalzo il settimanale Avanguardia del 10 agosto 1919 rivolgendosi ai soldati: 'La vostra forza è nell'ammutinamento'. Pietro Valera nella rivista Comunismo aggiungeva, novello Robespierre: 'Cadorna si è rivelato un vero criminale [
] A me due ore di ghigliottina'.
Una parte della Sinistra, alla quale vanamente si opponevano i riformisti, con un grossolano errore di valutazione ritenne che, nell'Italia dell'immediato dopoguerra, stava maturando una situazione prerivoluzionaria e ai soldati si lanciavano appelli: 'Abbiate care le armi, che esse vi serviranno molto bene nel momento in cui i vostri fratelli, i vostri compagni vi chiameranno all'azione'. Aggiungeva con grintosa virilità il settimanale repubblicano Lucifero nel numero del 23 maggio 1920: 'Gli amici stieno perciò in guardia: le armi sono troppo preziose perché sia lecito farsele togliere dai mercenari del re. Un rivoluzionario disarmato è come un uomo castrato'.
Vanamente Filippo Turati, rendendosi conto delle lacerazioni che si creavano nella società, osservava al congresso socialista del gennaio 1921: 'Noi creiamo la reazione intimidendo, intimorendo oltre misura'. Un comune fallimento unì la Sinistra italiana: 'troppo inetta per andare al potere e troppo inetta a fare la
rivoluzione' (
5) e tedesca ove il socialista Julius Leber al congresso di Magdeburgo del 1929, nazismo alle porte, ammoniva: '[
] che una repubblica in cui esistesse un incolmabile abisso tra le forze armate e la classe operaia non aveva alcuna possibilità di sopravvivenza'.
Le speranze nascevano dalla rivoluzione bolscevica che sembrava estendersi a tutta l'Europa. Nel 1918 si ebbero sanguinosi scontri in Germania tra Spartachisti e truppe regolari e in Finlandia tra bolscevichi e indipendentisti. Nel 1919 un governo comunista si impose in Ungheria da marzo a agosto, in Baviera nell'aprile, in Slovacchia per tre settimane del mese di luglio, a Brema nel successivo settembre.
Sul trattato di Versailles le idee socialiste non si differenziavano da quelle di Mussolini. Turati, in un discorso parlamentare del 26 giugno 1920 dichiarava: 'é inutile dirvi che noi vogliamo soppresso il trattato di Versaglia, perché esso è una abominazione, perché esso è la proprietà privata applicata a tutto il mondo a beneficio di una egemonia'.
L'ottusità di questa politica fu rilevata da Palmiro Togliatti nel corso delle Lezioni sul fascismo tenute a Mosca nel 1935 e pubblicate in Italia nel 1970. Va però osservato che solo il trascorrere del tempo aveva modificato le sue idee. Sulla Rassegna comunista del 15 aprile 1921 aveva tuonato: 'Il fascismo, strepitosamente battuto nell'urna del 1919, dominerà -grazie agli alalà, al piombo e alla fiamma - la situazione elettorale. E' utilissimo che così sia. Nessuna miglior prova della giustezza delle direttive rivoluzionarie dei comunisti. Se la borghesia andrà sino in fondo nella reazione bianca strozzerà la socialdemocrazia, preparerà, - non sembri un paradosso - le migliori condizioni per la sua rapida sconfitta da parte della rivoluzione'.
La Sinistra dimostrò di non avere una politica militare da contrapporre ai partiti borghesi, aspettando il futuro trionfo della rivoluzione per metter mano all'esercito rosso. In una prospettiva comparativa, sia pure in contesti sociali diversi, è interessante notare come i due dittatori che presero il potere in Italia e in Germania approfittarono della stessa situazione politica. Sarà così che Mussolini e Hitler saliranno al potere democraticamente con un voto parlamentare, iniziando il cammino che si concluderà sul lago di Como e nel bunker della Cancelleria di Berlino. Saranno diversi anche nella morte. Il duce in fuga, scoperto su un camion tedesco, morirà davanti a un plotone di esecuzione partigiano indossando un cappotto della Wehrmacht, svuotato di ogni energia; Hitler al suo posto di comando fino all'ultimo, si suiciderà per non cadere nelle mani dei russi ormai alle porte e farà bruciare il suo cadavere.
Alla insipienza dei partiti moderati afflitti da una debilitante faziosità, alla estremizzazione dei partiti della Sinistra affascinati dalla rivoluzione russa, si univa l'acuto disagio di una vastissima parte dell'opinione pubblica da tempo estenuata dal succedersi di governi dalle brevi stagioni, da interminabili conflitti sociali, dall'occupazione delle fabbriche da parte di operai che esibivano armi.
Il rancore, le frustrazioni dei quadri nei confronti della Sinistra, profondi e duraturi, si estesero anche agli altri partiti e aumentarono di fronte all'inconsistenza della politica militare dei governi che si succedevano a ritmo rapidissimo. Dalla fine della guerra all'avvento del fascismo si ebbero dieci ministri della Guerra con una media di uno ogni 135 giorni, in un clima di disinteresse per le problematiche militari.
Un colpo sanguinoso alla dignità di chi aveva combattuto, ai mutilati e alle famiglie dei Caduti fu portato dall'applicazione dell'amnistia ai disertori, sollecitata dalla Sinistra e dal Partito popolare italiano, a molti dei quali fu rilasciata l'attestazione di: 'aver tenuto buona condotta e di aver servito con fedeltà e onore' parificandoli ai combattenti.
Sia permessa l'apertura di una parentesi personale. Il padre di chi scrive, chiamato alle armi col fratello che non tornò, combatté come tanti altri per senso di dovere verso il suo paese. Soldato nella 710ª compagnia mitraglieri del 146° reggimento di fanteria, ferito sul San Gabriele il 30 settembre 1917, nel corso delle operazioni, si distinse guadagnando una medaglia di bronzo della quale è interessante riportare la motivazione: Bonaiti Antonio da Rancio di Lecco (Como) soldato 710 compagnia mitraglieri n. 895 matricola. 'Si offrì volontariamente in pericolosi servizi di pattuglia. Nel combattimento dimostrò sempre calma, fermezza e coraggio. Si distinse per singolare tenacia tenuta alla difesa di una passerella. Canale Mille Pertiche (Basso Piave) 17-18 giugno 1918'. Amici disertori che avevano guadagnato la vicina Svizzera, tornati a guerra finita, usavano beffeggiarlo esibendogli i loro fogli di congedo.
Quando il ministro della Guerra Bonomi invitò gli ufficiali a non indossare la divisa fuori servizio per evitare aggressioni ed oltraggi, tutte le simpatie dei quadri andarono al movimento fascista. Salvemini lucidamente osservava: 'Questo atteggiamento fece più danno ai partiti rivoluzionari di qualsiasi altra cosa'.
Mussolini, tattico finissimo, conscio che solo le forze armate gli si potevano opporre, moltiplicò gli atti di ossequio e di deferenza richiamandosi continuamente a ideali e valori comuni. Con stile lapidario scriveva a metà ottobre 1922: 'L'Esercito nazionale non verrà contro l'esercito delle Camicie Nere per la semplicissima ragione che i Fascisti non andranno mai contro l'Esercito nazionale, verso il quale nutrono il più alto rispetto e ammirazione infinita'.
La lotta tra i generali
L'esercito fu travagliato dalla lotta tra i generali per il potere.
Tra essi Badoglio, forte dell'amicizia di Diaz, con influenti amicizie politiche, in grado di pubblicizzare la sua immagine nei confronti dell'opinione pubblica, con alle spalle sette promozioni per merito di guerra, il formidabile lavoro di riorganizzazione svolto dopo il disastro di Caporetto in qualità di sottocapo di stato maggiore, ignorato nella relazione su Caporetto della Regia commissione di inchiesta sul ripiegamento dall'Isonzo al Piave, si pose in primo piano.
Poiché la legge consentiva ai soli ufficiali col grado di generale dell'esercito di assumere la carica di capo di stato maggiore, grado concesso solo agli ufficiali superiori che, in guerra, avevano comandato un'armata, Badoglio convinse il presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti a modificare la legge dando tale possibilità anche ai sottocapi di stato maggiore. Subito dopo il 24 novembre 1919 ebbe la carica di capo di stato maggiore, mentre Diaz assumeva quella, onorifica, di ispettore generale dell'esercito.
La nomina sollevò la totale disapprovazione tra i generali a lui superiori per anzianità, acuite da gelosie professionali e dalle mai sopite polemiche sulle responsabilità di Caporetto. Successivamente quando tale carica venne declassata e trasformata in quella di capo di stato maggiore centrale, Badoglio vi rinunciò a favore del generale dei bersaglieri Giuseppe Vaccari, continuando a fare parte del Consiglio dell'esercito.
Emblematico della lotta tra i generali fu l'atteggiamento del generale Grazioli aspirante alla carica di capo di stato maggiore nell'ottobre 1919. In un promemoria '
Note sul nuovo problema militare italiano' inviato al presidente del Consiglio Nitti dopo aver raccomandato che: 'Tali note hanno carattere strettamente confidenziale [sottolineato nel testo] e riservate alla Sua persona, perché né il Ministro della Guerra né il Capo di S.M. le conoscono' aggiungeva: 'é questa la sola nota che posseggo, scritta di mio pugno, così che sarei a pregarla di volersi compiacere restituirmela, dopo che V.E. l'avrà letta'. Grazioli descriveva le caratteristiche del capo di stato maggiore: 'Uno spirito libero, giovane, audace, ma nello stesso tempo equilibrato e sicuro, e forte della personale esperienza della guerra, acutamente intravista e intuita, deve presiedere oggi sulle cose militari'. Aveva combattuto in Eritrea e in Libia; dopo aver sostato per 10 anni nel grado di tenente, dieci in quello di capitano e tre in quello di maggiore in due anni di guerra aveva raggiunto a 48 anni il grado di generale di corpo d'armata con promozioni per merito di guerra.
Costituiva un esempio di quanto aveva scritto Gatti: 'Ora i comandanti di corpo d'armata sono i tenenti colonnelli del principio della guerra; hanno preceduto rapidamente innanzi, perché tutti quelli che avevano dinnanzi sono stati silurati, od hanno flottuto sotto lo sforzo'.
La manovra non andò a buon fine e il generale romano dovette accontentarsi del grado di vice capo di stato maggiore generale agli ordini di Badoglio, al quale fu imposto da Mussolini nel 1925. Definito da Badoglio: 'Ambiziosissimo, scivoloso e poco franco' a sua volta confessò un 'larvato disagio' nei confronti del generale piemontese.
La presa del potere
'L'esercito farà il suo dovere, però sarebbe meglio non metterlo alla prova' rispose Diaz a una esplicita domanda del re nella notte del 27-28 ottobre 1922, una data tragicamente ricorrente nella storia del paese. La 'marcia su Roma' fu preceduta da Caporetto e seguita dalla guerra alla Grecia e EL Alamein.
Su questa linea di prudenza si allinearono le alte gerarchie delle forze armate e i quadri intermedi. é però indubbio che 'se messo alla prova' in poche ore l'esercito avrebbe spazzato via le raccogliticce e male armate bande fasciste. Di ciò si ebbe conferma quando il generale Di Giorgio, deputato nazionalista e simpatizzante del partito fascista, in piena Camera qualche mese dopo la 'marcia su Roma' non esitò a dichiarare: 'L'Esercito se fosse stato adoperato avrebbe fatto il suo dovere come ad Aspromonte, come a Fiume'.
L'unico a uscire allo scoperto fu il generale Badoglio il quale, sottovalutando il fenomeno fascista, si dichiarò pronto ad eliminarlo in poche ore. Mussolini, ben dotato di fiuto e acume politico, scrisse: '[
] malgrado tutto noi crediamo che il generale Badoglio si rifiuterà al tentativo inutile di fare il carnefice del Fascismo italiano'. Stupisce in un uomo come il generale piemontese, che dimostrerà in futuro di sapere navigare in tutte le acque, questo grossolano errore di valutazione, lo pagherà con 'l'esilio' in Brasile dove verrà spedito come ambasciatore. L'America del Sud sembrava la destinazione naturale dei generali caduti in disgrazia. Anche De Pinedo fu 'esiliato' in Argentina dopo forti dissidi con Balbo. Ad essi si potrebbe aggiungere il francese generale Mangin dopo le sue mene renane.
I 'Generali della Vittoria' esultarono al suo allontanamento che sembrava preludere al suo accantonamento, ma alla distanza la nuova destinazione gli impedì di schierarsi contro il progetto Di Giorgio e permetterà a Cavallero, chiamato alla carica di sottosegretario alla Guerra, di ottenere il suo rientro per ricoprire la carica di capo di stato maggiore dell'esercito nel 1925.
Il fascismo, che fu il primo movimento reazionario di massa e l'unico movimento totalitario ad arrivare al potere nell'Europa dei vincitori, ebbe tutte le simpatie dei quadri per comuni valori sintetizzati nelle parole pronunciate dal futuro duce nel suo primo incontro con il re: 'Porto a Vostra Maestà l'Italia di Vittorio Veneto'.
Angelo Gatti è a tal proposito chiaro: 'L'avvento del fascismo fu possibile, perché l'esercito fu spiritualmente col fascismo'. Rochat spiega l'atteggiamento dei quadri: 'Non si capisce perché mai gli ufficiali non avrebbero dovuto simpatizzare col fascismo, dopo che per anni la stampa, i comandi, spesso anche il governo li avevano sottoposti a una propaganda oltranzista in politica estera ed interna, mentre l'antimilitarismo socialista e la debolezza dello Stato democratico erano loro indicati come la causa di ogni male per il paese, l'esercito e le loro carriere'.
Si arrivò fino al favoreggiamento che fu evidenziato in più episodi.
Nel settembre 1920 il capo dell'Ufficio Informazioni dello stato maggiore colonnello Caleffi inviava un telegramma agli ufficiali di polizia militare segnalando favorevolmente l'attività dei fasci di combattimento: '[
] che possono ormai considerarsi forze vive da contrapporre eventualmente agli elementi antimilitaristi e sovversivi'. In un telegramma datato 27 maggio 1921 il sottosegretario di Stato agli Interni segnalava al ministro della Guerra che in Toscana: 'Molti ufficiali partecipavano notoriamente a spedizioni più o meno punitive del fascismo e vi sono casi di conflitti in cui anche tra essi vi sono stati due morti e dei feriti Stop'.
Va però sottolineato che il fascismo ebbe l'appoggio non solo delle forze armate ma della macchina burocratica dello Stato, della corte, della Chiesa, dell'alta, media e piccola borghesia, del mondo della finanza e dell'industria. Tra i partecipanti alla 'marcia su Roma' numerosi furono gli ufficiali in P.A.S. (Posizione ausiliaria speciale), tra essi i generali De Bono, Capello, Fara e Gandolfo. Il quadrunvirato era composto da un ufficiale in P.A.S. De Bono e tre di complemento De Vecchi, Balbo e Bianchi. Nel primo governo mussoliniano solo tre furono i ministeri affidati a esponenti fascisti: Giustizia, Finanze e Terre liberate. Vale la pena di ricordare che anche nel primo governo di coalizione retto da Hitler solo due erano gli esponenti nazionalsocialisti.
La nomina di Armando Diaz al ministero della Guerra e di Paolo Thaon di Revel al ministero della Marina fu così commentata: 'In splendida parata, per assicurarsi di un colpo il favore dell'esercito in servizio e dei combattenti in congedo, e anzi di tutta la
nazione' (
6).
Diaz e Cadorna
Il napoletano Armando Diaz fu nominato capo di stato maggiore dell'esercito il 9 novembre 1917 in sostituzione di Cadorna. La designazione fu fatta personalmente dal re e, a posteriori, nel 1923 fu così commentata da Mussolini: 'Scelta con incomparabile acume di chi poteva'.
In una conversazione con Bottai nell'aprile 1937 il re disse: '[
] Altri se ne sono poi vantati; ma Diaz l'ho scelto io. Bisognerà dirle queste verità, un giorno'. Olindo Malagodi, scrittore, giornalista, direttore della Tribuna, nelle sue
Conversazioni della Guerra 1914-1919 riporta le parole dell'onorevole Bissolati: 'La scelta di Diaz fu fatta dal re. Io ero presente quando il re in mezzo al disastro di Caporetto dichiarò: - Per far fronte a questo non c'è che Diaz -. Me lo ricordo bene perché allora io conoscevo poco Diaz e la frase del re mi sorprese'. Così ne tratteggiò la figura: 'L'impressione che egli dà subito è quella di una grande semplicità e modestia congiunta a buon senso ed equilibrio, e con un fondo di finezza, che non si confonde però con la furberia. é subito evidente che egli non ha né voglia né la capacità teorica di drappeggiarsi nelle sue fortune per apparire maggiore della propria struttura'.
Thaon de Revel, che non era per niente tenero con l'esercito, sosteneva: 'Una volta convinto che il problema era solidamente impostato egli acquisiva nel successo finale una fiducia incrollabile che non lasciava scalfire né da assalti oratori né da ondate di pessimismo'. Si potrebbe aggiungere che per Clausewitz era una delle caratteristiche dei capi.
Di parere opposto fu il generale Francesco Saverio Grazioli, ai cui strali nessuno si sottrasse. (Viene alla mente il cinquecentesco Pietro l'Aretino di cui si scrisse: 'Di tutti parlò mal escluso Cristo, scusandosi col dire - Non lo conosco -'). 'Non spiccava affatto per emergenti doti di intelligenza e di uomo di comando, e per il quale nessuno avrebbe potuto prevedere in quel tempo la grande fortuna che poi ebbe'. Rincarò poi la dose sostenendo: 'Fu dalle circostanze favorito al punto di diventare il supremo artefice, almeno nominale, della nostra più grande vittoria. Era mediocre in tutto, meno in quel saggio e prudente equilibrio che piace talvolta. Qualche volta io l'avevo paragonato al sasso che individua la più alta cima del Monte Bianco. Che merito ha di essere lassù? Forze endogene misteriose ve lo hanno sballottato; ma, tant'è, lui segna la cima, l'onore è per lui'.
Il maresciallo Caviglia, che da tenente colonnello nel lontano 1899 nelle manovre estive aveva inflitto a Diaz, allora maggiore, una nota di biasimo, in un primo tempo ha un giudizio positivo per il generale napoletano. Scriverà in un suo libro: 'Di ottimi sentimenti militari e civili, è calmo e sa aspettare. Ha il senso dell'economia delle forze. Di modi affabili e cortesi, sa mostrarsi fermo e anche sdegnoso nei suoi primi contatti con i generali
alleati' (
7). In seguito un suo biografo estimatore riporterà parole diverse: 'Diaz era un brav'uomo e un bravo soldato e si orientava sui principi morali e disciplinari in noi istillati nell'accademia militare. Possedeva un carattere. Per tutta la vita aveva svolto funzioni di segretario, e quello era il suo posto. Non aveva idee proprie ma ripeteva, con garbo, ciò che aveva imparato nelle scuole. Non intese mai bene perché l'Italia aveva vinto a Vittorio Veneto e al Piave ed è morto senza saperlo. Ma aveva la più grande qualità che un uomo possa desiderare: era fortunato! Se all'inizio della guerra fosse stato al Comando supremo, col suo carattere debole, non avrebbe saputo imporre al governo i sacrifici necessari e avremmo condotto una piccola guerra di ripieghi; ma egli succedette a Cadorna in una situazione mediocre [sic!] in cui altro non v'era da fare che aspettare, in un atteggiamento di difensiva passiva che bene si adattava al suo
carattere.' (
8).
Al momento la nomina aveva suscitato profonde perplessità negli ambienti militari e politici. Diaz era un oscuro divisionario promosso al comando del XXIII corpo d'armata da pochi mesi. Nell'esercito vi erano capi dai nomi prestigiosi come Emanuele Filiberto duca d'Aosta, Porro, Pecori Giraldi, Giardino, Caviglia, Petiti di Roreto e Diaz era preceduto in anzianità da almeno una diecina di parigrado. La nomina fu spiegata con le sue doti umane, la conoscenza della psicologia del soldato, la sua duttilità, si definiva: 'il rappresentante militare del governo'. Altri invece sostenevano che il re, ormai convinto dell'imminente crollo dell'esercito, non voleva far cadere su un generale piemontese l'onta dell'armistizio. La tesi era suggestiva e si riallacciava agli antichi contrasti esistenti tra gli ufficiali degli eserciti preunitari unificati nel Regio Esercito.
Alla sua morte Mussolini, al quale non mancavano capacità oratorie, pronunciò commosse parole alla Camera dei Deputati: '[
] comprese che i soldati non erano soltanto dei piastrini di riconoscimento, ma delle anime'. Dì se stesso Diaz scrivendo alla moglie diceva: 'E credi che la guerra l'ho vinta più con le forze del cuore e dei nervi che per le doti di
mente' (
9). A un ufficiale che voleva congratularsi per la vittoriosa conduzione delle operazioni rispose: 'Niente, niente, la guerra è stata vinta dal popolo italiano'.
E' difficile comprendere fino a che punto il groviglio inestricabile delle passioni umane, il miscuglio di gelosia, meschinità, invidia, antichi rancori e rivalità per l'uomo facevano velo e influivano su questi giudizi, sicuramente gravati dalla supponenza e dalla incapacità dei suoi denigratori di afferrare le profonde trasformazioni che la guerra aveva portato. Eredi del pensiero napoleonico, pensavano al capo come a un genio militare, a un titano, riallacciandosi al pensiero clausewitziano: [Il Capo] 'deve possedere due qualità: una intelligenza che, anche in mezzo alla oscurità intensa che la circonda, conservi una luce interna sufficiente a condurla al vero ed il coraggio di seguire questa debole luce. La prima di tali qualità è stata designata con l'espressione - coup d'oeil -, la seconda con la parola - risolutezza -'.
Le differenze fra Diaz e il suo predecessore furono evidenziate anche dal diverso atteggiamento nei confronti dei 'siluramenti' proposti da comandanti in subordine. 'In questi giorni ho dovuto constatare - scriveva Diaz - un sensibile aumento di proposte di esoneri di ufficiali [
] Ho dovuto anche, e con rincrescimento, constatare come diverse di esse sono motivate con semplici apprezzamenti personali e non invece basate su dati di fatto ben determinati. Ora è mia ferma intenzione che in materia così delicata e di così grande importanza si proceda con tutte le cautele e con la massima serenità e ponderazione. [
] Questi continui esoneri, questo colpire inesorabilmente chiunque, e per qualunque motivo abbia errato, toglie ogni serenità di animo, pur tanto necessario nella difficile situazione presente'.
Il nuovo volto della guerra, il suo permeare tutta la vita dei paesi coinvolti aveva invece trasformato il 'Capo' in un uomo che doveva delegare parte dei poteri ai suoi generali, che doveva ottimizzare lo spirito delle truppe. E in questo Diaz eccelleva. Né dà una prova Bissolati: 'Ho conosciuto da prima Diaz, quando era comandante di corpo d'armata, nel maggio 1917, quando si attaccò l'Hermada, ed ho veramente ammirato il modo in cui egli teneva il comando, lasciando l'autonomia ai generali sottoposti, ma nello stesso tempo seguendoli, consigliandoli al telefono'.
Più problematico era Angelo Gatti che scriveva il 15 giugno 1917: 'Diaz di cui tutti, al Supremo [comando], riconoscono la grande intelligenza, è giudicato troppo malleabile: intelligenza meridionale, pronta, vivida, facile, ma adattabile: ciò è quello che gli fa male, perché, come idoneità, è nientemeno che, già da adesso, stimato capace del comando di una
armata' (
10). Dopo cinque mesi era 'stimato capace del comando dell'esercito'.
Diaz sostenne il morale dei soldati con una polizza di assicurazione, con sussidi se necessari, licenze più frequenti, cibo migliore, turni di riposo, una accorta propaganda sui fini della guerra: 'Io non ho mai lasciato i miei soldati in trincea più di sei giorni; e ho sempre dati loro adeguati periodi di riposo. In questo modo si mantengono soddisfatti e contenti [
]'. In questo ricorda Pétain. Sullo stato maggiore aggiungeva: 'Il Comando lo avevo alleggerito assai, riducendolo a un terzo di quello che era prima, ed aumentando invece le responsabilità, i compiti e i poteri dei comandi locali'.
De Morsier, segretario particolare di Sonnino, così lo valutava: 'E poi sta di fatto che il Diaz, uomo di ingegno e di cultura, non si sentiva un vero capo, come era il Cadorna certamente, non ostante tutti i suoi difetti. Egli era un collega fra gli altri generali; e la sua azione si è svolta sempre d'accordo con gli altri: col Badoglio, con Giardino, con Caviglia, che tutti insieme hanno operato benissimo, e concepito un ottimo piano svolto poi ottimamente'.
Il miglior compendio delle sue capacità fu evidenziato da Rochat, mai tenero nei confronti dei militari italiani, quando scrisse: 'Capacità di far funzionare il Comando Supremo in modo adeguato alle esigenze e alle dimensioni della Grande Guerra [
] riordinando il lavoro degli uffici e attribuendo a ciascuno di essi responsabilità ben definite e concrete [
] favorendo la nascita di un clima di squadra nel rispetto dei rispettivi compiti'. Forse non è azzardato, tenendo conto di scenari storici profondamente diversi, ipotizzare una somiglianza col generale Eisenhower.
Queste doti lo differenziavano grandemente dal suo predecessore, insensibile al morale e alle perdite delle truppe, chiuso in una gelida riservatezza, che si poteva condensare nella frase: 'Non ricevo deputati, non ricevo senatori'. Il piemontese Cadorna nel bollettino del 28 ottobre 1917 scaricò la colpa della sconfitta di Caporetto sui reparti della seconda armata: 'La mancata resistenza di riparti della II Armata vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso al nemico [
] di penetrare nel sacro suolo della Patria'. Fino alla morte sopravvenuta nel 1928, tetragono nei suoi convincimenti, pur a conoscenza di nuove documentazioni e testimonianze non cambierà idea e in una lettera al generale tedesco Krafft von Dellmensingen del 22 dicembre 1926 scriverà: '[l'attacco] ha potuto riuscire nella valle dell'Isonzo in grazia di speciali e momentanee circostanze morali delle nostre truppe'.
Su di lui i giudizi furono diversi. Giolitti in una conversazione con Malagodi sosteneva che: 'dai contatti avuti con lui l'ho sempre giudicato di intelligenza mediocre. Quando si doveva creare il nuovo Capo di Stato Maggiore, i candidati erano lui e Pollio; ed io dissi al Re: - Pollio non lo conosco, ma lo preferisco a Cadorna che conosco -. Una sola volta ho lodato Cadorna, ma in questo modo; che dovendosi a un consiglio militare generale passare un giudizio sulle capacità dei nostri generali, io dissi che non c'era che Pollio, e dopo di lui Cadorna. Ma soggiunsi che non intendevo con questo fargli una grande lode, perché tutti gli altri erano sotto zero [
]'.
Caviglia parlò di: 'Un uomo di forte volontà e di carattere fortissimo', Di Giorgio invece: 'Mancava di capacità organizzatrici ed era, soprattutto, un pessimo conoscitore di uomini', a lui si associava Diaz: 'Non conosceva abbastanza gli uomini; non si rendeva abbastanza conto delle loro debolezze, delle loro miserie [
]. Poiché un uomo è fatto di tante cose vanno ricordate di Luigi Cadorna, questo generale della spregiata 'Italietta liberale', una 'Italietta' che aveva saputo condurre la vittoriosa prima guerra mondiale con una determinazione sconosciuta a Mussolini e ai suoi generali, quello che scriveva nel 1916: '[
] qualsiasi operazione, anche se motivata da ragioni essenzialmente politiche, non può che essere subordinata alla sua attuabilità sotto il punto di vista militare. Di questo è giudice il comandante delle truppe operanti, il quale deve ritenersi vincolato soltanto al raggiungimento del fine generale stabilito dal Governo; se dal Governo partono istruzioni particolareggiate e in contrasto con la sicurezza delle truppe, il comandante ha l'obbligo di fare presenti le ragioni militari che sono in opposizione alle istruzioni ricevute: se non venisse ascoltato gli rimane il diritto di domandare l'esonero dal
comando' (
11). Riecheggiava le parole di Napoleone: 'Ogni generale in capo che assuma l'impegno di eseguire un piano di guerra che giudichi cattivo, è un criminale. Egli deve esporre le ragioni per cui disapprova, insistere, dare le proprie dimissioni piuttosto che farsi strumento della rovina dei suoi'.
Al generale piemontese veniva unanimemente riconosciuta una forza caratteriale, una indipendenza di giudizio sconosciuta ai massimi rappresentanti dell'establishment militare italiano nel ventennio. Parole come quelle pronunciate da Badoglio all'indirizzo di Mussolini: 'Sempre nel momento e nella direzione scelta da Voi' gli erano sconosciute.
Relazione Belluzzo
Una incisiva radiografia dello stato dell'esercito fu la
Relazione della sottocommissione guerra e marina della giunta del bilancio sullo stato di previsione della spesa pubblica del ministero della Guerra per l'esercizio finanziario 1924/25 dell'ottobre 1924, che prese il nome di Relazione Belluzzo dal nome del relatore docente del Politecnico di Milano e successivamente ministro dell'Economia Nazionale dal 1925 al 1928.
Premesso che i quadri assorbivano il 28% del bilancio, si rilevava che con l'avvento dell'era delle macchine l'importanza che i mezzi e gli armamenti assumevano era sempre più grande ed era quindi necessaria una riduzione del 50% della forza bilanciata, alla quale andava il 30% del bilancio, per il potenziamento e il rinnovamento delle attrezzature e dei reparti di pronto impiego. Il relatore, pur non essendo un militare, afferrava con immediatezza i radicali mutamenti tecnologici, le innovazioni che richiedevano disponibilità qualitative e quantitative di nuovi armamenti e 'macchine': 'Se alle macchine si dà una importanza almeno pari a quella degli uomini il problema dell'ordinamento dell'Esercito muta radicalmente la propria impostazione [
] che si può così enunciare: organizzare e gestire con criteri di sana economia un'industria nella quale hanno eguale importanza le macchine e le maestranze e che abbia la possibilità di ingrandirsi improvvisamente e rapidamente in caso di guerra'. Mettendo il dito sulle piaghe più purulenti della macchina militare si proponeva lo sfoltimento dei comandi e l'abolizione di centri di ricerche, ospedali, arsenali e opifici ritenendo che il 'privato' con la sua superiore organizzazione potesse meglio fronteggiarne le esigenze. Belluzzo portava ad esempio la situazione ospedaliera con un soldato su trenta ricoverato per un totale di 6.000 unità. La relativa struttura sanitaria era formata da 1150 medici e 8000 tra sottufficiali e soldati con una sproporzione che balza subito agli occhi.
Va osservato che uomini come Belluzzo e Di Giorgio, futuro ministro della Guerra, erano sconfitti in partenza da un apparato militare graniticamente chiuso a difesa dei propri interessi corporativi e culturalmente incapace ad aprirsi al nuovo. Il principio dell'autoconservazione, la difesa delle posizioni raggiunte, dei ruolini di avanzamento facevano dell'esercito una istituzione non diversa dalla grande burocrazia.
Ugo Cavallero
Mussolini, dando un taglio al passato, assunse prima ad interim (4 aprile 1925 - 3 gennaio 1926) e poi come titolare (3 gennaio 1926 - 12 settembre 1929) il ministero della Guerra affidandolo di fatto al sottosegretario scelto nella persona dello sconosciuto generale Cavallero.
Ugo Cavallero era nato a Casale Monferrato nel 1880, ufficiale nel 1900, primo classificato alla Scuola di Guerra nel 1911, come Caviglia aveva interessi culturali fuori del comune per l'ambiente militare dell'epoca, laureato in matematica pura, tradusse pubblicazioni dall'inglese, dal tedesco, dal francese e dal latino. Dopo aver combattuto in Libia, fu chiamato all'inizio del conflitto con il grado di capitano all'Ufficio Informazioni dello stato maggiore dell'esercito. Successivamente Diaz lo nominò capo dell'Ufficio Operazioni nel quale collaborò strettamente con Badoglio fino alla vittoria.
Di lui Caviglia nel suo Diario scrisse: 'Cavallero era il miglior bue della stalla'. Dopo l'armistizio di Villa Glori a soli 38 anni era il più giovane generale dell'esercito. Non avendo nessuna possibilità di carriera per il gran numero di ufficiali superiori che lo precedevano lasciò il servizio attivo nel 1920 passando alla 'posizione ausiliaria speciale' ed assumendo cariche dirigenziali presso il complesso industriale Ansaldo fino a quando non fu richiamato da Mussolini.
Pietro Badoglio
Pietro Badoglio, 'promosso sette volte al grado superiore per merito di guerra' come si legge nell'Enciclopedia Militare, Marchese del Sabotino dal gennaio 1929, Collare dell'Annunziata nello stesso anno, duca di Addis Abeba nel 1936, presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche rappresentò per la monarchia, l'esercito e il paese per oltre 25 anni un rassicurante punto di riferimento.
Piemontese, nato nel 1871 a Grazzano Monferrato da una famiglia della borghesia terriera delle Langhe, sottotenente di artiglieria nel 1890, partecipò all'ultima fase della campagna d'Africa dopo Adua e a quella di Libia dove guadagnò una medaglia di bronzo e la promozione a maggiore per merito di guerra. Ufficiale di stato maggiore, all'inizio della guerra col grado di tenente colonnello assunse la carica di sottocapo di stato maggiore della seconda armata. Nel 1916 fu promosso colonnello e poi maggiore generale a seguito della presa del Sabotino. L'anno successivo comandò il secondo e poi il XXVII corpo d'armata e per merito di guerra ottenne la promozione a maggiore generale e una medaglia d'argento.
La sua carriera poteva essere conclusa con la battaglia di Caporetto in cui fu polverizzato il suo corpo d'armata. La battaglia pose fine alla carriera dei suoi superiori Cadorna e Capello comandante della seconda armata, di Cavaciocchi comandante del IV corpo d'armata e alla vita del generale Villani comandante della XIX divisione, il quale si suicidò disperato congedandosi dal suo capo di stato maggiore con un biglietto: 'Lascio a lei di proseguire il terribile compito. Io non ne posso
più'. (
12)
Per un incredibile colpo di fortuna Diaz, nuovo capo di stato maggiore, lo chiamò presso di se al comando supremo dove assunse la carica di sottocapo di stato maggiore e riorganizzò l'esercito con un lavoro eccezionale, coadiuvato da Cavallero capo dell'ufficio operazioni. Diaz e il governo si opposero a ogni tentativo di coinvolgere Badoglio nell'inchiesta sul disastro di Caporetto, inchiesta che Cadorna aveva iniziato e non portata a termine per il suo esonero dalla carica di capo di stato maggiore. La collocazione tra i generali della Vittoria, eroi nazionali, lo metterà al sicuro da ogni conseguenza e infatti la Regia commissione di inchiesta non gli rivolse addebiti di sorta.
Va ricordato che il generale piemontese non scrisse né lasciò documenti o appunti su Caporetto a differenza di altri generali. Pure nel corso della sua carriera fu un fecondo scrittore con pubblicazioni che spaziavano dall'artiglieria all'economia nazionale. I suoi libri
La guerra in Etiopia (1936),
Rivelazioni su Fiume (1946),
L'Italia nella Seconda Guerra Mondiale (1946) ebbero un notevole successo ma neppure alla sua appassionata biografa Vanna Vailati, la quale mise per iscritto i suoi ricordi, fece confidenze sui drammatici eventi dell'ottobre 1917 il cui ricordo, a distanza di anni, ancora è fonte di polemiche.
Badoglio non enfatizzò mai la carica di capo di stato maggiore generale che tenne su toni dimessi. Intervistato da
Il Corriere della Sera nel maggio 1925 sostenne che: 'Questa specie di Giove che governa dalla cima dell'Olimpo le azioni di terra, di mare e di cielo finirebbe in pratica di perdere da tanta altezza la visione di quanto accade di fatto sulle superfici da lui dominate. Stiamo al sodo'. Stette al sodo e cominciò ad eliminare tutti coloro che potevano dargli fastidio. Caviglia, che chiamava 'professore Seneca' e Giardino vennero emarginati, nel 1925 per la scelta del sottocapo di stato maggiore definì Grazioli, considerato uno dei più brillanti generali dell'esercito, ambiziosissimo, di carattere scivoloso e poco franco, Vaccari svanito, Ferrari buon elemento ma senza più prestigio.
In Libia era iniziata l'inimicizia tra Badoglio e De Bono e poco dopo quella con Graziani che pure, su sua proposta, era stato promosso generale di corpo d'armata per merito di guerra. I dissapori tra Badoglio e Graziani si svolsero in tono minore, fomentati da De Bono che, nella sua qualità di ministro delle Colonie scriveva a Mussolini il primo aprile 1930: 'Da esso [Graziani] vedo il nuovo stile di governo, l'intuizione della situazione e la sicurezza della riuscita. Speriamo soltanto che Badoglio lo lasci fare'. Paternamente il generale piemontese scriveva a Graziani: 'Purtroppo il tentativo di gettare zizzania tra di noi ha avuto origine dal ministero. Per conto mio lei è sempre il Graziani che conosco dal 1922 e col quale ho sempre lavorato in perfetta armonia'. Applicando questa 'armonia', durante le operazioni militari in Etiopia lo relegò in Somalia, un fronte defilato battezzato 'fronte Sud', con funzioni prettamente difensive, ma il tentativo non riuscì.
Il capo dello stato maggiore generale non amava avere conti in sospeso e all'inizio della campagna di Etiopia, dopo aver messo in luce più volte i limiti di De Bono nelle riunioni dello stato maggiore generale e presso Mussolini, lo sostituì nella conduzione delle operazioni, da cui ritrarrà un ancora più grande prestigio. All'epoca della preparazione della guerra etiopica scrisse di De Bono: 'Secondo me lo sforzo fatto ha non poco esaurito le riserve di S.E. De Bono. A vederlo in molti, troppi momenti, dà l'impressione di un uomo stanco, quasi sfinito'. Dopo averlo sostituito nel comando, valutò il suo capo di stato maggiore Gabba: 'lavoratore da tavolino' e il generale Dell'Ora: 'molto ambizioso e che occorre saper domare'.
Uomo dai rancori fortissimi aspetterà fino al 1943 per saldare, e questa volta per sempre, i conti con Cavallero suo acerrimo nemico. Dopo averlo fatto arrestare due volte, all'atto di abbandonare precipitosamente Roma ai tedeschi dopo l'otto settembre lasciò o dimenticò come scrisse la contessa
Vailati (
13) sul suo tavolo di lavoro un memoriale di Cavallero, che tentava di dimostrare il suo impegno antifascista.
Ma se il Marchese del Sabotino e Duca di Addis Abeba si muoveva con questi princìpi, anche Paolo Thaon di Revel, Duca del Mare e il trasvolatore dell'oceano Italo Balbo non erano da meno. L'ammiraglio nel 1919, scrive Ezio Ferrante nel suo
Il Grande Ammiraglio in un memoriale indirizzato al ministro della Marina: 'traccia un quadro non certo confortante dei capi navali italiani [
] per l'attribuzione della ambita carica di comandante della flotta'. Il viceammiraglio Cutinelli Rendina viene giudicato: 'non ulteriormente idoneo agli alti comandi navali', il viceammiraglio Cerri di: 'eccessiva mitezza
[reo]
di accettare come fatali certi fatti che un'azione energica e tempestiva avrebbe facilmente evitato', il viceammiraglio Corsi 'per ragioni di opportunità', il viceammiraglio Cagni 'non possiede sufficiente equilibrio'. Anche per il viceammiraglio Millo il giudizio non era diverso. D'altronde il duca sosteneva che nella guerra in Adriatico aveva dovuto badare prima agli ammiragli italiani, poi ai francesi, britannici e americani e infine agli austriaci: 'I quali nei loro bollettini di guerra si mostravano più onesti apprezzatori dell'opera nostra'.
Italo Balbo, sottosegretario all'Aeronautica dal 6 novembre 1926 all'11 settembre 1929 e ministro dal 12 settembre 1929 al 6 novembre 1933, si limitò invece ad eliminare Nobile e i generali Piccio e De Pinedo, per il quale, caduto nel tentativo di battere il record mondiale di distanza con un volo senza scalo New York - Bagdad, non ritenne opportuno partecipare ai funerali svoltisi a Roma.
Fu dal 1929 al 1934 che Badoglio tenne la carica di governatore della Tripolitania e della Cirenaica, che all'epoca e fino alla nomina di Italo Balbo costituivano due distinte colonie, conservando la carica di capo di stato maggiore generale.
Nella lettera che scrisse a Mussolini il 18 dicembre 1928 ribadì l'oggetto della conversazione del giorno prima. Tra l'altro precisò: 'Io continuerei a ricoprire la carica di capo di stato maggiore generale. Non trovo nessuna difficoltà ad esercitare questo comando pur non rimanendo a Roma. La questione essenziale è la compilazione dei piani di guerra, e questa parte può essere svolta per corrispondenza con i capi di stato maggiore ed integrata da qualche riunione da farsi a Roma quando verrei in licenza e per motivi di servizio'. Le operazioni in Cirenaica condotte con mano ferrea si conclusero con il crollo della resistenza senussita e l'impiccagione di Omar el Muktar che ne era il capo carismatico.
Successivamente negli anni 1935-36 fu comandante superiore in Africa Orientale, presidente del Consiglio nazionale delle ricerche, del Comitato nazionale per l'indipendenza economica e della Commissione studi delle materie fondamentali per la difesa.
Prescindendo da ogni considerazione sul concetto che il duce e Badoglio avevano della carica va osservato come si cominciasse ad instaurare una prassi nefasta che avrebbe raggiunto il suo punto massimo durante la seconda guerra mondiale.
Dal luglio del 1940 al successivo febbraio il capo di stato maggiore dell'esercito Graziani prenderà il comando delle forze armate in Libia, il sottosegretario alla Guerra Soddu avrà il comando dell'esercito in Albania dal 30 novembre al 30 dicembre 1940, sostituito da Cavallero nuovo capo di stato maggiore generale dal 31 dicembre 1940 al marzo 1941.
Il capo di stato maggiore dell'aeronautica Pricolo sarà spedito in Albania il primo novembre 1940 'a portare una lettera autografa [di Mussolini] al generale Visconti Prasca'. Secondo Pricolo il duce fu soddisfatto perché a metà novembre lo rimanderà in Albania 'in veste di
informatore' (
14). E soddisfatto doveva essere se parlando con De Vecchi, comandante dello scacchiere egeo, gli disse: 'Guarda cosa mi scrive dall'Albania quel galantuomo di Pricolo. Questa è la verità dei
fatti' (
15). Il 'galantuomo' sarà a sua volta silurato un anno dopo.
Si creerà così una pesante situazione nei rapporti gerarchici con stati maggiori privi dei titolari impegnati in prima persona nella conduzione delle operazioni in determinati teatri operativi.
La nascita dello stato maggiore generale
Su insistenze di Cavallero, Badoglio richiamato dal Brasile, fu nominato il 4 maggio 1925 capo di stato maggiore generale. La carica di nuova istituzione incorporava quella di capo di stato maggiore dell'esercito ed era riservata ai marescialli d'Italia e ai generali dell'esercito. Costituiva il primo grado della gerarchia militare alle dirette dipendenze del capo del governo. Il generale Grazioli fu nominato vice capo di stato maggiore generale, carica che mantenne fino al primo febbraio 1927, quando venne abolita. La nomina fece una vittima, il generale Cavaciocchi che, dopo il tracollo di Caporetto, era stato rimosso dal comando del IV corpo d'armata. Saputa la notizia mentre in palestra tirava di scherma gridò: 'Quel traditore' e crollò al suolo fulminato da un colpo apoplettico.
Badoglio e Cavallero erano legati da amicizia personale, Badoglio scriveva a Cavallero dal suo esilio brasiliano: 'Con quanta unità di vedute e spirito di affezione reciproca noi abbiamo lavorato insieme in momenti ben più gravi'.
Relativamente giovani, rispettivamente 54 e 55 anni, piemontesi, ambiziosi e capaci avrebbero potuto portare avanti il rinnovamento dell'esercito in piena libertà.
Il problema dell'alto comando delle forze armate non era mai stato affrontato in precedenza per le ristrettezze culturali e per lo spirito particolaristico e le gelosie che dividevano i vertici militari, ma lo stesso avvenne anche in nazioni militarmente più avanzate. Solo la Gran Bretagna arrivò a una soluzione prima dell'Italia, è del 1923 la costituzione dello Chiefs of staff committee, nato come sottocomitato del Comitato di difesa imperiale. In Francia si dovrà arrivare al 21 gennaio 1938 per l'istituzione del Chef d'état major de la Défence nationale.
Per la prima volta nella persona di Badoglio si assommava un potere che nessun militare aveva mai avuto e sempre per la prima volta si affermava il coordinamento tra le tre forze armate. Mussolini aveva già anticipato le sue decisioni un mese prima quando al Senato osservò: 'Una deve essere la mente che presiede alla preparazione militare, una la mente che formula il piano complessivo delle operazioni di guerra'.
Il capo di stato maggiore generale dipendeva dal presidente del Consiglio dei ministri per lo studio e le disposizioni necessarie per la coordinazione dell'organizzazione difensiva dello Stato, per le operazioni di guerra e per l'esecuzione delle deliberazioni della Commissione suprema di difesa e dal ministero della Guerra per la preparazione dei quadri, delle truppe e dei mezzi dell'esercito. Provvedeva alla preparazione dei piani di guerra dando 'direttive di massima' ai capi di stato maggiore della Regia Marina e della Regia Aeronautica. Nella sua qualità presiedeva il Consiglio dell'esercito dal quale era escluso il ministro ed emanava disposizioni al suo stato maggiore che non dipendeva più dal ministero e che perdeva l'appellativo di 'centrale'. Restava però insoluto il problema dell'alto comando in guerra.
Segno del miope attaccamento al passato furono le dimissioni del ministro della Marina Thaon di Revel che si era opposto con la massima energia, ma vanamente, alla nuova carica. Non era nuovo a simili atteggiamenti, già nell'ottobre 1915 aveva lasciato la carica per divergenze sulla conduzione delle operazioni marittime e nel novembre 1919 per protestare contro la politica governativa sulla questione jugoslava, essendo un convinto assertore della necessità di fare dell'Adriatico 'un lago
italiano' (
16). Il re commentò: 'L'ammiraglio ha sempre le dimissioni in tasca'. Nello stesso tempo gli venne conferito il titolo di Duca del Mare e il grado di grande ammiraglio per equipararlo al nuovo grado di maresciallo d'Italia. Acidamente commentò: 'Mussolini mi ha fatto grande ammiraglio di una piccola marina, avrei preferito essere piccolo ammiraglio di una grande marina'.
Aveva rifiutato il titolo di marchese offertogli in precedenza asserendo che: 'Sarebbe troppo poco per la Marina rispetto al titolo di Duca della Vittoria attribuito al generale Diaz, in fin dei conti la Marina non ha mai avuto una
Caporetto' (
17). Si potrebbe aggiungere che non aveva mai avuto una Vittorio Veneto. Va rilevato altresì che già nel 1924 si era dichiarato contrario alla paventata unificazione dei dicasteri
militari (
18).
Torna però a suo merito l'essere stato forse l'unico dei massimi esponenti delle forze armate dell'Italia fascista pronto a presentare le dimissioni quando non condivideva decisioni governative. Il Duca del Mare conservò una grande influenza nel ministero, ove era titolare di un ufficio 'ad personam', tanto da essere destinatario, ancora nel 1943, delle comunicazioni riservate della Regia Marina, prima del sottocapo di stato maggiore e del comandante in capo delle forze navali. Era 'cugino del Re' essendo insignito del Collare del Supremo Ordine della SS. Annunziata e col re aveva una frequentazione settimanale. La sua autorevolezza rimase intatta nei tempi tanto che nei giorni convulsi dell'armistizio a lui si rivolse il frastornato ammiraglio De Courten per esporgli il dilemma tra la resa e l'autoaffondamento della flotta, ricevendone queste parole: 'La Marina deve eseguire gli ordini di Sua Maestà'.
Sul problema del capo di stato maggiore generale tornò nella seduta del Senato del 18 maggio 1925 unitamente agli ammiragli Amero d'Aste e Cito di Filomarino: 'Ricordo che per il coordinamento delle tre armi c'è la Commissione suprema di difesa', ricevendone in cambio da Mussolini una sensata risposta: 'Non potrà mai fare nulla. E' troppo numerosa'. Al duce si aggiunse Caviglia: 'Troppo numerosa. 22 persone non vinceranno mai una battaglia'.
Contro il ministero unico si schierò anche l'autorevole
Corriere della Sera, il cui direttore Luigi Albertini, una delle voci più autorevoli del giornalismo italiano, sottoposto ai violenti attacchi di Farinacci, avrebbe tra poco dovuto lasciare il giornale. In un editoriale non firmato del 17 maggio 1925 si osservava: 'Il quale [il ministro dei ministeri riuniti] dovrà fatalmente nella maggior parte dei casi, lasciare fare ai sottosegretari, con l'inconveniente che costoro avranno più o meno le responsabilità e il peso del lavoro di ministro, senza la relativa
autorità' (
19). La qual cosa di fatto si ebbe con Mussolini ministro delle tre forze armate.
L'ascesa di Badoglio fu così commentata dal generale Enrico Caviglia alla data del 14 giugno 1925 nel suo
Diario: 'Il nuovo comando dell'esercito si era costituito con un processo di agglutinamento, vi sono certi gruppi di militari che si attraggono, legati a filo doppio dalla viltà militare e dall'utile
immediato' (
20). Erano parole che ricalcavano quelle di Massimo d'Azeglio, uno degli artefici del Risorgimento nazionale: 'In alto gli asini sono tremendi, fanno moralmente razza e moltiplicano, togliendo il modo di non essere asino a chi pure ci si sforzerebbe'. Caviglia si rivolse a Mussolini con parole profetiche: 'Vostra Eccellenza ha nominato Badoglio capo di stato maggiore generale. V.E. non conosce Badoglio. Badoglio fu il responsabile di Caporetto [
] ma questo interessa il passato. Per l'avvenire dico che Badoglio sarà certo la rovina dell'esercito, della monarchia e dell'Italia'. Nel gennaio 1943 il giudizio non era cambiato: 'Nessun contrasto [con Badoglio] io non lo stimo e non mi fido. Lo considero un cane da pagliaio che va dov'è il boccone più grosso'.
Nel 1927 la carica venne svuotata di ogni potere con un brusco ritorno al passato. La subordinazione di Badoglio, superiore in grado, a Cavallero che in pratica svolgeva le funzioni di ministro della Guerra, essendo Mussolini oberato da numerose incombenze, aveva creato una situazione di attriti e gelosie. Prendendo spunto dal riordinamento della presidenza del Consiglio, nel processo di trasformazione dello Stato parlamentare in regime, con la legge 5 febbraio 1927 furono ridimensionati i poteri del capo di stato maggiore generale.
La legge, opera di Cavallero, lo stesso che nel 1941 richiederà più estesi poteri quando in circostanze drammatiche assumerà a sua volta la carica, stabiliva che il capo di stato maggiore generale era l'alto consulente del capo del governo: 'per quanto concerne la coordinazione della sistemazione difensiva dello Stato per eventuali operazioni di guerra e, uditi collegialmente i capi di stato maggiore delle forze armate, le linee generali del piano complessivo di guerra'. I poteri del capo di stato maggiore generale venivano così svuotati di contenuto perché, una volta approvate dal capo del governo le sue proposte, queste venivano trasmesse direttamente ai competenti ministri e da questi ai capi di stato maggiore delle tre forze armate sui quali perdeva ogni autorità. Per la carica di sotto capo di stato maggiore generale si dovrà arrivare al maggio 1940.
Il problema della conduzione delle tre forze armate in guerra veniva ancora una volta accantonato, l'articolo dieci della legge recita: 'In tempo di guerra il capo di stato maggiore generale eserciterà le attribuzioni che saranno stabilite per la sua carica dal governo'. La scelta non veniva più limitata all'esercito ma estesa alla marina e dal dicembre 1933 anche all'aeronautica: 'Alla carica di capo di stato maggiore generale può essere destinato un maresciallo d'Italia, un grande ammiraglio, un generale di armata, un generale designato di armata, un ammiraglio di armata, un ammiraglio di squadra comandante designato di armata, un generale di corpo d'armata, un ammiraglio di squadra, un generale di squadra'. Ne veniva esclusa la Milizia pur essendo il suo massimo grado, comandante generale, equiparato a generale di corpo d'armata. Veniva ricostituita la carica di capo di stato maggiore dell'esercito con la denominazione di comandante del corpo di stato maggiore alle dipendenze del ministro della Guerra e con il compito di dirigere gli studi alla preparazione della guerra, coadiuvato dal comando del corpo di stato maggiore, le cui tabelle comportavano 34 colonnelli, 170 tenenti colonnelli o maggiori, 164 capitani. Il drastico ridimensionamento dei poteri di Badoglio si evidenziava anche dal fatto che non poteva conferire con i capi di stato maggiore delle tre armi ma solo tramite i rispettivi ministri.
Canevari così commentò la nuova situazione creatasi: 'Le tre forze armate andavano ciascuna per proprio conto: erano divise da alte paratie stagne e il capo del Governo, fedele alla tattica di dividere per imperare, si guardava bene dall'ordinare la fine di quelle assurde e dannose rivalità'. Le sue parole erano avallate da Mussolini che nel 1924 aveva assicurato: 'L'autonomia perfetta e rispettata di tutte le forze militari della Nazione per quel che concerne la loro preparazione tecnica e il loro impiego tattico e anche strategico in caso di guerra'.
Badoglio, come scriveva il generale Fernando Gelich, che nel 1950 farà parte del Tribunale militare che giudicherà Graziani: 'Diventava una specie di oracolo, messo in una nicchia ben circoscritta, per fornire i suoi lumi e qualche altra
direttiva' (
21), e il vecchio, acuto generale Pecori Giraldi aggiungeva che era stato posto da Cavallero: 'tanto in alto che non conta più niente e non è in contatto con nessuno. La sua stessa corrispondenza deve passare sul tavolo del ministro della Guerra cioè di
Cavallero' (
22). Pecori Giraldi, era un toscano mordace; affetto da una precoce sordità sosteneva che quel poco che sentiva lo capiva prontamente, mentre altri che sentivano tutto non capivano niente. La sua sordità era fonte di battute. Quando la casa dove era posto il suo comando di generale di divisione venne semidistrutta da un proietto di artiglieria sembra che abbia gridato 'avanti!'.
Lo staff del capo di stato maggiore generale, che aveva sede nel Palazzo del Viminale, era ridottissimo. Tre colonnelli e tre capitani o gradi equivalenti, due per ogni forza armata, diretti da un colonnello del corpo di stato maggiore dell'esercito o da un ufficiale di grado corrispondente della marina o dell'aeronautica, al quale si aggiungeva personale esecutivo, compreso gli scritturali, per un totale di venti elementi in tutto, personale addirittura scelto dai ministri dell'arma di cui faceva parte. Capo dell'ufficio chiamato Segreteria fu nominato il colonnello Alberto Ponza di San Martino a cui successe dall'ottobre 1928 il colonnello Efisio Marras. Quest'ultimo dovette fronteggiare una manovra del ministro della Guerra Gàzzera che voleva sistemare l'ufficio in locali meno prestigiosi.
Nel febbraio 1935 lamentando che il personale era estremamente ridotto Badoglio richiese al sottosegretario alla Guerra che venisse integrato con un altro ufficiale. La Segreteria non teneva un diario e non presentava relazioni annuali, la raccolta delle informazioni si basava unicamente sui notiziari del Servizio informazioni militari (S.I.M.). Approfittando di questa situazione i tre capi di stato maggiore trattavano direttamente con Mussolini ignorando il loro superiore.
L'imperturbabile generale piemontese si adattò apparentemente a questa situazione. Nella seduta del cinque giugno 1940, a cinque giorni dall'entrata in guerra, convocò i capi di stato maggiore dell'esercito, della marina e dell'aeronautica dei quali nessuno vedrà la fine del conflitto nel grado. Cavagnari sarà silurato dopo sei mesi, Graziani dopo otto e Pricolo dopo 18. Saranno preceduti da Badoglio che si dimette a dicembre, offeso per gli attacchi del
Regime Fascista di Farinacci. Dopo aver comunicato i non audacissimi piani del duce per l'imminente inizio delle operazioni: '[
] stretta difensiva per terra e per aria, in tutti i settori' aggiunse: 'Vi sarà consegnata una lettera che spiega il funzionamento dello stato maggiore generale, il quale, coi suoi venti Ufficiali non vuole sostituirsi a nessuno. Esso ha l'alta direzione strategica ed ha bisogno dell'intima collaborazione coi vari Stati Maggiori e dell'unione di tutti gli sforzi per compiere un lavoro proficuo. Attendo che mi si dia sempre la situazione precisa. Venite pure da me ogni volta che ne avete bisogno. Io vi chiamerò spesso'. Sembra di sentire il rettore di un seminario che si rivolge ai suoi collaboratori.
Il capo di stato maggiore generale, a guerra iniziata, comincerà a recriminare. Si legge nel primo allegato al
Diario storico del comando supremo: 'E' da rilevare che fin qui il funzionamento del Capo di stato Maggiore Generale era stato in ogni modo ostacolato dai sottosegretari militari che, riferendo direttamente e singolarmente al Duce, cercavano in ogni modo di sottrarsi alla mia opera coordinatrice. Quindi, praticamente, nessun coordinamento si è avuto nella preparazione alla guerra delle Forze Armate', in ciò contraddicendo quanto affermato nella riunione dello stato maggiore generale del 23 ottobre 1930 in cui esternava il suo compiacimento per l'elevato grado di affiatamento tra le forze aeree e quelle
navali (
23). Invitava altresì i capi e i sottocapi di S.M. e il Sottosegretario alla Guerra a 'Prepararsi seriamente - senza darla a intendere -' parole virgolettate nel
documento (
24).
Rapporto Ferrari
La situazione creatasi venne lucidamente tratteggiata dal generale Ferrari all'atto del suo pensionamento in un rapporto al capo del governo in data 31 gennaio 1928. Dopo aver valutato lo stato dell'esercito che aveva una forza di 21 divisioni: 'neppure esse in completa efficienza', con nove da mobilitare entro venti giorni dall'inizio delle ostilità ed elencate tutte le necessità alle quali occorreva far fronte, tra cui l'aumento delle unità carriste a undici battaglioni, ciascuno di 85 carri con una spesa di 185 milioni, affrontava il problema del capo di stato maggiore generale al quale occorreva assegnare non solo le attribuzioni di coordinatore: 'ma anche quelle di diretto propulsore e responsabile della preparazione alla guerra dell'esercito, della marina e dell'aeronautica dotandolo di un organo adatto: 'Un vero e proprio, ben attrezzato stato maggiore, suddiviso in tre reparti, ognuno dei quali corrispondente a una delle tre forze
armate' (
25).
Continuava sostenendo la necessità che il capo di stato maggiore in guerra assumesse il comando supremo di tutte le forze armate e che si costituisse un unico ministero, ministero della Guerra o delle Forze Armate, o tre ministeri separati con un ufficio di stato maggiore che doveva attuare le direttive impartite dallo stato maggiore generale. Erano parole sensate di un vecchio soldato senza ambizioni di carriera, unico componente del Consiglio dell'esercito a votare a favore dell'ordinamento proposto dal generale Di Giorgio, che si rendeva conto dell'ibrido creato dalla legge del 1927. Il capo del governo e ministro della Guerra, della Marina e dell'Aeronautica non accolse questi suggerimenti forse perché già accarezzava l'idea, poi realizzata, di comandare in guerra le forze armate.
La caduta di Cavallero
Nel 1928 i contrasti tra Cavallero e Badoglio si erano acuiti sino a diventare insostenibili. Secondo Canevari alla sfilata dell'undici novembre a Roma entrambi si rifiutarono di salutare per primo e il re invitò Mussolini, ormai duce, a risolvere il dissidio. Cavallero, gratificato del titolo di conte, ma senza predicato, malgrado la sua aspirazione al titolo di Conte di Vittorio Veneto, si dimise il 24 novembre 1928 e ritornò al gruppo Credito Italiano, assumendo la carica di amministratore delegato dell'Ansaldo. A seguito del cosiddetto 'scandalo delle corazze' destinate a un incrociatore, che non risultarono conformi ai campioni approvati, dovette lasciare nel 1933 la prestigiosa carica.
Gàzzera e Bonzani
Nel novembre 1928 lo sconosciuto piemontese generale di artiglieria Pietro Gàzzera fu nominato sottosegretario alla Guerra. Il maresciallo Caviglia, che al fronte aveva sempre comandato reparti di prima linea, nel suo
Diario annotava: 'Ottimo burocrate, che vide tutta la guerra col cannocchiale', mentre Rochat si limitava a definirlo 'Una grigia figura di generale - badogliano -'. Badoglio lo valutava invece di 'Grande chiarezza di vedute [
] il lavoro [
] di un competente sincero e coscienzioso'. Dello stesso parere era Grazioli: 'Giovane generale di solida preparazione tecnica, intelligente colto, provetto in ogni ramo del servizio [
] Uno dei migliori generali'.
Il piemontese generale di artiglieria Alberto Bonzani, che aveva preceduto Balbo al sottosegretariato dell'Aeronautica, assunse la carica di capo di stato maggiore dell'esercito. Del primo va ricordato il giudizio sulla cavalleria: 'Il cavallo nei nostri terreni troverà ancora, e per parecchio tempo, largo impiego in campo militare' e la napoleonica carriera. All'atto della nomina era da solo dieci mesi generale di divisione, dal settembre successivo e sino al 10 luglio 1933 fu promosso ministro della Guerra e in questo periodo ebbe i galloni di generale di corpo d'armata nel 1931 e generale designato d'armata nel 1933. Il suo temperamento gli guadagnò il nomignolo di 'Pierino benpensanti'. Nel corso dei settimanali colloqui con Mussolini, era uso prendere appunti cosa che indispettì il duce tanto che Gàzzera si affrettava a scriverli subito dopo il termine delle sedute, nella macchina che lo aspettava nel cortile di Palazzo Venezia.
Entrambi facevano parte della lobby di Badoglio, che, con i suoi artiglieri piemontesi e 'passatisti', monopolizzava gli alti gradi militari.
Le riunioni dello stato maggiore generale
Negli anni venti lo stato maggiore generale si riunì 22 volte, otto nel 1925, due nel 1927, otto nel 1928 e quattro nel 1929. Le sedute erano estremamente brevi, in media non duravano più di due ore; lo stesso avvenne per quelle in tempo di guerra almeno fino a quando veniva annotata l'ora di chiusura. Continui erano i riferimenti del capo di stato maggiore generale alle esperienze maturate nel corso della prima guerra mondiale.
Alla riunione del 18 luglio 1928, nella quale si discusse l'ipotesi di un conflitto con la Jugoslavia, partecipò anche il capo del governo, il quale era personalmente convinto che la vicina slava non era in condizioni di attaccare l'Italia per le sue condizioni politiche, militari ed economiche. Oltre Badoglio erano presenti i tre capi di stato maggiore, il generale Giuseppe Ferrari per l'esercito, il viceammiraglio Francesco Acton per la marina e il generale di brigata aerea Armando Armani per l'aeronautica. Mussolini, che la presiedeva, esordì sostenendo che andava considerata l'ipotesi di una guerra contro la Jugoslavia, con la Francia: '[
] non interveniente direttamente nel conflitto ma [con un] contegno a noi ostile' e fissò l'anno 1932 per il definitivo approntamento dell'apparato militare. Precisò che il conflitto sarebbe iniziato: 'O con una dichiarazione diplomatica o, come più probabile, con un violento atto di offesa [
]', aggiunse che: 'L'attacco dovrà essere aggressivo, improvviso' e concluse: 'la guerra può essere lontana o forse non lontana ma certamente ci sarà'.
Badoglio lesse una memoria che aveva preparato sull'argomento e invitò i presenti a studiare i piani operativi. Cauteloso e prudente come sempre il 13 gennaio 1928 precisò che: 'Non vi sarà guerra di movimento se non a radunata compiuta; occorre che tutti coloro i quali hanno responsabilità di comando e di organizzazione tengano ben presente questo, per fare argine a qualsiasi velleità di esagerazioni garibaldine'.
Le riunioni sulla guerra alla Jugoslavia, per la quale il capo di stato maggiore generale sosteneva che vi erano: 'buone probabilità di successo', continuarono per tutti gli anni venti e oltre, in quelle del tre e quattro ottobre 1929 si esaminò l'ipotesi di una guerra estesa alla Francia, guerra che '[
] sarebbe tragica sia per mare, sia per terra, sia nel cielo', secondo Badoglio sempre sensatamente contrario a un conflitto con i vicini d'oltralpe. Scriveva nel 1931 al ministro Grandi: '[...] una politica fatta di dignità nazionale andando d'accordo con la Francia' prospettando in caso contrario: 'il vero caso del nostro suicidio!'.
Quando il sottocapo di stato maggiore dell'aeronautica generale Valle prospettò l'immediata occupazione della Corsica, dalla quale poteva partire la minaccia aerea nei confronti dei grandi centri italiani, per bombardare il territorio francese, Badoglio obiettò: 'Compito assai scabroso più facile da enunciare che non ad attuare', mentre Bonzani si limitò a dire: 'è una parola!' Valle, denunciò nel 1929 l'impossibilità dei bombardieri, 200 in tutto, di superare la catena alpina per attaccare il territorio francese. Dieci anni dopo anche la RAF, pur allineando il migliore quadrimotore della seconda guerra mondiale, l'Avro Lancaster con una quota di tangenza di circa 7000 metri, incontrerà gravi difficoltà a superare le Alpi per colpire le grandi città del nord Italia partendo dalla Gran Bretagna.
Come avvenne all'inizio del secondo conflitto mondiale, le forze e i piani nemici vennero supervalutati. Si prospettava l'occupazione delle 'nostre maggiori isole', di sbarchi a Taggia (Liguria) e nell'isola d'Elba, di una incursione nello Jonio e nel basso Adriatico, di bombardamenti dei cantieri liguri. Si valutò in 24 il numero degli idroscali jugoslavi salvo ad accorgersi che: '[
] la stessa località era stata elencata con due o tre nomi diversi'.
Raimondo Montecuccoli aveva scritto: 'Stimare poco l'inimico è pericoloso, stimarlo troppo è mortale', di rincalzo Clausewitz: 'Quando poi si consideri che si è generalmente proclivi e indotti piuttosto a sopravalutare che a sottovalutare le forze dell'avversario essendo ciò insito nella natura
umana' (
26).
Sorgevano perplessità su un eventuale uso di gas asfissianti, di cui vi sono accenni nelle riunioni dello stato maggiore (21 gennaio 1928): '[
] e perciò pensare anche alla preparazione delle bombe a gas, in quanto che più gli effetti dei bombardamenti aerei sono terrificanti e più di essi influiscono sul popolo'. Si temeva lo scatenamento dell'opinione pubblica di tutta l'Europa, come avvenne nel corso della guerra di Etiopia. Sugli 'aggressivi chimici' vietati dalle convenzioni internazionali vi è un accenno nelle Norme Generali per l'Impiego delle Grandi Unità dello stesso anno, ma solo per rappresaglia nel caso: 'che l'avversario ricorra all'impiego'.
E' difficile tentare di capire quali obiettivi il duce del fascismo si proponesse iniziando un'aggressione nei confronti del vicino orientale che, in preda a profondi dissidi interni, si sarebbe sicuramente ricompattato contro un invasore, appoggiato non solo dalla Francia, il cui esercito era considerato il primo in Europa, ma dalla Società delle Nazioni e dalla Gran Bretagna interessata ad evitare ogni alterazione degli equilibri mediterranei.
Soccorrono le parole di von Clausewitz: 'Fra due nazioni o stati possono esistere tensioni così forti, somme tali di elementi ostili, che un motivo politico di scarsissima importanza intrinseca diventa capace di provocare effetti sproporzionati alla sua natura: una vera esplosione'.
Nella prima riunione del nuovo organismo tenuta il 18 giugno 1925 Badoglio si fece interprete della precaria situazione delle finanze pubbliche affermando che: 'Assai difficilmente si potrà disporre di un assegno straordinario annuo superiore ai 300 milioni', e nella successiva del tre luglio aggiunse: 'Non è possibile, per ragioni finanziarie, pensare per ora a costruzioni nuove, eccetto quanto riguarda mitragliatrici leggere, artiglierie controaerei, qualche bocca da fuoco e qualche proietto di speciale importanza'. Parecchie sedute furono dedicate alla 'infelice situazione' dell'artiglieria e ai suoi urgenti problemi, nessuna ai mezzi corazzati.
Alle riunioni gli esponenti dell'aeronautica non parteciparono fino al febbraio 1927, la marina fu esclusa da quella del 23 luglio 1925 pur avendo per oggetto l'ordinamento della difesa costiera, problema per la cui risoluzione fu invitata solo nella seduta del 1° agosto. Il capo di stato maggiore della Milizia volontaria per la difesa dello Stato venne invece sempre snobbato anche se nella seduta del 16 gennaio 1929 Badoglio: '[
] annuncia che, dato che la M.V.S.N. è entrata ormai a far parte integrante delle Forze Armate sotto varie forme, ha proposto a S.E. il Capo del Governo che il Capo di Stato Maggiore della Milizia intervenga anch'esso, di massima, alle future riunioni'.
Le valutazioni sulla efficienza della milizia sono negative. In un promemoria 'riservatissimo' datato 14 gennaio 1929 dello stato maggiore della marina si ritiene: 'Ipotesi [
] assai improbabile' la proposta avanzata dalla Commissione suprema di difesa di sostituire il personale della marina impiegato nella difesa controaerei con quello della milizia. Il successivo 3 ottobre 1929 Badoglio affermava: 'Quanto ai battaglioni di camicie nere è da tenere presente che per il momento essi sono privi assolutamente di dotazioni di mobilitazione'.
Nei confronti della Jugoslavia i giudizi del capo di stato maggiore generale furono sprezzanti: 'Ci sono noti i sentimenti di megalomania del popolo S.H.S:', non migliori quelli per i Greci: 'Credo che, in caso di guerra, la Grecia cederà magari tutti i suoi porti ma non si muoverà'. Sarà più preciso in una lettera inviata a De Vecchi comandante dello scacchiere Egeo alla vigilia dell'apertura delle ostilità nello scacchiere grecoalbanese: 'Caro De Vecchi, il 28 ha inizio la spedizione punitiva contro la Grecia. Questi porci greci avranno il trattamento che si sono meritati'.
Anche con gli Americani va giù pesante. Parlando con un corrispondente della
Tribuna nell'ottobre 1918 gli confidava: 'Sugli Americani non c'è da fare alcun affidamento. Fanno delle americanate. Come soldati, sono, tutt'al più, della materia grezza che dà più imbarazzo che altro. Bisogna inquadrarli, istruirli '. Nei confronti degli Inglesi e dei Tedeschi era più soft, limitandosi a sostenere che non erano adatti alla guerra nel deserto. Per i primi aggiunse: 'è un popolo di pecoroni'.
Lo spregio per il popolo greco sarà una costante degli alti gradi dell'esercito. A domanda di Mussolini, il generale Visconti Prasca, comandante delle truppe in Albania, fu categorico: 'Non è gente che sia contenta di battersi'. Cavallero non fu da meno: 'I'greci non sono dei buoni soldati, spesso vengono mandati all'assalto ubriachi'. Si associavano i politici. Ciano, ministro degli Esteri, confidava al Nunzio Apostolico presso il Quirinale monsignor Borgoncini: 'E' gente di cui non possiamo fidarci in nessuna maniera e mantengono un atteggiamento schifoso'. Confortato da queste parole il duce, secondo il Diario di Ciano, proclamò: 'Do le dimissioni da italiano se qualcuno trova delle difficoltà per battersi coi greci'.
La campagna di Grecia
A integrazione di quanto sopra occorre tratteggiare brevemente la campagna di Grecia, la campagna in assoluto più vergognosa della storia del Regio Esercito. Col bollettino di guerra del 29 ottobre 1941 il Comando Supremo comunicava: 'All'alba di ieri le nostre truppe dislocate in Albania hanno varcato la frontiera greca e sono penetrate per vari punti nel territorio nemico, l'avanzata prosegue'. Fino al dieci novembre i comunicati sono ottimisti e segnalano la progressione dell'avanzata. Nell'Epiro si raggiunge il fiume Kalamas e poi il nodo stradale di Kalabaki. La realtà è però diversa. Nella riunione dello stato maggiore generale del tre novembre Badoglio parla di: 'resistenza piuttosto notevole nell'Epiro' e di: 'pressione sull'ala sinistra'.
Mussolini dispone lo sbarco di un reggimento di bersaglieri a Prevesa per prendere alle spalle, con i suoi 1300 uomini, 'lo schieramento nemico'. Badoglio commenta: 'é buttarlo alla ventura' e di rincalzo il sottosegretario alla Guerra Soddu: 'é un reggimento perduto' e l'ordine viene snobbato. Non è difficile intuire quali sarebbero state le reazioni del dittatore tedesco a queste considerazioni. E' solo il 12 novembre che, dopo un giorno in cui il fronte greco viene ignorato, il bollettino accenna ad attacchi greci: 'Nell'Epiro sono stati strettamente stroncati tentativi nemici'. Nei giorni successivi si alternano: 'attacchi e contrattacchi [
] accaniti combattimenti [
] villaggio occupato dal nemico [
] forti, ripetuti [
] reiterati attacchi nemici'. Il 24 la località albanese di Korca viene evacuata. Si dovrà arrivare ai giorni sei, sette, otto dicembre perché l'espressione 'fronte greco' venga sostituito con 'Albania'. In via di massima non vengono indicate le località evacuate. La ritirata è affannosa, si abbandona un ospedale da campo con un centinaio di feriti. Il quattro dicembre saltano i nervi a Soddu, nominato nuovo comandante in Albania, il quale, annota nel Diario Storico dello S.M.E. il sottocapo di S.M. Guzzoni: 'Mi prospetta telefonicamente la impossibilità di continuare le operazioni e la necessità di un intervento diplomatico'. Subentra Cavallero, passa tutto l'inverno e finalmente il nove aprile nel bollettino si legge: 'La 9ª armata, superata la resistenza nemica, avanza da ieri mattina verso Korciano'.
In effetti i 'porci greci [
] gente non contenta di battersi [
] non buoni soldati [
] che mantengono un atteggiamento schifoso [
] mandati all'assalto ubriachi' si ritirano a seguito dei violenti colpi della 12ª armata tedesca del maresciallo List.
Il generale piemontese nella riunione dello stato maggiore generale del 10 novembre 1940 dichiara: 'Quando penso all'affare greco mi sento salire le fiamme alla faccia'. Il duce al Consiglio dei ministri del successivo 30: 'Se qualcuno, il 15 ottobre, avesse previsto quanto dopo in realtà è accaduto, l'avrei fatto fucilare'. Per la verità non farà mai fucilare un comandante militare.
La campagna iniziata con cinque divisioni ne assorbirà 29.
40.000 Caduti non avranno in avvenire la possibilità di
arrossire (
27).
Note
1. Gallinari Vincenzo.
L'esercito italiano tra la prima e la seconda guerra mondiale. Roma 1954. [
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2. Marselli Niccola.
La vita del reggimento. Osservazioni e ricordi. Firenze 1889. [
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3. Della Volpe Nicola.
Esercito e propaganda fra le due guerre. Roma 1992. [
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4. Badoglio Pietro.
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Giovanni Giolitti il Ministro della buona vita. Milano 2002. [
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Storia dell'Italia nel periodo fascista. Torino, 1956. [
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8. Cervone Pier Paolo.
Enrico Caviglia il condottiero. Savona 1988. [
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Armando Diaz Duca della Vittoria. Da Caporetto a Vittorio Veneto. Foggia 2001. [
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10. Gatti Angelo.
Caporetto. Dal diario di guerra inedito (maggio-dicembre 1917). A cura di Alberto Monticone. Bologna 1967. [
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11. Cadorna Luigi.
Altre pagine sulla Grande Guerra. Milano 1925. [
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12. Silvestri Mario.
Isonzo 1917. Torino 1965. [
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13. Vailati Vanna.
Badoglio racconta. Milano 1958. [
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14. Pricolo Francesco.
La Regia Aeronautica nella seconda guerra mondiale. Novembre 1939-Novembre 1941. Milano 1971. [
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15. De Vecchi Cesare Maria.
Il quadrumviro scomodo. Milano 1983. [
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Per l'efficienza dell'Italia. Livorno 1924. [
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17. Ferrante Ezio.
Il Grande Ammiraglio Thaon de Revel. Supplemento Rivista Marittima 1989. [
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Sulla unificazione dei ministeri della difesa nazionale. Nuova Antologia 1925. [
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20. Caviglia Enrico.
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