It.Cultura.Storia.Militare On-Line
invia stampa testo grande testo standard
Bookmark and Share
[HOME] > [icsm ARTICOLI] > [Ricerche: II GM]
La campagna russo-giapponese di Nomonhan
© Francesco Lamendola
[torna indietro]
Fonte: Arianna Editrice

La vera svolta nella politica estera giapponese, fra le due guerre mondiali, si era avuta con il cosiddetto memorandum Tanaka, redatto dal generale che era stato primo ministro dal 1927 al 1929. In questo documento, reso pubblico nel 1927, il generale Tanaka invocava per l'Impero nipponico l'avvio di una politica «positiva» di espansione, e cioè il perseguimento del predominio giapponese sull'Asia. I militari avevano appoggiato entusiasticamente questa politica, provocando ad arte una serie di «incidenti» di confine, che avevano fornito il pretesto per altrettante violazioni della sovranità degli Stati vicini.

Tra questi, l'incidente di Shenyang aveva fornito l'occasione per la massiccia invasione della Manciuria nel 1931 e la sua trasformazione, l'anno dopo, nello Stato del Manciukuo, eretto ad Impero nel 1934 e nominalmente governato da Pu Yi, l'ultimo imperatore cinese, deposto all'avvento della repubblica il 12 febbraio 1912. Poi, rispettivamente nel 1933 e nel 1937, il Giappone aveva occupato le province cinesi di Jehol e di Chahar, tentando di insediarvi dei governi fantoccio, sul modello del Manciukuo; e ciò aveva creato una frontiera comune nippo-sovietica lunga 3.000 miglia, difficile da presidiare per entrambe le parti e carica di tensione, anche per la presenza di alcuni tratti di essa non riconosciuti dalle due parti.

Un altro incidente clamoroso era stato, poi, quello presso il Ponte Marco Polo, alla periferia di Pechino, che aveva dato inizio, nel luglio del 1937, alla guerra aperta fra Giappone e Repubblica cinese. Dal 1937 al 1939 il gabinetto di Tokyo era stato presieduto dal primo ministro Fumimaro Konoye (che morirà suicida nel 1945, al momento della resa della sua patria), il quale, pur non condividendo pienamente gli ambiziosi e arrischiati piani della casta militare, non aveva avuto energia sufficiente per imporsi e per porre dei limiti all'invadenza dell'alto comando delle forze armate, sempre più dominato da elementi estremisti.

Scrive a proposito della guerra con la Cina Alida Alabiso, docente di Archeologia e Storia dell'Arte giapponese nell'Università «La Sapienza» di Roma, nel suo libro Storia del Giappone (Newton & Compton, Roma, 2001, p. 184):

"Quali erano le mete che il Giappone si prefiggeva in Cina? Fu la domanda che molti si posero. Il Giappone aveva annunciato a più riprese di voler raggiungere «un nuovo ordine di cose», ma l'espressione risultava un po' vaga. In effetti i giapponesi si erano visti precludere l'emigrazione, sbarrare gli sbocchi alla produzione industriale, quindi per sopravvivere si rivolgevano verso l'unico paese possibile, la Cina, immensa per territorio, ricca di risorse naturali, bisognosa di manufatti, nonché di assistenza tecnico-amministrativa.

Ma altre forze perseguivano da tempo ambiziose mire sui mercati e le materie prime cinesi: dal Nord la Russia, dal Sud le altre potenze occidentali. Sulla Cina si era da tempo scatenato il conflitto di interessi internazionali che aveva fatto degenerare le lotte in una mischia di appetiti in cui la visione dell'unità cinese svaniva. Il fine ultimo delle varie potenze era infatti quello di mantenere il grande paese nella disorganizzata debolezza in cui era piombato dopo la caduta dell'impero, in modo da conservare il terreno più favorevole alla penetrazione economica, alle concessioni, ai privilegi
."

Così, mentre la rapida campagna cinese si trasformava in una lunghissima guerra di logoramento, l'esercito giapponese era stato costretto a proclamare la mobilitazione generale fin dal 1938, un anno prima che la seconda guerra avesse ufficialmente inizio in Europa. Konoye non solo non aveva saputo o voluto porre un freno alle tendenze guerrafondaie dei generali e degli ammiragli, ma aveva fatto proprio, in sostanza, il loro disegno complessivo, proclamando, sempre nel 1938, un «nuovo ordine» nell'Estremo Oriente, cui le democrazie occidentali, ogni giorno più assorbite dalla minaccia della Germania nazista, non erano state in grado di reagire con espliciti segnali di dissuasione.

Sul piano internazionale, anche se il governo di Tokyo aveva potuto profittare della polarizzazione della situazione europea, divisa tra Asse e intesa anglo-francese, aveva però destato forti diffidenze nelle due potenze maggiormente interessate al mantenimento dell'equilibrio in Estremo Oriente, ossia gli Stati Uniti d'America e l'Unione Sovietica.

La tensione con gli Stati Uniti era iniziata già nel 1933, quando il Giappone era uscito dalla Società delle nazioni in seguito alla pubblicazione del Rapporto Lytton che, sia pure in ritardo, denunciava l'illegalità dell'azione nipponica in Manciuria; e si era accentuata nel 1935-36, in seguito alla denuncia, da parte giapponese, della Conferenza di Washington del 1921-22, che aveva stabilito la concessione di un tonnellaggio minore, per la flotta da guerra di Tokyo, rispetto a quelle di Stati Uniti e Gran Bretagna, nonché il mantenimento della politica della «porta aperta» verso la Cina.

Ciò significava che il Giappone si accingeva a varare una grande flotta da guerra che avrebbe apertamente rivaleggiato con quella americana e con quella britannica, destando non poche preoccupazioni negli ambienti politici e militari di Washington e Londra; e, inoltre, che si accingeva a regolare la partita con la Cina a modo suo, una volta per tutte, con danno delle altre potenze direttamente interessate alla libertà di commercio e al mantenimento dell'equilibrio geopolitico in quella regione.

Il culmine della tensione nippo-americana sarebbe giunto nel 1939, con la denuncia del trattato commerciale del 1911 da parte degli Stati Uniti, con il conseguente blocco dell'importazione di materie prime per l'industria bellica, quali benzina, rottami di ferro, ecc. Dal momento che gli Stati Uniti erano ricchissimi di materie prime, mentre il Giappone ne era quasi privo, quell'azione significò porre il governo di Tokyo davanti a una precisa alternativa: o rinunciare alla politica di espansione e giungere a una pace negoziata con la Cina, sgomberandone le province invase; oppure compiere uno sforzo rapido e deciso per impadronirsi delle materie prime esistenti nei paesi del Sud-est asiatico: Indocina francese, Indie Orientali olandesi, Malesia britannica e Filippine americane. Ancora una volta, il parere degli alti comandi militari finirà per prevalere e il Giappone imboccherà la strada della guerra contro gli Stati Uniti e la Gran Bretagna: e sarà il fatale attacco contro la base di Pearl Harbour, nelle Isole Hawaii, il 7-8 dicembre 1941.

Quanto all'altra grande potenza interessata al mantenimento dello status quo in Estremo Oriente, e perciò impegnata a sostenere finanziariamente e militarmente il governo repubblicano cinese contro l'aggressione nipponica, cioè l'Unione Sovietica, il Giappone aveva respinto la sua offerta di sottoscrivere un patto di non aggressione, dopo la pubblicazione del memorandum Tanaka. Non solo: nel novembre del 1936, il governo di Tokyo aveva aderito al patto Anticomintern con la Germania e l'Italia, schierandosi apertamente in senso anti-sovietico; e, più tardi, nel 1940, giungerà a stipulare con le potenze dell'Asse Roma- Berlino il cosiddetto Patto Tripartito.

D'altra parte, i capi politici e militari giapponesi furono piuttosto abili nell'evitare di spingere la loro politica filo-tedesca sino alla rottura aperta con l'Unione Sovietica; ma questo fu il risultato di una cocente delusione. Nel 1939 i Giapponesi ritenevano imminente uno scontro tedesco-sovietico e fu per questo che, dopo il grave incidente del Lago Chasan nel 1938 (cfr. F. Lamendola, La campagna russo-giapponese del Lago Chasan, 31 luglio - 13 agosto 1938), non si peritarono di provocare le truppe sovietiche in Estremo Oriente con un incidente ancor più spettacolare, culminato nella campagna di Nomonhan del maggio-settembre 1939. Invece, nell'agosto di quell'anno, il ministro degli Esteri tedesco, Ribbentrop, era volato a Mosca e, con stupore e disorientamento del mondo intero, il giorno 27 firmò il patto di non aggressione tedesco-sovietico con il collega sovietico Molotov.

A quel punto i Giapponesi si sentirono traditi da Hitler e decisero di chiudere l'incidente, sia pure a condizioni umilianti: avevano imparato la lezione. Nel 1941 Tokyo renderà la pariglia a Berlino, firmando un patto di non aggressione con l'Unione Sovietica che sollevava Stalin dal timore di dover sostenere una guerra su due fronti e che, probabilmente, salvò Mosca nella decisiva battaglia dell'autunno-inverno 1941 grazie, appunto, all'intervento delle divisioni siberiane disimpegnate dalla Mongolia e dalla frontiera manciuriana.

Ed eccoci alla campagna di Nomohan del maggio-settembre 1939.

Per comodità, la si può dividere in due fasi: la prima, dall'11 maggio al 25 luglio 1939; la seconda, dal 20 agosto al 16 settembre; qui ci occuperemo della prima fase.

Nel 1936 il governo di Mosca aveva stipulato un trattato di mutua assistenza con la Mongolia Esterna e, nel gennaio del 1937, l'Alto comando dell'Armata Rossa aveva costituito il 57° Corpo Speciale dei Fucilieri, formato dalla 36ª Divisione Fucilieri Motorizzata, dalla 6ª Brigata di Cavalleria, dall'11ª Brigata Corazzata, e dalla 7ª, 8ª e 9ª Brigata Meccanizzata. Queste forze vennero dislocate presso la linea di frontiera della Mongolia Esterna con il Manciukuo, nel corso del 1938.

Sempre nel 1938 si era già verificato un incidente di frontiera piuttosto grave, ma non sul confine della Mongolia Esterna, bensì su quello della Corea con le Province Marittime sovietiche; incidente che era degenerato in una disordinata e cruenta battaglia, che aveva lasciato sul terreno oltre 2.500 morti da entrambe le parti.

Quell'episodio era stato interpretato da Stalin, a torto o a ragione, come una mossa deliberata dei Giapponesi per saggiare la capacità e la volontà delle forze armate sovietiche di difendere la frontiera della Siberia orientale e, in prospettiva, quella del suo alleato di Ulan-Bator. Pertanto il dittatore sovietico, nel marzo del 1939, parlando all'Ottavo Congresso del PCUS, aveva affermato che qualunque aggressione contro le frontiere dell'Unione Sovietica avrebbe trovato una risposta due volte più forte.

Non erano passati che due mesi e si presentò l'occasione per mettere alla prova le sue orgogliose dichiarazioni. Un distaccamento di cavalleria mongolo-sovietico fu coinvolto in una disputa di frontiera presso il villaggio di Nomonhan, in vicinanza di un fiume che i Sovietici chiamavano Chalchin-Gol e i Giapponesi, invece, Halha. Secondo questi ultimi, la frontiera internazionale coincideva con il corso del fiume, mentre, per i Sovietici, essa correva proprio ad est del villaggio di Nomonhan. Il giorno 11, truppe di frontiera mongolo-sovietiche vennero attaccate da forze giapponesi e mancesi e respinte sino all'argine del fiume.

Ebbe inizio in questo modo la prima campagna di Nomonhan, che, in un crescendo impressionante, avrebbe finito per coinvolgere decine di migliaia di soldati e un gran numero di artiglierie, carri armati e aerei da caccia e da bombardamento.

Scrive lo storico militare inglese John Erickson, esperto di problemi dell'Estremo Oriente e dell'Unione Sovietica, nel suo ricco e documentatissimo volume Storia dello Stato Maggiore sovietico (titolo originale: The Soviet High Command. A Military-Political History, 1918-1941, Macmillan & Co, London, 1961; traduzione italiana di Elena Spagnol Vaccari, Feltrinelli editore, Milano, 1963, pp. 516-521):

"Molotov volse poi [dopo il discorso pronunciato il 31 maggio davanti al Soviet Supremo circa la situazione politica in Europa] la sua attenzione verso l'Estremo Oriente, e indirizzò un energico ammonimento alle autorità giapponesi e mancesi: «… in virtù del nostro trattato con la Mongolia, difenderemo le sue frontiere così vigorosamente come se fossero le nostre… la pazienza ha un limite». Queste osservazioni, per quanto banali potessero sembrare, avevano invece un ben preciso significato. Altri incidenti erano accaduti sull'esposta frontiera orientale dell'Unione Sovietica. Una «piccola guerra» era scoppiata sulla frontiera mongolo-mancese, nella regione del fiume Calchin-Gol (cioè nella regione di frontiera indicata anche col nome di Nomon Han-Burd-Obo).

Già nel gennaio - il 14, secondo alcune fonti - le forze giapponesi avevano compiuto un'incursione in un punto della frontiera mongola vicino a Nomon-Han-Burd-Obo, uccidendo una guardia di frontiera e facendo prigioniero il comandante della pattuglia. In febbraio un altro contingente giapponese-mancese attraversò la frontiera (la cui esatta demarcazione era oggetto di polemiche) e si spinse fino all'argine orientale del Chalchin-Gol. Nel momento in cui il governo sovietico poneva alle democrazie occidentali condizioni precise chiedendo ben definite garanzie di sicurezza e completa reciprocità, la situazione sulle frontiere orientali andava rapidamente deteriorandosi. L'11 maggio truppe di frontiera mongolo-sovietiche di stanza a Nomon-Han-Burd.Obo - 13-15 chilometri ad est del Chalchin-Gol - furono attaccate da forze giapponesi-mancesi e costrette a ritirarsi sull'argine del fiume. Il contingente di cavalleria che compì l'incursione era forte di circa 300 soldati e appoggiato da aeroplani. Riserve sovietiche vennero fatte giungere da Tamsyk Bulak, un centinaio di chilometri all'interno della Repubblica Popolare Mongola. La battaglia continuò, su piccola scala ma con accaniti scontri quotidiani, dal 12 al 22 maggio. Poi quello che era uno contro di frontiera si trasformò in una piccola guerra quando, verso la fine di maggio, i giapponesi fecero affluire sul luogo altre forze: elementi della 234ª Divisione giapponese di fanteria, un contingente della cavalleria mancese al comando di Yamagata (comandante del 64° Reggimento della 23ª Divisione di fanteria), parte di questo stesso 64° Reggimento, un'unità di ricognizione, una compagnia di fanteria motorizzata, il 18° Reggimento di Cavalleria e distaccamenti della 1ª e 7ª Divisione della cavalleria mancese.

I giapponesi attaccarono all'alba del 28 maggio. L'Armata Rossa stava per affrontare la prima grande prova su livello internazionale, avendo per avversaria la sceltissima Armata del Kwantung.

L'area di questa e delle successive operazioni aveva per confini ad est la frontiera mongolo-mancese, ad est il Chalchin-Gol, a sud e a nord dei massicci montuosi. La zona era piena di paludi e pantani, che ostacolavano il movimenti dei carri armati e delle autoblinde; declivi di 15-30°, e in alcuni punti addirittura di 45°, aggiungevano altre difficoltà. Il Chalchin-Gol, largo 120-130 metri, profondo 2 e in qualche punto di più, con una corrente che raggiunge la velocità di 8 metri al secondo, scorre in direzione nord-sud, più o meno parallelo a quello che era diventato il fronte; a metà circa di quest'ultimo un piccolo fiume, il Chailastyn-Gol, si incrocia col Chalchin-Gol scorrendo verso est in direzione di Nomon-Han-Burb-Obo.

Le truppe mongolo-sovietiche erano disposte sull'argine orientale del Chachin-Gol e su entrambe le rive del Chailastyn-Gol. Sull'argine destro del secondo c'erano tre compagnie di un battaglione di fanteria e le mitragliatrici pesanti dell'11ª Brigata Corazzata, con il 17° e 15° Reggimento di cavalleria (appartenenti alla 6ª Divisione di Cavalleria mongola) spostati verso Nomon-Han. Sulla riva sinistra c'erano due battaglioni di fanteria con un appoggio di mitragliatrici pesanti. Queste forze erano distribuite su una lunghezza di 16-19 chilometri. Una riserva composta di una compagnia di fanteria, una batteria di cannoni da 76 mm., una compagnia di genieri e il battaglione d'artiglieria assegnato alla 6ª Divisione di cavalleria attendeva sull'argine occidentale del Chalchin-Gol. In totale, le forze mongolo-sovietiche consistevano in 700 soldati di fanteria, 260 di cavalleria, 58 mitragliatrici, 14 cannoni da 76 mm., 6 cannoni anticarro, 39 autoblinde. La forze giapponesi erano composte di 2.576 soldati di fanteria e di cavalleria, 75 mitragliatrici, 8 cannoni, 10 cannoni anticarro, un carro armato e 68 autoblinde.

L'attacco giapponese del 28 fu appoggiato da quaranta aeroplani, che bombardarono le posizioni mongolo-sovietiche. Scopo delle operazioni giapponesi era accerchiare e distruggere i nemici sull'argine orientale del Chalchin-Gol; essi rafforzarono la loro ala destra con fanteria motorizzata, che doveva scendere da nord-est e incunearsi fra le truppe nemiche e il Chalchin-Gol. Durante gli scontri del 28 l'assalto della fanteria motorizzata giapponese fu contenuto dal fuoco dei cannoni da 76 mm., che erano stati portati sull'argine orientale del fiume; al centro, invece, i giapponesi riuscirono a respingere il 17° Reggimento di Cavalleria. I sovietici lanciarono al contrattacco, verso le 7 di sera, il 149° Reggimento trasportato con autocarri da Tamsyk-Bulak; il successo fu scarso, a causa della difettosa cooperazione con le artiglierie disponibili. La battaglia infuriò per tutto il 28 e il 29 maggio; le truppe mongolo-sovietiche organizzarono un contrattacco col quale riuscirono a respingere i giapponesi di circa 800 metri nel settore nord-orientale. Fu a questo punto che il comando sovietico commise un grosso errore. Il capo dello stato maggiore operativo del 57° Corpo Fucilieri, al cui comando erano affidate le forze mongolo-sovietiche, ebbe notizia che autocarri giapponesi stavano muovendo verso il fronte. Pensando che fossero i preparativi di un nuovo attacco, il comandante fece ritirare le sue truppe sulla riva occidentale del Chalchin-Gol. Solo il 3 giugno i sovietici si accorsero dell'errore, e le truppe furono trasferite in posizioni più avanzate, fra il Chalchi-Gol e la linea di frontiera di Nomon-Han-Burd-Obo, da cui i giapponesi si erano temporaneamente ritirati.

Alcune unità si erano comportate in modo eccellente; in particolare il comandante e i serventi della batteria di cannoni da 76 mm., che era stata trasferita sull'argine orientale del Chalchin-Gol per iniziativa personale del comandante, e usata per contenere l'attacco della fanteria motorizzata giapponese. Si erano notati però anche gravi difetti. L'interpretazione dei movimenti del nemico non era stata molto brillante. Le forze disponibili erano state distribuite su una fascia stretta e troppo lunga (qualcosa più di 16 km.); a questo errore si erano aggiunte la scarsa cooperazione e l'insufficiente copertura per i fianchi. Il 149° Reggimento era stato portato troppo indietro, con la conseguenza che era entrato in azione troppo tardi per ottenere risultati efficaci. Soprattutto, occorrevano rinforzi; per soddisfare a questa necessità furono trasferiti nella zona delle operazioni tutta l'11ª Brigata corazzata, la 7ª, 8ª e 9ª Brigata Meccanizzata, la 36ª Divisione Fucilieri (motorizzata, ma senza uno dei suoi reggimenti), un battaglione d'artiglieria pesante e 2100 caccia. L'8ª Divisione di Cavalleria Mongola andò a prestare rinforzo alla 6ª.

Per tutti il mese di giugno i giapponesi continuarono ad aumentare le loro forze; caratteristiche principali delle operazioni in questo periodo furono però l'intensificarsi e l'espandersi dell'attività aerea. Benché manchino cifre attendibili relative al numero di apparecchi impegnati o perduti in queste azioni, è certo che entrambe le parti usavano talora fino a 100 apparecchi per volta nelle rispettive operazioni. Il 27 giugno, 30 bombardieri e 80 caccia giapponesi attaccarono obiettivi ad una certa profondità nell'interno delle retrovie sovietiche, caccia--bombardieri nipponici attaccarono posizioni più vicine alla linea d frontiera. Per tutta la durata delle operazioni si ebbe un continuo movimento di rinforzi giapponesi e sovietici. La situazione di questi ultimi era resa più difficile dalle deficienze del sistema di comunicazioni; la più vicina stazione ferroviaria era a Borziya, a circa 600 chilometri dalla zona di operazioni. Oltre al vantaggio di avere linee di comunicazione più corte, i giapponesi potevano anche valersi di ferrovie efficienti e di due buone strade che andavano da Hailar alla frontiera mongolo-sovietica.

Alla fine del mese i giapponesi avevano trasferito al fronte tutta la 23ª Divisione di Fanteria, la 7ª Divisione, altri contingenti di cavalleria mancese, 170 cannoni, 130 carri armati e circa 250 apparecchi. La forza numerica della fanteria e della cavalleria aveva raggiunto una cifra di circa 24.700 uomini. Le forze mongolo-sovietiche erano aumentate toccando un totale di circa 11.000 uomini (fanteria e cavalleria), con 186 carri armati e 266 autoblinde. Invece del lungo fronte di prima, il comando sovietico decise di tenere sull'argine orientale del fiume solo una potente testa di ponte che sarebbe stata appoggiata dalle forze concentrate in tutta la zona di difesa. Per questa ragione, il 1° e il 2 luglio l'11ª Brigata Corazzata, la 7ª Brigata Meccanizzata e il 24° Reggimento Fucilieri (motorizzato) vennero fatti avanzare dalla loro posizione a Tamsyk-Bulak. Stavano per cominciare - preannuncio dell'intensificarsi dell'attività aerea giapponese - aspri combattimenti in cui le truppe mongolo-sovietiche avrebbero dovuto lottare disperatamente per mantenere la loro testa di ponte sulla riva orientale del Chaclchin-Goòl.

Il piano giapponese per le operazioni iniziate al principio di giugno era essenzialmente lo stesso lo stesso che era stato usato alla fine di maggio. La minaccia reale doveva venire dall'ala destra, e rimaneva l'intenzione di immobilizzare, accerchiare e distruggere le forze nemiche sulla riva orientale. A questo fine, le forze del maggiore generale Kobayashi dovevano attaccare da nord-est, attraversando il Chalchin-Gol, impadronendosi dell'altura chiamata Bain-Tsagan sull'argine occidentale e mutando la direzione dell'attacco, volgendo cioè verso sud, in modo da tagliare la ritirata alle truppe mongolo-sovietiche. Un secondo contingente giapponese avrebbe protetto le forze di Kobayashi mentre compivano la loro marcia laterale e mentre attraversavano il fiume nella notte fra il 1° e il 2 luglio; il 3, questo secondo contingente avrebbe impegnato le forze nemiche sull'argine orientale del Chalchin-Gol.

L'attacco cominciò, come previsto dai piani, il 2; alla sera un'ottantina di carri armati giapponesi erano in azione e respingevano dalle loro posizioni il 149° Reggimento e la 9ª Brigata Meccanizzata. Entrati sotto il fuoco diretto delle artiglierie sovietiche, i carri armati giapponesi non poterono continuare l'attacco. Ma alle 2 antimeridiane del 3 luglio le forze di Kobayashi cominciarono l'attraversamento del Chalchin-Gol, completando l'operazione alle 8 del mattino e dirigendosi immediatamente verso le alture. Il comando sovietico, non ancora al corrente del fatto che i giapponesi avevano attraversato il fiume, aveva frattanto preso alcune misure per riportare il 149° Reggimento nelle posizioni precedenti. Nel muoversi ad affrontare il secondo contingente giapponese, le unità sovietiche si trovarono faccia a faccia con le forze d'attacco di Kobayashi, che si erano impadronite dell'altura di Bain-Tsagan e vi avevano appostato cannoni anticarro per respingere i carri armati e le autoblinde sovietiche.

I sovietici sferrarono immediatamente un contrattacco per riconquistare le alture. Alle 11 del mattino l'11ª Brigata Corazzata e il battaglione di carri armati assegnato alla 6ª Divisione di Cavalleria mongola attaccarono i giapponesi in marcia. Il primo battaglione dell'11ª Brigata attaccò il nemico al fianco e alle spalle da nord-ovest, mentre altri battaglioni attaccavano da ovest. La rapida occupazione da parte dei giapponesi dell'altura di Bain-Tsagan, più l'impiego dei cannoni anticarro, aveva tuttavia creato una situazione grave. Alle 7 di sera del 3 truppe mongolo-sovietiche, attaccando da tre lati, fecero un deciso tentativo di riconquistare l'altura; i giapponesi le respinsero, e il combattimento continuò nella notte dal 3 al 4 luglio. La mattina successiva i giapponesi appoggiarono con numerosi apparecchi un nuovo attacco, seguito da un contrattacco sovietico. Alla sera del 4 le truppe mongolo-sovietiche stavano iniziando un terzo attacco su tutta la lunghezza del fronte, e i giapponesi non erano ancora stati respinti dall'altura. Ma finalmente, verso le 3 del mattino seguente, i giapponesi cominciarono a ritirarsi sull'argine orientale del Chachin-Gol, usando il ponte galleggiante di cui si erano serviti per attraversare il fiume. I carri armati e le autoblinde sovietiche che si dirigevano a loro volta verso la riva orientale del fiume dovettero essere spinti a mano attraverso il fango e il terreno cedevole mentre i giapponesi venivano impegnati in selvaggi corpo a corpo.

Il tentativo giapponese di accerchiare il nemico con un vasto movimento aggirante era fallito, ma le forze sovietiche se l'erano cavata solo per il rotto della cuffia. I giapponesi non avevano saputo usare efficacemente i loro carri armati, mentre i sovietici dovevano in parte la salvezza al successo ottenuto dai carri armati dell'11ª Brigata, che avevano accerchiato il nemico invece di lasciarsi accerchiare. Questo successo era però dovuto non meno alla buona fortuna che all'efficienza del comando. Evidentemente, era stato un grave errore non prevedere la possibilità che il nemico agisse come in effetti aveva agito - soprattutto dopo l'attacco del maggio - e avere lasciato indifesa l'altura di Bain-Tasagan. I combattimenti facevano ora perno intorno alla testa di ponte sovietica sull'argine orientale, contro la quale i giapponesi lanciavano furiosi attacchi, disturbando nello stesso tempo le unità sull'altra riva. Dopo una breve tregua, di cui i sovietici approfittarono per trasferire altre truppe di là dal Chachin-Gol, sull'argine orientale, i combattimenti ripresero a pieno ritmo con uno sbarramento d'artiglieria giapponese iniziato all'alba del 23 luglio. Solo il 25 gli attacchi giapponesi, succedutisi ininterrottamente notte e giorno, persero un po' della loro intensità, e si ebbe un ritorno alla difensiva. A circa un miglio dall'argine orientale i giapponesi diedero mano alla costruzione d'una linea fortificata, necessaria alle ulteriori operazioni con cui avrebbero cercato di conquistare l'indispensabile controllo assoluto sull'argine orientale del fiume.

Settantesei giorni di operazioni non avevano portato con sé nessuna soluzione per il comando sovietico, eccetto la probabilità di doversi impegnare in una lunga azione difensiva con forze inferiori a quelle nemiche e la quasi certezza che la vittoria sarebbe stata dei giapponesi. Benché i sovietici fossero risusciti a difendere il fronte, molti indizi avevano rivelato la scarsa competenza del comando e una certa mancanza di coordinazione. L'unica soluzione sembrava un afflusso di rinforzi dall'interno e un cambiamento nel comando. L'uomo chiamato a salvare la situazione fu G. Žukov, il comandante di corpo cui venne ora affidato il comando del 1° Gruppo d'Armata, con il compito di sconfiggere i giapponesi. Žukov capì certo fin da principio qual era il suo compito. Un insuccesso era fuori questione; bisognava vincere, e vincere in modo decisivo, addirittura spettacolare. Con Žukov vennero rinforzi massicci; con lo stile per cui in seguito diventato famoso, il nuovo comandante sferrò la controffensiva solo quando godette di una netta superiorità sul nemico; quando cioè le sue forze furono, rispetto a quelle giapponesi, in un rapporto di 1,5 a 1 per la fanteria 1,7 a 1 per le mitragliatrici, quasi 2 a 1 per l'artiglieria e l'aviazione, 4 a 1 per i cari armati. I preparativi per la controffensiva continuarono febbrilmente per buona parte dell'agosto, e il 18 Žukov era quasi pronto. Le sue operazioni coincisero nel tempo con la fase critica in cui erano entrati, nell'estate 1939, i negoziati sovietici con le democrazie occidentali e i simultanei tentativi di giungere a un'intesa con la Germania
."

Alla fine di luglio vi fu una pausa di alcune settimane nei combattimenti ed entrambe le parti fecero affluire ingenti rinforzi verso la zona di operazioni. Si trattava di una regione lontana dalle linee ferroviarie, per cui le truppe e i materiali vennero trasportati per mezzo di lunghe colonne autotrasportate. I Sovietici, soprattutto, desideravano concludere la campagna con una vittoria schiacciante: Stalin, per ragioni politiche, desiderava ammonire i Giapponesi (e, indirettamente, i Tedeschi) circa il fatto che l'Armata Rossa era uno strumento pur sempre efficiente, nonostante le recenti «purghe» che ne avevano decimato i comandi. E anche il nuovo comandante nel settore dell'Estremo Oriente, il maresciallo Žukov, desiderava affermarsi con un brillante successo militare, quasi a voler emulare il suo predecessore, maresciallo Blücher, che era morto nel 1938, non si sa bene in quali circostanze, dopo aver sostenuto vittoriosamente la campagna del Lago Chasan (cfr. il nostro articolo La campagna russo-giapponese del Lago Chasan, 31 luglio - 13 agosto 1938).

Scrive lo storico militare inglese John Erickson, esperto di problemi dell'Estremo Oriente e dell'Unione Sovietica, nel suo ricco e documentatissimo volume Storia dello Stato Maggiore sovietico (titolo originale: The Soviet High Command. A Military-Political History, 1918-1941, Macmillan & Co, London, 1961; traduzione italiana di Elena Spagnol Vaccari, Feltrinelli editore, Milano, 1963, pp. 516-521):

"Nell'ultima conversazione con Ribbentrop, la notte fra il 23 e il 24 agosto, Stalin aveva parlato del problema del Giappone dichiarando che la pazienza sovietica aveva un limite e che le «provocazioni giapponesi» stavano diventando intollerabili.

«Se il Giappone desiderava la guerra, l'avrebbe avuta». L'assistenza tedesca nell'ottenere un miglioramento nei rapporti tra i due paesi sarebbe riuscita «utile»; ma Stalin desiderava che i giapponesi non capissero che l'iniziativa era partita dai russi. A quella data, la controffensiva sul Chalchjin-Gol era quasi alla fine della prima fase.

Al principio dell'agosto i sovietici avevano fatto affluire nella zona potenti rinforzi. Le formazioni esistenti erano state incorporate nel 1° Gruppo d'Armata, con a capo un Soviet militare diretto dal comandante di corpo Žukov. Il comandante d'armata di secondo grado Štern comandava un settore del fronte la cui base era il Distretto Militare del Trans-Bajkal, e a cui era assegnata la funzione di coordinare l'azione delle truppe sovietiche con quella delle truppe mongole. Nella zona delle operazioni vennero fatti affluire l'82ª e la 57ª Divisione Fucilieri, un reggimento della 152ª Divisione Fucilieri, la 6ª Brigata Corazzata, l'85° Reggimento Contraereo, il 126° reggimento d'Artiglieria, la 212ª Brigata di Aviosbarco e parecchie compagnie di carri armati lanciafiamme. Per trasportare nella zona 18.000 uomini vennero usati 720 autocarri, altri 2.600 trasportarono le munizioni e il carburante necessari per l'artiglieria e i carri armati. Žukov ricorse a complicate manovre per mascherare le sue intenzioni offensive. Fece distribuire un gran numero copie di un manualetto intitolato
Quel che il soldato sovietico deve sapere della difesa, mandò uomini a lavorare alle fortificazioni difensive; dieci giorni prima dell'attacco autocarri privi di marmitte vennero fatti correre lungo tutto il fronte per coprire il rumore dei carri armati che si avvicinavano alle linee. Venne sviluppata una stretta cooperazione fra truppe di terra e forze aeree; piloti studiarono il terreno con le truppe, vennero formati gruppi speciali da ricognizione, pattuglie notturne e aerei vennero usati per individuare le posizioni nemiche. Žukov assegnò al suo stato maggiore dodici ufficiali di collegamento addetti alla supervisione delle operazioni e al mantenimento dei contatti. Come era accaduto al lago Chasan, grandi sforzi furono dedicati alla preparazione politica delle truppe. Alla vigilia dell'attacco, Žukov aveva al suo comando 35 battaglioni di fucilieri e 20 squadroni di cavalleria contro i 25 battaglioni e 17 squadroni giapponesi; disponeva inoltre di 498 carri armati (fra cui alcuni nuovi modelli T-34), di 346 autoblinde e 500 aeroplani.

Il piano di Žukov stabiliva che il nemico sarebbe stato attaccato con forze preponderanti sui fianchi; l'accerchiamento e la distruzione delle forze giapponesi doveva avvenire nella zona compresa fra l'argine orientale del Chalchin-Gol e la linea di frontiera. A questo scopo vennero formati due gruppi d'assalto (settentrionale e meridionale), con un terzo gruppo destinato a impegnare il nemico al centro. Il gruppo meridionale era composto dalla 57ª Divisione Fucilieri, dall'8ª Divisione di Cavalleria mongola, dall'8ª Brigata Meccanizzata, dalla 6ª Brigata Corazzata (meno due battaglioni), da un battaglione dell'11ª Brigata Corazzata con artiglieria, cannoni anticarro e una compagnia di carri armati T-130. Il gruppo centrale era composto dall'82ª Divisione Fucilieri, dalla 36ª Divisione Fucilieri (motorizzata) e dalla 5ª Brigata Mitraglieri (mista). Il gruppo settentrionale era composto dalla 6ª Divisione di cavalleria mongola, dal 601° Reggimento Fucilieri (distaccato dall'82ª Divisione, assegnata al gruppo centrale), della 7ª Brigata Meccanizzata, da due battaglioni dell'11ª Brigata Corazzata e da un battaglione della 6ª Brigata, dall'82° reggimento Obici e dall'87° battaglione Anticarro. La riserva del 1° Gruppo d'Armata consisteva nella 212ª Brigata di Sbarco Aereo, nella 9ª Brigata Fucilieri (motorizzata) e in un battaglione della 6ª Brigata Corazzata. Il 20 agosto queste forze di riserva ricevettero l'ordine di prendere posizione tre o quattro chilometri a sud della alture di Chamar-Daba e di tenersi pronte a sfruttare il successo dell'uno o dell'altro gruppo d'assalto. Il gruppo meridionale doveva sferrare l'attacco principale, distruggere il nemico a sud del Chailastyn-Gol, poi attraversando il fiume e portandosi sull'argine occidentale di esso per cooperare con il gruppo settentrionale e con quello meridionale nei compiti di accerchiare e distruggere le forze giapponesi nel settore settentrionale e di tagliare loro la ritirata verso est.

L'attacco sarebbe iniziato con un bombardamento d'artiglieria della durata di due ore e tre quarti, appoggiato da attacchi aerei contro le posizioni nemiche. In previsione dell'offensiva imminente, il comando aveva elaborato complicate disposizioni riguardanti l'artiglieria, evitando così l'errore commesso al Lago Chasan. Con le limitate operazioni del 7-8 agosto i sovietici avevano ottenuto qualche piccolo miglioramento delle loro posizioni sull'argine orientale del Chalchin-Gol; ma il grosso delle forze non venne trasferito vicino al fiume fino al 17-18 del mese. Žukov batté i giapponesi sul tempo con un margine di quattro giorni: un editto imperiale aveva infatti assegnato alla 6ª Armata giapponese il compito di spezzare la resistenza sovietica con un'offensiva che avrebbe dovuto avere inizio il 24. Žukov aveva già sferrato la sua offensiva, alle 5,45 antimeridiane del 20 agosto.

Alle 9 del mattino del 20 agosto la fanteria sovietica, appoggiata da carri armati e da aeroplani, passò all'attacco, su un fronte lungo circa 77 chilometri. Per tre giorni i gruppi d'assalto settentrionale e meridionale dovettero combattere per aprirsi una strada e conseguire l'accerchiamento iniziale dei giapponesi; avrebbero potuto svolgere più rapidamente il loro compito se il gruppo settentrionale, comandato dal colonnello Olekeseyenko, non avesse incontrato una resistenza accanitissima nella zona fortificata presso le alture Fui. Per due giorni, il 21 e il 22, gli attacchi alle posizioni giapponesi furono vani; il successo fu raggiunto solo gettando nella lotta le unità di riserva: la 9ª Brigata Meccanizzata e la 21ª Brigata di Aviosbarco. Si erano perduti tempo e uomini. Il 24 i giapponesi sferrarono un attacco con due reggimenti di fanteria appoggiati da aerei operanti da una base a sud-est di Nomon-Han-Burd-Obo,con lo scopo di alleggerire la pressione dei sovietici sulle truppe nipponiche accerchiate. Per far fronte ala minaccia, l'80° Reggimento Fucilieri (della 57ª Divisione), rafforzato con la 6ª Brigata Corazzata e con un altro reggimento fucilieri, fu assegnato al compito di contenere l'attacco giapponese, e il 26 lanciato all'attacco contro il fianco delle truppe nemiche. Entro la morsa delle truppe sovietiche, i giapponesi organizzarono una forte resistenza, costringendo il nemico a combattere disperatamente per ogni trincea e per ogni postazione d'artiglieria.

Il 24 segnò l'inizio d'una seconda fase delle operazioni, in cui le truppe sovietiche furono impegnate nel compito di contenere i contrattacchi giapponesi e di distruggere la resistenza nemica nel settore settentrionale. Žukov lanciava un attacco dopo l'altro, senza badare alle perdite. A un comandante di divisione il quale riferiva che le truppe non potevano avanzare più oltre, Žukov ordinò di continuare le operazioni se non voleva essere immediatamente sostituito; ne sostituì un altro, troppo lento nell'eseguire il compito assegnatogli. Nonostante le gravissime perdite, l'ufficiale che prese il suo posto dovette lanciare più volte le truppe all'attacco. Le operazioni, giudicate un trionfo per ciò che riguardava la cooperazione di tutte le armi, richiesero uno sforzo continuo e intensissimo anche da parere dei genieri dell'Armata Rossa. Furono però commessi anche degli errori. Il 602° Reggimento Fucilieri (82ª Divisione Fucilieri), operante al centro su un fronte di cinque chilometri, fu spiegato in modo erroneo: gli ci vollero cinque giorni per disporsi in modo più efficace, e altro tempo per sfruttare i propri successi. Il 603° Reggimento della stessa divisione, anch'esso operante al centro e anch'esso e anch'esso rafforzato con cari armati T-38 e T-26, attraversò momenti difficili, ma grazie al buon uso dei suoi carri armati non ne perse neppure uno nei 14 attacchi che eseguì. Il 27 la seconda fase delle operazioni era quasi terminata e lo sfondamento tentato dai giapponesi a notte fra il 27 e il 28 quasi sventato; alle forze sovietiche rimaneva solo il compito di liquidare la resistenza intorno alle alture che occupavano il centro del fronte. Al 127° e al 293° Reggimento della 57ª Divisione Fucilieri, operanti da sud-ovest, venne assegnata la missione di neutralizzare questo ultimo e importante centro di resistenza; i rastrellamenti continuarono sino alla fine d'agosto. All'alba del 31 i giapponesi avevano dovuto ritirarsi oltre la frontiera, e il territorio mongolo-sovietico era ufficialmente liberato dagli invasori.

Era stata un'operazione brillante ma costosa. Il 5 settembre il comandante in capo dell'Armata del Kwantung ammise che la 6ª Armata giapponese era stata sconfitta, ma dichiarò che la questione andava oltre «i limiti d'un semplice confitto di frontiera» e promise nuovi rinforzi per una grande offensiva che avrebbe avuto luogo nel prossimo autunno, Non vi fu invece nessuna offensiva, grazie all'armistizio fissato per il 16 settembre, con il quale si stabiliva che entrambe le parti avrebbero continuato a tenere le posizioni occupate all'1 pomeridiana (ora di Mosca) del 16 settembre. Il comandante giapponese era rimasto piuttosto impressionato dal comportamento dell'Armata Rossa, specialmente durante l'offensiva di agosto. L'artiglieria e le forze corazzate sovietiche si erano dimostrate nettamente superiori a quelle giapponesi nei termini di potenza di fuoco e di effettivi meccanizzati. Inoltre aveva causato non poca sorpresa il fatto che il comando sovietico fosse riuscito - nonostante le deficienze del sistema di comunicazioni e le immense distanze - a trasportare e immagazzinare nella zona d'operazioni i rifornimenti necessari per quattro mesi di continua e sempre più violenta battaglia. La tattica sovietica aveva rivelato una grande flessibilità.

Le innovazioni e le modifiche all'equipaggiamento erano state numerose; dapprima era stato possibile incendiare i carri armati sovietici gettando contro di essi bottiglie di benzina, ma poi gli chassis erano stati protetti con reti di filo di ferro, e l'uso di motori diesel aveva ridotto il pericolo di incendio. Soprattutto, l'Armata Rossa si era rivelata più «dura» di quanto ci si immaginasse. Nella prima vera prova di guerra con carri armati, artiglieria e aerei usati su larga scala, il comando sovietico poté collaudare, alla prova dei fatti, teorie ed equipaggiamento. Negli esperimenti precedenti, uno dei problemi più difficili era stato sincronizzare le manovre delle veloci forze corazzate con quelle della più lenta fanteria. L'impiego che Žukov aveva saputo fare delle sue forze meccanizzate aveva contribuito in misura sostanziale al suo successo. Senza indugiare a prendere parte alle battaglie per la conquista di posizioni isolate, e contando sull'appoggio delle forze aeree che impedivano al nemico di far affluire rinforzi sul campo di battaglia, le forze meccanizzate avevano compiuto profonde penetrazioni nelle linee nemiche. In aggiunta ai carri armati e all'artiglieria che operavano di conserva, il terzo indispensabile elemento era la fanteria motorizzata, senza la quale non sarebbe stato possibile sfruttare i successi delle forze meccanizzate operanti a distanza dalla fanteria che si muoveva più lenta. Eppure proprio in quel momento il comando dell'Armata Rossa stava sciogliendo i sette corpi meccanizzati esistenti sin allora, distribuiva i cari armati in battaglioni separati e li assegnava alle formazioni fucilieri, con compiti di appoggio alla fanteria. Per il momento, nonostante le proteste di Šapošnikov e di Žukov, trionfava l'idea che il carro armato non potesse svolgere funzioni indipendenti sul campo di battaglia: Pavlov, il principale esperto sovietico di cari armati, che aveva partecipato alla guerra di Spagna, era riuscito a convincere Stalin e Vorošilov della validità delle sue teorie.

Žukov aveva superato splendidamente la prova del Chalchin-Gol. Il grande successo ottenuto dalle truppe sovietiche non attrasse tuttavia se non in misura minima l'attenzione dell'Occidente, interamente assorbita dal problema della pace o della guerra. Il mattino del 1° settembre le forze corazzate e le fanterie tedesche, appoggiate dalla Luftwaffe, invadevano la Polonia. Il 3 Ribbentrop inviava a Molotov un messaggio in cui chiedeva notizia del movimento delle truppe sovietiche «al momento giusto contro le forze polacche nella sfera d'interessi sovietica». Il 5 Molotov prometteva una prossima risposta, confermando nello stesso tempo che il nuovo addetto militare sovietico a Berlino, Purkayev, era «un uomo di prim'ordine» e un ufficiale di grande esperienza, e che era a conoscenza degli «elementi essenziali» degli accordi tedesco-sovietici. La questione su cui russi e nazisti dovevano mettersi d'accordo era l'invasione della Polonia da oriente
."

Lo scontro aveva toccato momenti di durissima intensità in più occasioni, particolarmente durante gli assalti all'arma bianca per assicurarsi il possesso della Collina 721. Sebbene alla data del 31 agosto i Giapponesi fossero stati ricacciati al di là della frontiera internazionale (secondo l'interpretazione di essa data dai Sovietici), sporadici scontri proseguirono fino al 16 settembre, quando venne ufficialmente proclamato il cessate il fuoco.

Il bilancio finale di quattro mesi di scontri violenti era molto pesante. I Giapponesi avevano perduto oltre 17.000 uomini, dei quali 8.440 morti e 8.766 feriti. I Sovietici, tra morti e feriti, avevano lasciato sul terreno 9.284 soldati. Una autentica guerra in miniatura; che tuttavia, paradossalmente, in senso ufficiale non c'era mai stata. Le due parti, infatti, ricomposero il contrasto senza neanche giungere a una vera rottura diplomatica.

E c'erano delle buone ragioni per spiegare un comportamento in apparenza così strano delle rispettive diplomazie. In Europa la situazione stava precipitando. La guerra di Spagna era appena terminata con l'ingresso del Caudillo, Francisco Franco, a Madrid, che già la Cecoslovacchia di disintegrava e la Boemia e la Moravia divenivano un protettorato del Terzo Reich (16 marzo). Ormai, l'ora della Polonia si stava avvicinando: e, mentre Giapponesi e Sovietici si stavano furiosamente combattendo nella seconda fase della campagna di Nomonhan, il ministro degli Esteri sovietico, Molotov, e quello tedesco, Ribbentrop, firmavano, a Mosca, il patto di non aggressione tra i due rispettivi paesi, il 24 agosto. Una settimana dopo, il 1° settembre, scattava l'attacco germanico contro la Polonia, il cui esercito sarebbe stato distrutto in tre settimane.

Alle 3 del mattino del 17 settembre, il commissario del popolo aggiunto agli affari esteri, Vladimir Potëmkin, aveva convocato nel suo ufficio l'ambasciatore polacco Grzybowski per comunicargli che, dal momento che «di fatto, lo stato polacco e il suo governo hanno cessato di esistere», il governo sovietico aveva ordinato all'Armata Rossa di «far passare la frontiera alle sue truppe, e di prendere sotto la sua protezione la vita e i beni dei popoli dell'Ucraina e della Russia Bianca occidentali».

Così, calpestando cinicamente il patto di non aggressione sovietico-polacco del 25 luglio 1932, rinnovato il 5 maggio 1934 e destinato a durare sino alla fine del 1945, le armate corazzate sovietiche si mossero dalla frontiera occidentale con la Polonia (fissata dal trattato di Riga del 1921), avanzando sui due lati delle grandi Paludi del Pripjat'. Nonostante qualche sporadica resistenza del moribondo esercito polacco, già colpito a morte ai Tedeschi (Varsavia, distrutta dai bombardamenti degli Stukas, si sarebbe arresa solo il giorno 27), le colonne corazzate e motorizzate sovietiche si spinsero rapidamente sulle quattro direttrici di Vilna, di Brest-Litowsk, di Kowel e di Leopoli.

Bastarono pochi giorni perché si stabilissero i primi contatti fra Sovietici e Tedeschi, in Galizia e sul Bug; il 28 settembre sarebbe stata decisa la nuova, definitiva spartizione della Polonia. Ora l'Unione Sovietica e il Terzo Reich disponevano di una lunga frontiera comune, che andava dal Mar Baltico sino al confine ungherese, sulla cresta dei Carpazi (Passo di Uzsok, teatro di feroci combattimenti fra Russi e Austriaci nella prima guerra mondiale; cfr. F. Lamendola, La battaglia dei Carpazi, gennaio-aprile 1915).

E' logico che, in quelle circostanze, Stalin desiderasse chiudere al più presto l'«incidente» verificatosi alle frontiere tra la Mongolia Esterna e il Manciukuo; anche se non si era trattato affatto di un semplice incidente, ma di una breve, violenta e sanguinosa guerra.

Certo non poteva immaginare, il dittatore sovietico, che di lì a meno di due anni, dalla frontiera occidentale che correva nel cuore della ex Polonia indipendente, sarebbe scattata contro di lui la più gigantesca invasione della storia moderna: la cosiddetta «Operazione Barbarossa».

Dal punto di vista militare, la campagna di Nomonhan era stata ricca di insegnamenti per entrambi i contendenti. I Giapponesi compresero che l'Armata Rossa era un avversario ben più temibile del vecchio esercito zarista, che nel 1904-05 avevano battuto con relativa facilità. Inoltre, la firma del trattato Molotov-Ribbentrop del 24 agosto 1939 li disilluse amaramente circa le intenzioni di Hitler nei confronti di Mosca, dando loro la sensazione di essere stati abbandonati nel momento del pericolo e, in qualche misura, traditi. Si sbagliavano, perché, per Hitler, il patto dell'agosto 1939 era stato solo un espediente tattico per avere le mani libere verso la Polonia, e la resa dei conti con i Sovietici era solo rinviata; ma la diffidenza in loro originata da quella esperienza non si sarebbe mai più dissipata.

Da quel momento, i Giapponesi abbandonarono l'idea di aprire un fronte verso l'Unione Sovietica e, anzi, nel 1941 giunsero a sottoscrivere con essa un patto di non aggressione che, quasi certamente, salvò l'Armata Rossa dalla catastrofe nell'autunno di quell'anno, rese possibile la vittoriosa difesa di Mosca e consentì a Stalin, che aveva meditato il suicidio, di riprendersi, sia pure lentamente e con il poderoso sostegno materiale e finanziario anglo-americano.

I Giapponesi avrebbero poi mantenuto la neutralità con l'Unione Sovietica per tutta la durata del conflitto, anche dopo che Italia e Germania avevano dichiarato guerra agli Stati Uniti, l'indomani del loro attacco di Pearl Harbor. Ma Stalin li avrebbe mal ripagati, dichiarando loro la guerra l'8 agosto 1945 (ossia due giorni dopo lo sgancio della prima bomba atomica su Hiroshima) e invadendo rapidamente sia la Corea che la Manciuria.

Ha osservato lo storico militare russo S. Andolenko nella sua Storia dell'esercito russo (titolo originale: Histoire de l'Armée russe, Flammarion, Paris; traduzione italiana di F. Amico, Sansoni editore, Firenze, 1969, p. 472):

Non ci dilungheremo sulle ragioni dell'intervento di Stalin contro il Giappone. Ma il fatto è quello. L'8 agosto 1945 l'URSS dichiara guerra al Giappone già in agonia. I giornali sovietici rievocano in questa occasione «il perfido attacco dei Giapponesi contro Port Arthur e la vergogna che per quaranta anni aveva sofferto la Russia».

La stampa sovietica, dunque, aveva rispolverato temi analoghi a quelli usati dalla stampa italiana nel 1934-35, dopo l'incidente ai pozzi di Ual Ual: la necessità di lavare l'onta di una quarantennale vergogna (Adua, in quel caso) e di vendicarsi di una antica perfidia. Non parlò tanto delle campagne del Lago Chasan e di Nomonhan, invece: segno che nemmeno il regime sovietico si sentiva con le carte del tutto in regola, circa quegli incidenti di frontiera.

Lo Stato Maggiore dell'Armata Rossa uscì con un prezioso bagaglio di esperienze dalla campagna di quattro mesi sul Chachin-Gol. I carri armati avevano fatto buona prova, anche se, alla fine, prevalse la dottrina che li voleva impiegati a sostegno della fanteria (modello francese) piuttosto che lanciati in masse compatte come, nella prima guerra mondiale, la cavalleria (scuola tedesca). Non c'era stata ancora la Blitz-Krieg in Polonia e in Francia a chiarire le modalità più convenienti per il loro impiego, ma solo delle guerre limitate, dalle quali non si erano potute trarre chiare indicazioni: quella del Chaco fra Bolivia e Paraguay, nel 1932-35; quella italo-etiopica del 1935-36; e, infine, l'invasione giapponese della Cina, a partire dal 1937.

I fanti sovietici avevano mostrato molta determinazione; artiglieri, piloti e genieri avevano dato prova di un alto livello di addestramento; anche la coordinazione tra i reparti era stata eccellente. Così pure, aveva fatto una buona prova il grado di meccanizzazione dell'esercito, trattandosi di operazione su lunghe distanze, che non potevano essere coperte a piedi senza che la necessaria rapidità delle operazioni ne subisse un grave pregiudizio.

Un punto debole rivelato dai comandi sovietici era stato la scarsa capacità di intuire le intenzioni e le mosse dell'avversario; cosa che sarebbe stata confermata nell'estate del 1941, durante l'«Operazione Barbarossa». Ma, poi, essi avrebbero mostrato la capacità di imparare in fretta, tanto da sorprendere per tre volte, e in maniera decisiva, l'invasore tedesco: nella difesa di Mosca dell'inverno 1941-42; nella battaglia di Stalingrado dell'inverno 1942-43, che segnò la svolta della guerra; nella decisiva battaglia di Kursk, del luglio 1943.

Soprattutto, la campagna di Nomonhan aveva messo in luce un capo militare dalle doti estremamente brillanti, il giovane maresciallo Georgij Konstantinovič Žukov (era nato nel 1895 e, quindi, nel 1939, non aveva neppure quarantacinque anni). Dopo la prova assai positiva da lui fornita in Mongolia, durante la seconda guerra mondiale sarebbe stato l'ideatore delle operazioni decisive per la vittoria finale dell'Unione Sovietica: la difesa di Mosca nell'ottobre del 1941; la battaglia di Stalingrado, dal settembre 1942 al febbraio 1943; le offensive dell'estate 1943 e dell'inverno 1944 sul fronte meridionale; e, infine, l'offensiva oltre l'Oder, conclusasi con la conquista di Berlino, il 24 aprile del 1945.

Possiamo ricordare, infine, che anche il cinema si è occupato degli avvenimenti alla frontiera mancese, sia pure in chiave di libera rielaborazione.

Il regista giapponese Satsuo Yamamoto, nel 1974, ha realizzato il film La battaglia della Manciuria (titolo originale: Jenseits der Hölle - Man and War), una coproduzione nippo-tedesca in cui il Giappone ha messo la regia, gli attori e la sceneggiatura, e la Germania Occidentale gran parte dei capitali. Tra gli interpreti figurano Kei Yamamoto, Hideki Takahasi, Mizuho Suzuki, Shisuke Ashifda, Sayri Yoshinaga.

La pellicola, della durata di 101 minuti, fornisce una versione un po' fantasiosa, ma sostanzialmente efficace, di quelle vicende, come si può ricavare dal profilo e dal giudizio conclusivo che ne traccia il critico cinematografico Pino Farinotti (nel suo Dizionario di tutti i film, Mondadori, Milano, 1999, p. 184):

"La notte di S. Silvestro del 1936 il Giappone invade la Manciuria. La guerra sarà durissima e coinvolgerà migliaia di giovani che neppure ne comprendono le ragioni. Finirà nel 1939, quando i Giapponesi saranno costretti ad accettare un umiliante armistizio coi Russi. Intanto, in Europa, la Germania dà inizio alle manovre della seconda guerra mondiale. Lavoro abbastanza efficace, realizzato con ampia disponibilità di mezzi."
RIPRODUZIONE RISERVATA ©
[HOME] > [icsm ARTICOLI] > [Ricerche: II GM]