Fonte: Arianna Editrice
Questa pagina raccoglie quattro articoli dedicati agli incrociatori corsari tedeschi nella Seconda Guerra Mondiale.
- 1. La crociera della nave corsara Atlantis (11 marzo 1940 - 22 novembre 1941)
- 2. La crociera della nave corsara Pinguin (22 giugno 1940 - 9 maggio 1941)
- 3. La crociera della nave corsara Komet e l'attacco all'isola di Nauru (luglio 1940 - novembre 1941)
- 4. La crociera della nave corsara Kormoran (3 dicembre 1940 - 19 novembre 1941)
1. La crociera della nave corsara Atlantis (11 marzo 1940 - 22 novembre 1941)
L'incrociatore ausiliario
Atlantis fu una delle più celebri navi corsare tedesche della seconda guerra mondiale e, fino al momento dell'affondamento, probabilmente la più fortunata.
La crociera da essa iniziata l'11 marzo 1940 durò ben 622 giorni e coprì una distanza di 112.000 miglia su tutti e tre gli oceani del globo; fu, pertanto, la più lunga fra tutte quelle delle sue consorelle. Riuscì a catturare complessivamente 22 navi mercantili alleate, per una stazza complessiva di 146.000 tonnellate, affondandole per la maggior parte, ma utilizzandone alcune per trasferirvi gli equipaggi presi prigionieri; e anche questo fu un primato.
Fra le sue prede ricordiamo la motonave norvegese
Tiranna, silurata il giorno dell'entrata dell'Italia in guerra (10 giugno 1940); la
Speybank, che divenne il posamine
Doggerbank e che riuscì a forzare il blocco e a rientrare in Germania; e, ancora, il britannico
City of Baghdad, il francese
Commissaire Ramel, il sovietico
Kim, il giapponese
Kasii Maru, l'olandese
Abbekerk ed il norvegese
Tamesis.
L'
Atlantis, conosciuta anche come HSK (
Hilfskreuzer) 2, o
Schiff 16, era in origine la nave da carico
Gedenfels, della Hansa Line. Venne convertita in nave corsara fra il 1939 e il 1940, nei cantieri navali di Kiel e di Brema. Stazzava 7.900 tonnellate, era lunga 155 metri, larga 18 e pescava 8,7 metri. Poteva sviluppare una velocità di 16 nodi e godeva di un'autonomia di 60.000 miglia nautiche, viaggiando alla velocità di crociera di 10 nodi. Come armamento principale disponeva di 6 cannoni da 150 mm., nascosti dietro false sovrastrutture ribaltabili, e possedeva inoltre quattro tubi lancia-siluri. Era dotata anche di un idrovolante per la ricognizione e l'avvistamento delle navi nemiche. L'equipaggio era formato da 366 uomini, dei quali 19 ufficiali e 347 marinai.
La comandava il capitano di fregata Bernhard Rogge, particolarmente esperto di navi a vela, uomo abile e deciso, che seppe condurre la guerra di corsa con il massimo di umanità possibile, date le circostanze. Benché la crociera dell'
Atlantis non fu esente dal provocare vittime innocenti (particolarmente penosa fu la vicenda del piroscafo
Zamzam, creduto inglese e, invece, appartenente al governo egiziano, che l'aveva adibito al trasporto di civili, il quale venne duramente cannoneggiato dalla nave corsara), bisogna riconoscere che, nel contesto di un conflitto spietato come fu la seconda guerra mondiale, il suo comandante fece quanto era in suo potere per diminuire le sofferenze inutili e i disagi dei prigionieri. La maggior parte di questi gliene diede atto e volle testimoniargli, anche dopo la fine della guerra, la propria stima e riconoscenza per come si era condotto nei loro confronti.
Erano stati tempi duri: a Dresda, nel 1945, gli Inglesi rovesciarono sulla città migliaia e migliaia di bombe al fosforo liquido, al preciso scopo di bruciare viva la popolazione civile di una città indifesa e strategicamente non importante; affollata, per di più, da un gran numero di profughi delle province orientali tedesche, fuggiti davanti all'avanzata dell'Armata Rossa.
Rogge era consapevole della brutalità della guerra, ma pensava, o forse si illudeva - come molti altri uomini di mare, dell'una e dell'altra parte in lotta - che fosse ancora possibile, nonostante tutto, condurre la guerra con metodi relativamente civili, rispettando almeno i principi più elementari di umanità.
Il suo grande modello, fin da quando era ragazzo, era il capitano von Müller, che aveva comandato l'incrociatore leggero
Emden nella prima guerra mondiale, conducendo cavallerescamente la guerra di corsa nell'Oceano Indiano (cfr. il nostro articolo
La crociera dell'incrociatore Emden e la battaglia delle isole Cocos, 9 novembre 1914).
Nella
Nota Introduttiva al libro di memorie di uno dei suoi ufficiali, Ulrich Mohr, il comandante Rogge, divenuto frattanto ammiraglio della Marina tedesca, scriveva ad Amburgo, nel 1955:
La seconda guerra mondiale non concesse un attimo di respiro agli uomini che servivano il loro paese sul mare. Il blocco inglese fu continuo; e continui furono gli attacchi tedeschi al commercio nemico. Simile alla marea, la battaglia per il controllo delle rotte marittime poté avere alti e bassi, ma non si arrestò mai. Alcuni dei nostri antichi avversari hanno avuto la cortesia di elogiarmi per aver tentato di combattere lealmente, conservando il più vivo rispetto per loro.
Per chi, come me, si arruolò nella marina imperiale tedesca a quindici anni e fu colpito a quell'età dalla nobile condotta del capitano Müller dell'Emden
, e più tardi dagli insegnamenti del grande ammiraglio Raeder, non può fare a meno di riflettere con amarezza come nella nostra epoca il rispetto verso il nemico venga considerato come qualcosa di eccezionale. Ma la guerra è un padrone esigente, un padrone che non si stanca di imporre all'uomo impegni sempre più onerosi. Quanto più si allungava la serie dei successi ottenuti dai corsari germanici, tanto più l'ammiragliato inglese insisteva affinché le navi mercantili alle sue dipendenze segnalassero per radio la presenza e la posizione del nemico; e quanto più le istruzioni dell'ammiragliato venivano seguite, tanto minori divenivano per noi le possibilità di rispettare la nostra decisione originaria, la decisione cioè di attenerci ad una condotta cavalleresca.
Di conseguenza, andarono perdute vite umane che in tempi meno duri avrebbero potuto essere risparmiate. D'altra parte, una volta accettato il principio che si doveva contribuire con ogni mezzo allo sforzo bellico del proprio paese, è difficile dire se noi o i nostri avversari avremmo potuto comportarci diversamente da come ci comportammo. Bisogna comunque riconoscere che, sotto altri aspetti, noi dell'Atlantis
fummo più fortunati degli uomini che combattevano sui sommergibili e sugli aerei da bombardamento. Infatti, per la natura stessa della nostra guerra avevamo maggiori possibilità di vite umane quando avevamo terminato il nostro compito. E queste possibilità (sia detto ad onore del mio equipaggio) non furono mai trascurate, nemmeno quando comportavano un rischio notevole.
Queste parole gettano una luce significative sull'uomo Rogge, sulla sua sensibilità umana e sui principi ai quali cercò di attenersi nel corso della guerra di corsa condotta al comando della sua nave, l'
Atlantis. Anche se alcuni studiosi di cose militari hanno criticato la sua condotta nel capitolo conclusivo della sua crociera, quando venne fermato dall'incrociatore inglese
Devonshire, lasciandosi colare a picco senza sparare nemmeno un colpo di cannone, bisogna ammettere che difficilmente le sue decisioni possono essere attribuite a pavidità o codardia. Il
Devonshire, infatti, ebbe l'accortezza di mantenersi costantemente fuori tiro, mentre con i suoi cannoni di calibro superiore continuava a scaricare bordate micidiali contro l'avversario inerme. Se Rogge avesse accettato il combattimento, non sarebbe stato uno scontro fra due navi da guerra, e sia pure di diversa potenza, ma un puro e semplice massacro.
Salpato da Kiel l'11 marzo 1940 con la scorta del sommergibile U-37, l'
Atlantis riuscì a forzare il blocco e a passare nell'Atlantico dove, come già aveva fatto la nave corsara
Möwe nella prima guerra mondiale, evitò di tradire anzitempo la sua presenza, navigando senza attaccare alcun bastimento fin oltre la linea dell'Equatore. Solo il 3 maggio, dopo quasi due mesi di prudente navigazione, e camuffato sotto le mentite spoglie del mercantile giapponese
Kashii Maru, catturò la sua prima preda, l'inglese
Scientist, sulla rotta del Capo di Buona Speranza. Da quel momento, ebbe inizio la sua straordinaria carriera di corsaro, che gli consentì di affondare o catturare oltre venti navi alleate di diversa nazionalità.
Il 22 ottobre fu la volta del piroscafo jugoslavo
Durmitor, sul quale vennero trasbordati ben 300 prigionieri e che venne inviato, con un piccolo equipaggio da presa, verso la colonia della Somalia italiana, dove - al termine di una navigazione oltremodo penosa - finì per approdare non lungi dal porto di Mogadiscio.
Ecco come l'episodio è stato narrato da un testimone oculare, Libero Accini, nel suo libro
La rotta della morte (riportato in M. Izzo,
Pirati e corsari nel XX secolo, Giovanni De Vecchi Editore, Milano, 1972, pp. 196-97):
«
Una mattina vidi un bastimento, un vecchio bastimento di 5 o 600 tonnellate, andarsi ad arenare su una secca con un fracasso infernale. Saliti sul bastimento siamo assaliti da un tanfo che sale su dalla stiva, dove 100 o 150 uomini confusi con cadaveri, topi e pidocchi invocano aria e acqua. Volti di creature emaciate scheletrite, sudicie. I sopravvissuti parlano diverse lingue, provengono da diversi bastimenti. La scena è indescrivibile. A braccia portiamo fuori molti di essi e li trasportiamo a Merka dove sono stati curati e alimentati. Molti sono morti durante il trasferimento. I marinai tedeschi guardavano e tacevano».
Il testimone oculare [Libero Accini] affermò che quella nave corsara si chiamava Atlantis
. La notizia era parzialmente vera. I prigionieri soccorsi dagli italiani erano solo una parte di quelli dell'Atlantis
, mentre la nave finita sulle secche di fronte a Mogadiscio si chiamava Dormitor
, catturata dall'Atlantis
con il preciso intento di caricarla di prigionieri e di spedirla verso la Somalia italiana. Il viaggio fu un inferno e la nave fu soprannominata 'la nave del diavolo'. Il Dormitor finì su una secca con il suo carico di cadaveri e di uomini impazziti dalla sete e dagli stenti.
Senza dubbio questo quadro differisce di molto da quello che emerge dallo scambio di convenevoli fra il comandante Rogge e gli ex prigionieri della nave corsara, di cui si è fatto cenno più sopra. Anche di simili orrori fu fatta la guerra di corsa degli incrociatori ausiliari tedeschi, e non solo di gesta avventurose e di audaci imprese nautiche. Chissà se quei prigionieri del
Durmitor, morti dopo lo sbarco a Mogadiscio nonostante le sollecite cure degli italiani, sono stati conteggiati nell'elenco ufficiale delle vittime della guerra.
Il fatto è che risulta praticamente impossibile fare la guerra senza sporcarsi le mani, e specialmente una guerra come il secondo conflitto mondiale. I civili vi erano coinvolti inevitabilmente, e il trattamento dei prigionieri era quello che le circostanze imponevano, non quello che i responsabili avrebbero voluto. Episodi come quello qui riportato costituiscono il rovescio della medaglia della guerra sul mare delle navi corsare, quello più sordido e niente affatto spettacolare. Il grande pubblico lo ignora, mentre ha presenti le scene più o meno romanzesche evocate da film come
La battaglia dell'Atlantico o da libri come
Atlantis di Ulrich Mohr.
La verità è che, nella guerra sul mare così come in quella in terraferma, il comandante di una unità operativa, per quanto animato da sentimenti cavallereschi ispirati alla migliore tradizione militare, poteva cercare di limitare le sofferenze dei civili e dei prigionieri, tra i quali ultimi vi erano anche donne e bambini; non evitarle. E questo è tutto. Il resto, non è che retorica melodrammatica e cinematografica in pretto stile hollywoodiano.
Il campo di operazioni dell'
Atlantis fu soprattutto l'Oceano Indiano; fu lì che realizzò i due terzi delle sue catture. Nel corso della sua crociera ebbe anche un incontro in mare aperto con la nave da battaglia
Admiral Scheer agli ordini del comandante Krancke. Poiché l'
Atlantis portava con sé la petroliera
Ketty Bröving, una delle sue ultime prede, la Scheer poté rifornirsi di nafta da essa, nel bel mezzo dell'Oceano Indiano.
Vi fu anche un incidente di manovra durante la sosta nelle remote Isole Kerguélen, che avrebbe potuto avere gravissime conseguenze. Nel corso del tentativo di portarsi in un ancoraggio ben nascosto, la nave si incagliò su una roccia e solo dopo molti e penosi sforzi riuscì a liberarsene. Aveva rischiato di rimanere imprigionata a tempo indeterminato e, magari, di essere sorpresa in quella drammatica situazione dal sopraggiungere di qualche unità da guerra nemica.
La fine dell'
Atlantis fu drammatica, ma non eroica. La nave corsara fu sorpresa dall'incrociatore inglese
Devonshire mentre risaliva l'Atlantico per tentare di rientrare in Germania, proprio nel momento in cui era ferma per rifornire di combustibile un sommergibile tedesco, col quale aveva concordato un appuntamento. Il sommergibile, l'
U-126, si immerse precipitosamente, ma senza il suo capitano, che rimase bloccato sull'
Atlantis: sfortunata circostanza, perché, se questi avesse fatto in tempo a riguadagnare il suo posto di comando, forse le cose sarebbero andate diversamente.
Così rievoca quell'ultima pagina della crociera della nave corsara il già citato Ulrich Mohr - uno dei principali collaboratori del comandante Rogge - nel suo libro di memorie
Atlantis (steso in collaborazione con A. V. Sellwood; titolo originale:
Atlantis, 1955; traduzione italiana di Gilberto Forti, Longanesi & C. Editori, Milano, pp. 261-271):
«Feindlicher Kreuzer in Sicht! Freindlicher Kreuzer in Sicht!».
A pochi secondi dal grido, risuonò la campana d'allarme. I sogni degli uomini fuori servizio furono brutalmente interrotti. La nave, fino a quel momento silenziosa, si rianimò di colpo.- I cannonieri si avviarono ai posti di combattimento. L'Atlantis
si preparava a chiudere la sua carriera.
«Feindlicher Kreuzer in Sicht! Freindlicher Kreuzer in Sicht!».
Attraverso i telefoni che collegavano i posti di vedetta al ponte di comando, il grido giunse dapprima come un concitato sussurro; poi, non appena le dita dell'uomo di guardia ebbero premuto i bottoni dell'allarme, si trasformò in una nota vibrante e angosciosa che penetrò in ogni angolo della nave.
Così venimmo a sapere che la fine dell'Atlantis
era prossima: la fine che tutti sapevamo inevitabile, la fine che prima o poi doveva venire, sebbene ci sforzassimo, durante il nostro eterno vagare sull'oceano, di non pensare che ai problemi immediati, contenti di poter vivere giorno per giorno.
L'alba del 22 novembre 1941 si era presentata grigia, ma con visibilità quasi perfetta. Era la data fissata per il nostro incontro con l'U-126
. Fermate le macchine, avevamo incominciato a rifornire il sommergibile perché potesse proseguire la sua missione. Tutto era tranquillo, quella mattina, sull'Atlantico meridionale: la stessa tranquillità che regna nelle vie della città prima che si muova il traffico; la stessa quiete, la stessa tristezza, la stessa luminosità dell'Unter den Linden in autunno, avanti che i primi passanti calpestino le foglie cadute a terra. Sbadigliando, ero salito sul ponte e mi ero guardato intorno. L'U-126
galleggiava al nostri fianco, e il tubo della nafta pareva quasi un cordone ombelicale tra l'Atlantis
, grande e grossa, e il sommergibile, sottile e nervoso, che si affidava a noi per ricevere una buona trasfusione di sangue.
Dalla cabina di Rogge giunse al mio orecchio un dialogo sommesso. Il comandante dell'U-Boot era salito a bordo, e i due ufficiali stavano evidentemente scambiandosi informazioni e facevano quattro chiacchiere con l'aiuto di un buon bicchiere di sherry (nessuno avrebbe mai pensato, ascoltandoli, che quei due uomini si facessero una spietata concorrenza sui mari di mezzo mondo). Da un'altra parte della nave si udiva l'eco di una canzone sentimentale. Era proprio una mattinata tranquilla, anche se faceva piuttosto freddo. Oppure ero solo io a che avevo freddo, dopo un sonno troppo breve e agitato? Per la decima volta, forse, avevo fatto un sogno che sembrava tormentarmi da quando avevamo lasciato gli atolli del Pacifico. Premonizione o subcosciente in stato d'angoscia? So soltanto che il sogno era sempre lo stesso: la visione di un incrociatore inglese a tre fumaioli che appariva improvvisamente a babordo. Il sogno era tutto qui. Possibile che non avessi mai la soddisfazione di sapere come andasse a finire?
L'ufficiale di guardia mi guardò con un sorriso. «Grazie a Dio, la paura di ieri è passata», disse riferendosi al panico e alla confusione che avevano accompagnato la perdita del nostro idrovolante. Dopo uno dei soliti giri d'osservazione, l'aereo aveva tentato l'ammaraggio, ma era stato tradito dal mare agitato ed era affondato. In una zona pericolosa come quella in cui si trovava l'Atlantis
, era un gran guaio non poter disporre dell'osservazione aerea. Nessuna meraviglia, quindi, se Rogge appariva preoccupato: il comandante non ci aveva mai nascosto i suoi dubbi circa la pretesa «sicurezza» di quelle acque.
«Ormai non possiamo farci niente, amico. Comunque, sembra che tutto sia tornato perfettamente tranquillo», risposi. Una leggera brezza spirava sul ponte, occupato soltanto dai pochi uomini di servizio. Il mare, appena mosso, indossava la solita livrea grigia del mattino. Per alcuni istanti (non era certo la prima volta che mi capitava) dimenticai la guerra per abbandonarmi al godimento degli aspetti più piacevoli della vita sul mare. Era uno di quei rari momenti in cui era possibile apprezzare le «piccole cose che troppo spesso perdono il loro intimo valore nello scorrere monotono dell'esistenza. Il caffè mi sembrò eccellente, e perfino l'odore della nafta era quasi piacevole (a patto di non pensare all'U-Boot e alla sua missione).
A questo punto suonò l'allarme. «Feindlicher Kreuzer
Freindlicher Kreuzer in Sicht!».
Tutto si mise in moto immediatamente. In un attimo, il tubo della nafta venne ricuperato. Un altro attimo, e il comandante del sommergibile attraversò di corsa il ponte per raggiungere il suo posto. Ma per lui era già troppo tardi. Il giovane sostituto aveva reagito così fulmineamente all'allarme, che soltanto qualche bolla d'acqua e un po' di schiuma segnavano adesso il punto in cui era stato l'U-Boot. Il comandante, abbandonato dalla sua unità sul ponte dell'Atlantis
, diede libero sfogo alla sua collera. Non avevo mai visto una situazione più grottesca.
«Bastardi! Maledetti bastardi! Immergersi prima ancora di aver visto il nemico!». Ma c'era un altro nemico per l'U-126
, un nemico molto più pericoloso dell'incrociatore: un idrovolante che, decollato dalla nave inglese, volava sopra le nostre teste e si abbassava ogni tanto per fotografarci e seguire ogni nostra mossa. «Diamo un bel colpo a quel porco», gridò uno dei cannonieri. Ma Rogge scosse il capo. Sebbene l'aereo continuasse a girarci attorno con il suo petulante ronzio, simile ad una vespa terribilmente curiosa e pronta a pungerci con il suo veleno mortale, il nostro comandante diede ordine di non reagire in nessun modo.
Rogge ci chiamò immediatamente a rapporto, e anche questa volta riuscì a mascherare le proprie preoccupazioni. In breve, il suo piano non era altro che un disperato bluff
. «Cercheremo di guadagnar tempo», disse. «Non c'è altro da fare. Tenteremo di farci passare per inglesi». Un'idea pazzesca? Non troppo. C'era sempre la possibilità che l'incrociatore, ingannato dal nostro bluff
, si decidesse a venire più vicino per proseguire le sue indagini; e in questo caso noi avremmo potuto fare un tentativo con i nostri siluri.
«Abbiamo anche l'U-Boot dalla nostra parte», disse Rogge, «e possiamo contare sul suo aiuto. Cercherò di guadagnare tutto il tempo possibile, ma per adesso ricordatevi bene: non uno dei nostri cannoni dev'essere visibile al nemico». Guardato al binocolo, il Devonshire
appariva davvero imponente. Le onde sollevate dalla prua agitavano il mare, altrimenti immobile, dandoci un'idea dell'alta velocità cui navigava l'incrociatore. Certo, non era il momento più adatto per ammirare la linea elegante e classica del Devonshire
: infatti, se non riuscivamo quasi a scorgere le canne dei suoi pezzi, ciò significava che essi erano puntati contro di noi e che soltanto un miracolo poteva salvare l'Atlantis
dalla resa dei conti.
Il nostro avversario presentò il suo biglietto di visita, con un tiro isolato. Evidentemente non aveva intenzione di sprecare il suo tempo. Una fiamma arancione si levò dallo scafo grigio, e una grossa bomba passò sopra gli alberi dell'Atlantis
con il rumore di un treno espresso, prima di tuffarsi in mare alle nostre spalle. Un'altra vampata, e un'altra bomba, ma questa volta a prua, dove alzò un enorme getto d'acqua. L'avvertimento era fin troppo chiaro, e la nostra reazione fu altrettanto rapida. «Fermate le macchine!».
Cessato il pulsare dei motori, una strana calma scese sull'Atlantis
, una calma che sembrava stringere nel suo abbraccio ognuno di noi. Non che avessimo perso la parola: anzi, continuavamo a parlare. Non che fossimo paralizzati dalla paura: anzi, eravamo piuttosto indaffarati. Ma la nostra voce, i nostri gesti, i nostri passi sembravano tutti subordinati a un processo mentale al quale nessuno di noi poteva sfuggire. C'era veramente qualche probabilità di farla franca? Non potevamo farci troppe illusioni. Eppure, anche questa volta una speranza si affacciò alla nostra mentre: la nostra fortuna, la buona stella dell'Atlantis
, quel qualcosa che ormai faceva parte della nostra esistenza ed era un fatto accettato da tutti come il sorgere del sole o il calare della luna. Che cosa poteva succederci? Non eravamo quelli dell'Atlantis
?
Se non fosse stato per lo sciacquio delle onde e per il fruscio dei piedi degli uomini che si muovevano inquieti dietro i cannoni, il silenzio sarebbe stato completo. Mi vennero alla mente le nostre ventidue vittorie. Provai a ricordare che giorno fosse. Ventidue vittorie e ventidue del mese. Senza dubbio era una strana coincidenza. O forse un presagio. Buono o cattivo? Con una lampada di segnalazione catturata su una nave inglese, indicammo al Devonshire
il nostro nome: Polyphemus
. Contemporaneamente, la nostra radio fece quello che avrebbe fatto qualsiasi nave inglese nelle nostre condizioni, annunciando al mondo intero: «Qui Polyphemus
Nave non identificata ci ha ordinato di arrestarci. Qui Polyphemus
».
Avevamo ben poche probabilità di farcela. Lo sapevamo benissimo ma era l'unica soluzione possibile. Continuammo a ripetere il nostro appello con quella disperata serie di punti e linee. Se doveva essere il nostro ultimo bluff
, sarebbe stato un capolavoro nel suo genere: in quel messaggio, che adesso stava facendo il giro del mondo, avevamo tutta la sacrosanta indignazione e tutta l'angoscia che attanagliano il cuore di un povero capitano di marina mercantile quando si trova alle prese con una nave corsara. Adesso non rimaneva altro che attendere. «Sarei curioso di sapere che cosa ne pensa il nostro Tommy», disse un cannoniere. Non tardammo a scoprirlo. Tommy ci disse di stare fermi lì dov'eravamo. E chi aveva voglia di muoversi? Qualcuno si ricordò della vecchia preghiera blasfema che gli uomini di Nelson recitavano aspettando l'arrivo di una bordata nemica: «Per quello che stiamo per ricevere, voglia il Signore darci il modo di mostrare la nostra sentita riconoscenza».
Era giunto il momento di far tacere la radio perché nemmeno il più miope e ignorante marinaio di questo mondo avrebbe potuto scambiare il Devonshire
per una nave tedesca. Sebbene il nostro stratagemma avesse costretto il nemico a una battuta di arresto (il vero Polyphemus
era partito dalla Spagna a una data che ne poteva benissimo giustificare la presenza nella nostra zona) il Devonshire
non mostrava alcuna intenzione di fare il nostro gioco. Il nemico stava controllando il nostro messaggio, ma non veniva di persona a controllarselo portandosi più vicino all'Atlantis
, come avevamo sperato: chiedeva invece all'ammiragliato, via radio, quale fosse la posizione del vero Polyphemus
. Senza dubbio gli inglesi sospettavano che il nostro vello di pecora nascondesse le affilate zanne del lupo. Senza allentare per un attimo la sorveglianza, il nemico diede inizio a una serie di complicate evoluzioni a grande distanza: correva a zig-zag e non diminuiva di un nodo la sua velocità, mantenendosi a quasi dieci miglia, cioè fuori dalla portata dei nostri pezzi.
Frattanto l'idrovolante non voleva andarsene da sopra le nostre teste. La sua esasperante curiosità ci costringeva alla massima cautela nei nostri movimenti sul ponte e suscitava in noi quel penoso senso di imbarazzo che uno scolaretto prova quando si muove sotto gli occhi di un maestro severo. Mi domandai se un giorno avrei potuto raccontare ad altri l'ultima giornata della nostra crociera. Tutti i personaggi della vicenda erano di scena: il comandante, l'ufficiale puntatore, l'ufficiale siluratore, l'ufficiale di rotta ed io. Tutti insieme sul ponte dell'Atlantis
, una scelta adunanza di brillanti uomini di mare, ottimamente addestrati, ma impotenti (salvo un miracolo) di fronte al nemico, come tante pecore davanti al loro carnefice. E adesso i nostri occhi erano fissi sulla luce intermittente che partiva dal potente riflettore del Devonshire
. Il segnale, evidentemente in cifra, non avrebbe mai ricevuto da noi la giusta risposta.
Alle nostre spalle, dividendo la nostra ansia di fare qualcosa, erano tre siluristi, tre cannonieri, tre segnalatori e un telemetrista. Ma il più turbato di tutti era certamente il comandante dell'U-126
: incapace di rassegnarsi all'idea di essere bloccato sulla nostra nave mentre il suo sommergibile era tornato negli abissi, innervosito maggiormente dalla completa inattività cui era costretto, non smetteva un istante di camminare su e giù per il ponte. Lo doveva tormentare soprattutto la sensazione che, senza di lui, l'U-126
non sarebbe mai riuscito a farsi onore in quella splendida occasione. Nonostante le preoccupazioni del momento, non potemmo fare a meno di ridere sotto i baffi del suo comportamento, che d'altra parte sembrava comune a tutti gli ufficiali degli U-Boot.
«Proprio a me», borbottava il sommergibilista, «proprio a me doveva capitare di rimanere in trappola su questo maledetto mercantile. Sta a vedere che mi farò affondare in emersione, dopo tutto quello che ho passato in questi anni. Giuro che in vita mia non mi sono mai sentito così avvilito». E adesso che cosa sarebbe successo? Rogge lesse la domanda nei nostri occhi e cercò di dare una risposta. «Tra poco gli inglesi avranno la certezza che non siamo il Polyphemus
e si toglieranno i guanti. Comunque sia, noi non spareremo».
Nemmeno un colpo? Eravamo sbalorditi. Certo, nessuno di noi ignorava che i proiettili dell'Atlantis
non avrebbero raggiunto il Devonshire
fino a quando il nemico avesse avuto l'accortezza di tenersi a quella distanza. E sapevamo altrettanto bene che, anche a distanza ravvicinata, non avremmo avuto alcuna possibilità di scampo di fronte a un incrociatore armato di pezzi tanto più potenti dei nostri.
«Nemmeno un colpo?», parve implorare Kasch. «Nemmeno per salvare il nostro prestigio?». «No» disse Rogge. «Forse il bluff
può ancora riuscire, e noi possiamo affidarci a questa speranza. Se loro sparano e noi rimaniamo zitti, rimane la possibilità che ci prendano per una nave ausiliaria. In questo caso potrebbero anche avvicinarsi tanto da rendere il loro errore irrimediabile». Costretti a giocare il tutto per tutto per guadagnare ancora tempo, ci assoggettammo alla più dura delle discipline, una disciplina che ci impediva perfino il puerile sollievo di indirizzare ai nostri avversari qualche volgare gesto di scherno. Passò così una mezz'ora. a un tratto, il mio attendente mi si avvicinò con la sua solita deferenza: «Vuole la sua divisa migliore, signore?». La mia migliore divisa?
In un momento come questo? Osservo il visto onesto ed ansioso, che mi sta di fronte. Ho una strana sensazione di disagio, ma infine mi decido a recitare, sino in fondo, la parte assegnatami. Non c'è soltanto il bluff
verso gli inglesi; c'è anche un altro bluff
da giocare, sul quale tutti siamo tacitamente d'accordo. Infine, esclamo: «Naturalmente, la mia miglior divisa!»
Se cominciavo a rendermi conto che la filosofia di trarre, da ogni contingenza della vita, il meglio, ha solide e valide basi, bisognava allora che mi organizzassi immediatamente. E così mi feci dare dall'ufficiale pagatore la mia parte di dollari tenuti in cassa per i momenti di emergenza. Se dovevamo proprio andare a fondo, c'era sempre il caso (piuttosto problematico, a dir il vero) di raggiungere la costa, o quello (ancor più problematico) di essere tratti in salvo da qualche nave neutrale, o
Insomma, il denaro non poteva certo darmi fastidio! Ma dove nascondere quei dollari? Sistemai fra la scarpa e il piede quel tesoro che, in migliori circostanze, mi sarebbe potuto servire parecchio, sempre a condizione che esistesse ancora al mondo un posto per me dove spenderlo! Stai attento, mi avvertì subito qualcuno, che nuotare con le scarpe addosso è un gramo affare. E poi, aggiunse qualche altro, come fai esser convinto che avrai ancora bisogno di quei dollari?
E l'U-Boot dov'era andato a cacciarsi? Le osservazioni che, in proposito, andava facendo il suo comandante, sono irripetibili, ma sarà bene che autocensuri le nostre. Eppure, tutti sapevamo che quell'ira non era che un debole tentativo di mascherare la nostra umiliante impotenza di fronte al nemico. Nessuno meglio di noi poteva sapere che le velocissime manovre del Devonshire
sembravano studiate apposta per impedire al nostro sommergibile qualsiasi efficace intervento.
Fra quanto tempo gli inglesi avrebbero ricevuto la conferma dei loro evidenti sospetti? L'attesa era per noi così angosciosa, che non vedevamo l'ora di essere smascherati e di vederci precipitare addosso la furia del nemico. Tornando indietro con la memoria a quei momenti, ammetto che per conferire un tono letterario alle mie riflessioni, adesso dovrei dire che la scena «stava tingendosi di colori altamente drammatici». Direi una bugia: eravamo infatti troppo preoccupati per concederci il lusso di mostrarci drammatici o emotivi. C'erano tante cose a cui pensare
Nove e trentacinque: il nostro gioco è finito! Una fiammata rosso-arancione esplode dalle torrette del Devonshire
. Kasch si sporge dal ponte superiore e, guardandoci con uno strano sorriso, non si trattiene dal commentare quella prima bordata con aria professionale: «Fra venti secondi ci siamo, ragazzi!». Le prime bombe inglesi esplodono in mare alzando attorno a noi uno scenario di fontane e di spruzzi da cui piovono micidiali schegge d'acciaio. Sopra il tuonare e lo scoppio delle bombe, sento l'ordine di Rogge: «Avanti, a tutta forza!».
L'Atlantis
incomincia a muoversi, ma i cannoni inglesi non ci mollano. «Alzate la bandiera di combattimento!» urla Rogge. Per l'ultima volta il rosso, il bianco e il nero sventolano sull'Atlantis
ch'è tornato a essere la magnifica nave di sempre, pronta a sfidare qualsiasi nemico: una nave da guerra pronta a battersi fino alla fine per l'onore della sua bandiera. Le bombe ci colpiscono. E' la prima volta che vedo la mia nave sotto il fuoco nemico:; è la prima volta che sento il ponte tremare sotto i piedi; è la prima volta che odo il fasciame gemere e contorcersi fino allo spasimo sotto i colpi.
«I nebbiogeni!». Un'acre nuvola biancastra si alza intorno alla nave, formando una cortina protettiva tra noi e l'incrociatore. Ciò nonostante, le bombe continuano a pioverci addosso da quasi dieci miglia di distanza. Ci giriamo quasi su noi stessi e puntiamo disperatamente verso sud-est. Se il sommergibile non potrà impegnare in combattimento il nemico, forse potremo noi convincere l'incrociatore ad andare incontro all'U-Boot. Il comandante del Devonshire
, purtroppo, è molto astuto. La nostra manovra rimane infruttuosa. Non sono passati che pochi minuti e già siamo costretti a usare i nebbiogeni per permettere all'equipaggio di abbandonare la nave; il fumo serve a confondere il tiro dell'incrociatore, e a risparmiarci qualche bordata; almeno una o due, quel che basta a impedire il massacro dei nostri ragazzi, che salgono sulle scialuppe con la stessa calma di una normale operazione di salvataggio. La velocità è ridotta a un nodo e mezzo, manovriamo appena il timone e cerchiamo di rimanere al di qua dello schermo di nebbia. Non potremmo, nemmeno volendo, andare più veloci. Siamo colpiti a morte, questa è la verità, benché non sia riuscito a rendermene conto subito.
Mentre i marinai abbandonano l'Atlantis
(e ne vedo uno che si tiene stretto tra le braccia un cagnolino impaurito) scendo in cabina a prendere i codici e la macchina fotografica, perché ho deciso di ritrarre la fine della nostra nave. Sto giù un minuto o due, cerco il rasoio di sicurezza e uno o due ricordi da mettere in tasca. Poi, con la macchina e le pellicole in mano, risalgo sul ponte.
L'Atlantis
è diventata irriconoscibile! I ponti, giù così ordinati e puliti, sono ridotti a un caos, mentre un odore nauseante di bruciato ristagna sulla nave. Un fumo nero avvolge come un sudario l'albero maestro. Almeno una dozzina di fuochi ardono qua e là sul ponte. Dove fino a ieri c'era l'idrovolante, ora è tutto un rogo. Tutti sono in salvo; rimaniamo io, Rogge, Pigors e gli uomini di Fehler che debbono preparare le cariche di esplosivo per far saltare l'Atlantis
. Non riesco a tenermi bene in equilibrio, sento qualcosa di scivoloso sotto i piedi. Guardo. E' sangue. La quarta bordata ci ha regalato il nostro «primo caduto in azione»
ma adesso i morti sono saliti a otto. Pigors è un vecchio amico e compagno di scuola di Rogge. Cerca di persuaderlo ad abbandonare la plancia di comando. «Senza di te, Rogge, non me ne vado», esclama il brav'uomo.
Un'altra bomba ci colpisce in pieno. Poi un'altra. La nave s'inclina paurosamente sul fianco sinistro. Ci siamo!
L'Atlantis
è destinata a morire senza aver sparato un solo colpo. Le bombe hanno aperto enormi buchi dai quali si vedono adesso i nostri magnifici cannoni. Non resisto a guardare quelle formidabili canne puntate beffardamente mute, verso il cielo. Tutta la nostra potenza è svanita, il nostro bluff
è miseramente fallito; invisibile e remoto come lo steso cielo, il Devonshire
continua a tenerci sotto il suo tiro. Fehler e i suoi uomini hanno terminato il loro compito. Si sono già tuffati in mare. Pigors s'è convinto che né io né Rogge tenteremo di morire sul ponte dell'Atlantis
e si butta in mare anche lui. Non guardo Rogge, ma lo sento gridare al di sopra degli scoppi: «Salta, Mohr! Salta presto! Mi butto dopo di te!». Ed io mi tuffo nell'oceano
Abbiamo già accennato alle critiche che alcuni storici hanno rivolto al comportamento del capitano Rogge in quell'ultima circostanza della sua carriera di corsaro. Un autore italiano ha osservato ironicamente che, dopo aver colato a picco con tanta disinvoltura una ventina di inermi navi mercantili, allorquando si trovò di fronte, per la prima e unica volta, ai cannoni di una nave da guerra, mostrò di quale stoffa fosse fatto realmente allorché diede l'ordine di abbandonare la nave in tutta fretta, senza tentare la benché minima reazione.
Sono critiche, forse, eccessive e un po' ingenerose; perché, come già si è osservato, il
Devonshire aveva avuto cura di tenersi costantemente a una distanza di oltre 10.000 metri, ossia fuori della portata dei pezzi da 150 mm. dell'
Atlantis, mentre continuava a colpirlo implacabilmente con i suoi grossi calibri. Pur senza aver combattuto, la nave tedesca riportò un pesante bilancio di perdite a causa del bombardamento subito in quei pochi minuti di fuoco: dieci morti e quaranta feriti. Se Rogge avesse deciso di combattere, forse sarebbe stato criticato per l'inutile spreco di vite umane del suo equipaggio, dato che si sarebbe battuto esclusivamente per l'onore e non per la sia pure minima speranza di vittoria.
E' una questione di punti di vista, e non riteniamo il caso di addentrarci in una simile polemica a posteriori; che, come tutte le altre dello stesso genere, presenta l'insanabile difetto di essere la classica discussione a tavolino, che non tiene conto dei fattori concreti esistenti in guerra, quelli psicologici e morali non meno di quelli strettamente tecnico-militari.
Ci resta da raccontare la sorte dei naufraghi della nave corsara. Il
Devonshire, temendo di essere silurato dal sommergibile tedesco, non si attardò sul posto per raccogliere l'equipaggio della nave affondata e si allontanò a tutta forza. Le lance con a bordo i marinai tedeschi vennero allora prese a rimorchio dall'
U-126, e, dopo quasi tre giorni di faticosissima navigazione, gli uomini poterono essere presi a bordo dalla nave rifornimento sommergibili Phyton. Il destino volle che, pochi giorni dopo, anche questa nave venisse affondata da un incrociatore inglese, sia pure con perdite limitate.
Di nuovo naufraghi, i superstiti dell'
Atlantis vennero finalmente soccorsi da due sommergibili che navigavano nelle vicinanze e che rimorchiarono per parecchi giorni le imbarcazioni di salvataggio, finché sopraggiunsero altri due sommergibili che poterono prendere a bordo gli uomini. Sovraffollati all'inverosimile, i sommergibili fecero rotta al Nord, dove, all'altezza delle Azzorre, incontrarono quattro sommergibili italiani, sui quali venne trasbordata la metà dei naufraghi. Tutti, alla fine, riuscirono a fare ritorno in patria.
Un'ultima cosa rimane da dire a proposito della fine dell'
Atlantis. Forse l'arrivo del
Devonshire sul luogo dell'appuntamento fra la nave corsara e l'U-Boot non fu del tutto causale. Certo, essere sorpresi dal nemico durante il rifornimento di combustibile è una eventualità che tutti i comandanti di navi corsare mettono in conto: e, nella prima guerra mondiale, era già stato il tragico destino dell'incrociatore ausiliario
Cap Trafalgar (cfr. il nostro precedente articolo:
Una battaglia fra due transatlantici: Carmania e Cap Trafalgar, 14 settembre 1914). Tuttavia, il
Cap Trafalgar era stato sorpreso all'ancora davanti all'isola brasiliana di Trinidade, un luogo di appuntamento relativamente frequentato dalle navi tedesche incrocianti nel Sud Atlantico; l'
Atlantis, invece, venne sorpreso in mare aperto, in un punto molto lontano dalle normali rotte di navigazione. La cosa è diversa, e un po' strana.
Ancora più strana è la circostanza che una sorte analoga sia toccata anche alla nave pressoché gemella dell'
Atlantis, il
Pinguin del comandate Kruder, altro celebre incrociatore corsaro tedesco, che era stato colato a picco dall'incrociatore inglese
Cornwall qualche mese prima, nel maggio del 1941. Anche in quel caso, sembrava che gli Inglesi fossero a conoscenza della posizione della nave cui avevano dato invano la caccia per tanto tempo.
Vi fu una fuga di notizie o, addirittura, qualche cosa di peggio? Oppure, semplicemente, vi furono delle imprudenze da parte tedesca nell'invio dei messaggi radio, che poterono essere intercettati dal nemico e metterlo sull'avviso?
Probabilmente, non lo sapremo mai.
Dobbiamo, pertanto, limitarci a prendere atto di quelle due curiose coincidenze, dalle quali dipese la brusca fine di due delle più temibili navi corsare tedesche. L'Ammiraglio Friedrich Ruge, già capo di Stato Maggiore della Marina tedesca, si è anch'egli limitato a rilevare la stranezza, nel suo libro La guerra sul mare, senza aggiungervi commenti superflui, in una pagina che qui riportiamo per dovere di completezza (titolo originale:
Der Seekrieg, Koheler Verlag, Stuttgart, 1954; traduzione italiana dell'Amm. Carlo De Angelis, Garzanti Reditore, Milano, p.160):
L'incrociatore ausiliario Atlantis di 7.900 tsl e 16 nodi, e il Pinguin di 7.800 tsl e 16 nodi, dopo una lunga crociera coronata da successo furono affondati dal nemico. (
) Non fu chiarito allora, né mai si seppe più tardi, come il nemico riuscisse a incontrare due navi tedesche che si tenevano molto lontane dalle rotte normalmente seguite
2. La crociera della nave corsara Pinguin (22 giugno 1940 - 9 maggio 1941)
L'incrociatore ausiliario
Pinguin (noto anche con il nome in codice di
Schiff 33, ossia Nave 33), comandato dal capitano di vascello Ernst-Felix Kruder, è stato una delle navi corsare tedesche più importanti della seconda guerra mondiale; una di quelle che hanno riportato i maggiori successi nella guerra al traffico commerciale alleato; e una di quelle che sono andate incontro al destino più glorioso, ma anche più tragico. Infatti, la sua carriera di corsara venne troncata dall'incontro con un incrociatore pesante britannico, contro il quale non aveva la minima speranza di salvezza.
Eppure, affrontò ugualmente il combattimento e fu colato a picco dopo una lotta disperata nelle acque dell'Oceano Indiano. La sua fine avvenne in circostanze analoghe a quella della sua nave gemella, l'
Atlantis del capitano di fregata Bernhard Rogge, del quale abbiamo già avuto occasione di parlare diffusamente (cfr. F. Lamendola,
La crociera della nave corsara «Atlantis»,11 marzo 1940 - 22 novembre 1941). Entrambe furono sorprese in mare aperto da una nave da guerra inglese, giunta con troppo tempismo per pensare a una semplice coincidenza. A differenza dell'
Atlantis, però, che venne abbandonata dall'equipaggio, sotto le bordate del nemico, senza aver sparato neppure un colpo, il
Pinguin scelse di perire combattendo, sparando fino all'ultimo con i suoi antiquati cannoni della prima guerra mondiale, e facendo sventolare fieramente sull'albero la bandiera di battaglia.
Secondo le migliori tradizioni della Marina imperiale germanica, Kruder si sacrificò al suo posto di comando, insieme a quasi tutto l'equipaggio; e, prima di scomparire tra i flutti con la carcassa della sua nave divorata dalle fiamme, riuscì a mettere a segno alcuni colpi che danneggiarono seriamente il nemico, tanto più potente sia per armamento che per corazzatura, nonché - cosa più importante di tutte - per velocità.
Nell'articolo sopra citato, abbiamo riportato la descrizione della fine dell'
Atlantis, così come l'ha rievocata, in un suo libro di memorie, uno degli ufficiali di Rogge, Ulrich Mohr. Il lettore sarà forse rimasto colpito dal particolare di Mohr che, nell'imminenza dello scontro decisivo, va dall'ufficiale pagatore per riscuotere il suoi stipendio, in previsione dei tempi duri della prigionia. Pur con tutto il rispetto per coloro che vissero sulla propria pelle il dramma della guerra sul mare, non possiamo fare a meno di pensare che non è quello l'atteggiamento che ci si aspetterebbe a bordo di una nave, pochi istanti prima della prova del fuoco, da parte di uno dei principali collaboratori del comandante.
Si ha l'impressione che sia Rogge, sia i suoi ufficiali, abbiano dato un po' per scontato che i cannoni sarebbero loro serviti solo fino a quando si fossero trovati davanti delle innocue carrette del mare, da saccheggiare e da colare a picco, senza correre il benché minimo rischio; ma poi, quando furono a tu per tu con una vera nave da guerra, non presero seriamente in considerazione la possibilità di adoperarli per combattere. Ci sia consentito pensare dire che gli ufficiali di una nave da guerra, allorché questa viene a contatto col nemico, forse non dovrebbero pensare, in primo luogo, a garantirsi la sicurezza economica per il futuro, anzi non dovrebbero pensare affatto al loro futuro di probabili prigionieri, ma piuttosto concentrarsi esclusivamente sulla prova delle armi che li attende, da un istante all'altro.
Così è nella tradizione di qualsiasi marina da guerra che si rispetti, e così era anche in quella tedesca durante la seconda guerra mondiale.
Ma chiudiamo questa parentesi sul contegno dell'
Atlantis, di cui abbiamo già parlato a suo tempo, e torniamo alla lunga e spettacolare crociera del
Pinguin. Questo era, in origine, il mercantile
Pinguin, di 7.800 tonnellate, della Società armatrice Hansa; il quale, fra l'autunno del 1939 e la primavera del 1940, era stato trasformato in incrociatore ausiliario, secondo le solite modalità in uso nella Marina tedesca.
Lungo 155 metri e largo 19, con un pescaggio di 7 metri, poteva sviluppare una velocità massima di 18 nodi; e i suoi capaci depositi di carburante gli assicuravano un'autonomia di crociera di ben 60.000 miglia nautiche, viaggiando alla velocità di 10 nodi. Era armato con 6 cannoni da 150 mm., alcuni pezzi di piccolo calibro e 6 tubi lancia-siluri; portava anche un carico di 300 mine da depositare davanti a una serie di obiettivi sensibili del nemico. Una catapulta per due idrovolanti gli assicurava i mezzi per la ricognizione a distanza. L'equipaggio era di 400 uomini.
Kruder non era un comandante distaccato e formale, come altri della
Kriegsmarine, ma un uomo sensibile e generoso, oltre che un ottimo marinaio. Formatosi all'epoca della prima guerra mondiale, aveva partecipato alla battaglia dello Jutland del 1916 (che gli storici tedeschi preferiscono chiamare del Dogger Bank); e, alla vigilia del secondo conflitto mondiale, era divenuto comandante dei dragamine. La sua perdita lasciò un vuoto notevole: ufficiali come lui non capitano tutti i giorni nelle forze armate di alcun Paese.
Così ne delinea la figura e, poi, rievoca la sua tragica fine, il saggista Massimo Picollo nella sua valida monografia
Gli incrociatori corsari tedeschi. Le navi del tradimento (Giovanni De Vecchi Editore, Milano, 1971, pp. 59-60, 80-81):
il capitano Kruder proviene dalle file della marina da guerra imperiale, dove era entrato volontario. Nel 1917 era guardiamarina a bordo della corazzata Koning
e su di essa si era particolarmente distinto alla battaglia dello Jutland, quale comandante di una torre prodiera. Dalla Koning
, Kruder passò al naviglio sottile: dragamine e incrociatori leggeri; assunse poi il comando della prima flottiglia dragamine e ancora ricopriva tale carica quando gli venne assegnato il Pinguin
.
Pervaso di una grande umanità e di una profonda carica umana, a stento represse da una rigida severità esteriore, Kruder aveva sempre creato con gli uomini a lui sottoposti un'atmosfera di efficiente affettuosità. Era sempre stato considerato, dal secondo ufficiale all'ultimo marinaio, un padre, anche se volutamente burbero. Tutto ciò si ripete pure sul Pinguin
: erano bastate infatti le poche parole che Kruder aveva rivolto all'equipaggio: «Voglio una nave efficiente, pulita e felice» e quelle che aveva poi aggiunto agli ufficiali: «Preoccupatevi sempre che gli uomini ai vostri ordini stiano bene. Ogni parvenza di eventuale attrito deve essere deferita a me». (
) Quando il fumo della catastrofe si dirada, sul mare non v'è più traccia del corsaro: solo una decina di uomini annaspano affannosamente nelle acque, alla disperata ricerca di un relitto cui aggrapparsi.
Il Cornwall
li raccoglie ed i suoi marinai guardano i superstiti tedeschi quasi fossero uomini di una specie diversa, capaci di ogni impresa, e per lungo tempo non riusciranno a convincersi di aver eliminato il famoso Pinguin
lo Schiff
33, il migliore incrociatore fantasma tedesco, scomparso in un vortice di fiamme, con la bandiera della Kriegsmarine
, il comandante ritto sul ponte, i suoi ufficiali e pressoché tutto il suo equipaggio.
La crociera del
Pinguin ebbe inizio il 22 giugno 1940, quando lasciò la Germania e riuscì, camuffato sotto le spoglie del mercantile sovietico
Pechora, a forzare il blocco inglese nel Mare del Nord, passando vicino all'isola Jan Mayen e infilandosi, poi, nel gelido Canale di Danimarca, fra le coste della Groenlandia e quelle dell'Islanda, dovendo affrontare condizioni meteorologiche proibitive.
Una volta guadagnate le acque dell'aperto Oceano Atlantico, la nave corsara volse la prua direttamente verso la parte meridionale di esso, per recarsi all'appuntamento con un sommergibile tedesco rimasto a corto sia di nafta che di viveri; appostandosi poi, in cerca di prede, sulle rotte commerciali passanti nelle vicinanze delle isole di Capo Verde.
Nell'Atlantico del Sud, prima di oltrepassare l'isola di Ascensione, il
Pinguin assunse le sembianze del piroscafo greco
Kassos; indi catturò una serie di navi alleate, l'una dopo l'altra: il britannico
Domingo de Larrinaga (5.400 tonnellate); poi, doppiato il Capo di Buona Speranza, la petroliera norvegese
Filefjell, al largo del Madagascar, dalla quale prelevò 500 tonnellate di preziosa nafta; un'altra nave inglese, la
British Commander (7.000 t.) e un'altra bella nave norvegese, la
Morviken (5.000 t.).
Nell'Oceano Indiano la nave corsara sembrava aver trovato la sua «riserva di caccia» ideale, così come, poi, nelle acque antartiche a sud del Capo di Buona Speranza e intorno all'isola Bouvet, ove incrociavano le flotte baleniere norvegesi, impegnate nella caccia ai grandi cetacei dell'emisfero meridionale. Il
Pinguin vi giunse entro la metà di gennaio del 1941, e vi fece un bottino ricchissimo nello spazio di neppure quarantott'ore.
La crociera del
Pinguin nei mari antartici è stata così riassunta da Caius Bekker nella sua opera
Storia della Marina del Terzo Reich, 1939-1945 (titolo originale:
Verdammte See. Ein Kriegstagebuch der deutschen Marine, Gerhard Stalling Verlag, Oldenburg, 1972; traduzione italiana di Giorgio Cuzzelli, Longanesi & C. Editori, 1977, vol. 1, p. 204):
Già alla metà di gennaio 1941, la Nave 33 Pinguin
, dagli inglesi chiamata Raider F
, agli ordini del capitano Ernst-Felix Krüder, ha trovato prede «opime» nell'Antartide. Tanto per cominciare, si avvicina non visto alla nave appoggio per baleniere norvegese Ole Wegger
e al mercantile Solglimt
, appena giunto per rifornirla, e conquista di notte, all'abbordaggio, le due navi senza sparare un colpo. La stessa sorte tocca ventiquattr'ore più tardi a una seconda flottiglia di baleniere. Marinai del Pinguin
abbordano la nave appoggio Pelagos
, chiamano a raccolta, servendosi della radio di bordo, le baleniere, e catturano anche queste.
Il capitano di vascello Krüder manda in patria, presidiate da pochi uomini, tre navi da 12.000 tonnellate ciascuna: le due navi appoggio aventi a bordo ventiduemiladuecento tonnellate di olio di balena, un articolo estremamente benvenuto nella Germania circondata dal blocco, l'altrettanto preziosa nave cisterna, e undici baleniere. Solo tre baleniere vanno perse, Tutte le altre raggiungono indenni i porti francesi.
Secondo la stima dell'Ammiraglio Friedrich Ruge, il carico di olio di balena condotto nei porti francesi dalle baleniere catturate dal
Pinguin era l'equivalente della razione di margarina per tutta la Germania di parecchi mesi. Va notato che gli spettacolari successi di Kruder nei mari antartici sono da attribuirsi in gran parte all'abile sfruttamento delle intercettazioni radio norvegesi e nella trasmissione, altrettanto abile, di messaggi falsi. Era stata, dunque, una vittoria conquistata essenzialmente dall'operatore radio sui tasti del proprio apparecchio; una vittoria dell'astuzia, più che della forza.
Fu in questo modo che Kruder, in meno di due giorni, era riuscito a catturare 14 navi, 20 mila tonnellate di olio di balena e 10.000 tonnellate di nafta. Da quel momento egli divenne un mito fra gli equipaggi della Marina tedesca; le sue gesta correvano di bocca in bocca, assumendo toni da leggenda. Prima di spingersi verso l'Antartico, Kruder aveva diretto la sua nave fino in Australia, ove aveva deposto due campi di mine, uno davanti alle coste nord-occidentali, un altro davanti a quelle sud-orientali, fra Sydney e Melbourne; altre mine erano state deposte da una sua nave appoggio al largo di Capo Agulhas, sulla punta meridionale dell'Africa.
Diverse navi nemiche urtarono in seguito sulle mine e saltarono in aria; fra esse, il primo mercantile americano a cadere vittima della seconda guerra mondiale, il piroscafo
City of Rayville, di 5.800 tonnellate. Dopo la caccia grossa nei pressi dell'isola Bouvet, il
Pinguin - nel febbraio del 1941 - risalì a nord-est e si concesse una pausa nel rifugio, relativamente sicuro, delle disabitate isole Kerguélen, nella parte più meridionale dell'Oceano Indiano, a 50° di latitudine Sud. Terminato quel periodo di riposo, Kruder riportò la sua nave a settentrione, sulle principali rotte commerciali, servendosi del secondo idrovolante per la ricognizione aerea (il primo era andato perduto). Fu così che alla fine, il 9 maggio 1941, comandante e marinai finirono per andare incontro al loro tragico destino.
Complessivamente, il
Pinguin, nel corso della sua crociera durata meno di 11 mesi, catturò 28 navi nemiche per una stazza di 136.00 tonnellate lorde; mentre altre 5 unità, per almeno 29.000 tonnellate di stazza lorda, saltarono sulle mine da esso posate. Proprio quelle mine, però, dovevano rivelarsi la rovina per la nave corsara. Ne aveva a bordo ancora 130, infatti, le quali, al momento del combattimento con il
Cornwall, saltarono in aria, provocandone l'esplosione e il suo rapido inabissamento, con la perdita della quasi totalità dell'equipaggio.
L'ultima vittima dell'incrociatore corsaro fu la nave cisterna
British Emperor, che Kruder volle catturare per far fronte al grave problema della scarsità di nafta nei serbatoi del
Pinguin. Prima di essere colato a picco, il bastimento inglese aveva tentato una inutile fuga e aveva fatto in tempo a lanciare disperati messaggi radio di soccorso, i quali - sfortunatamente per i Tedeschi - vennero captati dall'incrociatore pesante
Cornwall, di 10.000 tonnellate e con otto cannoni da 203 mm., che subito accorse e riuscì a portarsi a tiro della nave corsara, grazie ai suoi 31 nodi di velocità (quasi il doppio dell'avversario). Il
Pinguin tentò un ultimo inganno, dapprima cercando di farsi passare per la nave norvegese
Tamerlane, poi trasmettendo alla nave britannica una fantasiosa informazione, per metterlo su una falsa pista. Ma ciò a nulla valse, e si giunse, così, alla resa dei conti.
Le ultime ore del
Pinguin sono state narrate da M. Izzo nel suo libro Pirati e corsari nel XX secolo (Giovanni De Vecchi Editore, Milano, 1972, pp. 191-92).
Il lungo grido di aiuto lanciato dalla petroliera prima di morire non poteva non essere stato raccolto da qualcuno. Le tristi previsioni del capitano Kruder non tardarono a rivelarsi esatte. L'appello era stato raccolto dal Cornwall
, un incrociatore pesante inglese che si lanciò alla caccia della nave affondatrice. Kruder sentiva di avere ormai le ore contate. Dopo ore d'inseguimento l'incrociatore avvistò la nave tedesca, ma dopo il primo attimo d'esultanza la perplessità si impossessò del comandante: la nave inseguita non era il Pinguin
ma il mercantile norvegese Tamerlane
. Avvicinandosi egli avrebbe finito con l'esporsi all'eventuale tiro della nave corsara, ma a molte miglia di distanza la nave continuava a presentare l'aspetto del tutto innocuo del mercantile norvegese.
Kruder sapendosi osservato continuò il gioco sotto le spoglie del mercantile norvegese e cercò di mettere fuori strada l'avversario segnalando di aver avvistato una nave corsara tedesca in direzione opposta. L'incrociatore inseguì la pista falsa con meticolosa pignoleria per ore e ore, ma quando con l'aiuto del ricognitore fu certo che navi tedesche sul tatto di mare perlustrato non ce n'erano, non ebbe più dubbi. Il mercantile norvegese non poteva essere che il Pinguin
. Poco dopo il Cornwall
piombò sul Pinguin
camuffato. L'incrociatore poteva sfruttare una potenza molto maggiore di quella del piccolo Pinguin
che però tentava in tutti i modi di difendersi e di attaccare. In breve, lo scafo del Pinguin
venne squarciato da una serie di fiancate che distrussero i comandi in sala macchine; poi i cannoni del Cornwall
centrarono il deposito munizioni. L'esplosione fu spaventosa, le fiamme avvolsero la nave corsara mentre frammenti di acciaio piovevano dappertutto. Gli uomini si gettarono in mare, poche lance riuscirono ad allontanarsi dal Pinguin
che affondava. Kruder, al suo posto, morì insieme con la sua nave.
Così, giocando d'astuzia fino all'ultimo, Kruder era stato quasi sul punto di beffare il comandante avversario, il capitano di fregata Manwarring, allorché fece segnalare di essere appena sfuggito per miracolo a una nave corsara tedesca, e spedendo il
Cornwall alla ricerca, tanto affannosa quanto vana, di quell'inesistente avversario. Un colpo di genio che il comandante Rogge e il telegrafista dell'
Atlantis non ebbero, quando, nel novembre successivo, si vennero a trovare nella medesima situazione: con i cannoni di una vera nave da guerra puntati contro, mentre questa - tenendosi fuori tiro - procedeva all'identificazione del vascello corsaro.
Rogge, infatti, decise di restare passivamente ad attendere l'inevitabile; Kruder, al contrario, scelse la strada della lotta, nella tradizione del
Cap Trafalgar durante la prima guerra mondiale (cfr. il nostro articolo
Una battaglia fra due transatlantici: «Carmania» e «Cap Trafalgar», 14 settembre 1914).
Tuttavia, in quelle poche ore in cui il
Cornwall si allontanò alla ricerca dell'ipotetica nave corsara, il
Pinguin ebbe, sia pure teoricamente, una possibilità di salvezza. Ma, non potendo certo sottrarsi alla caccia imminente coi suoi 16 nodi orari contro i 31 dell'incrociatore britannico, sarebbe stato necessario che le condizioni atmosferiche o il buio della notte venissero in suo soccorso. Se ci fosse stato un piovasco o un banco di nebbia, avrebbe potuto salvarsi; proprio come aveva sperato di salvare le sue navi von Spee, l'8 dicembre 1914, quando tentò la fuga davanti alle navi da battaglia
Invincible e
Inflexible, nella vana ricerca di un provvidenziale acquazzone.
In conclusione, possiamo dire che la condotta del comandante Kruder rivela non solo coraggio e determinazione, ma anche una rara combinazione di perizia marinara e di inventiva, fantasia e spirito d'improvvisazione; qualità delle quali, in genere, il soldato tedesco difetta, sopperendo ad esse con la perfetta disciplina e la totale fiducia nell'organizzazione della quale fa parte e che provvede a dare gli ordini.
Questo elemento, forse, ci aiuta a comprendere la differenza di condotta fra il comandante Rogge e il suo collega Kruder.
L'
Atlantis, una volta scoperto e fermato dal
Devonshire, si abbandonò passivamente al proprio destino, come se avesse perduto completamente la facoltà di usare il proprio spirito di iniziativa, che è - in fondo - la qualità fondamentale richiesta a una nave che debba condurre, del tutto isolata, una lunga crociera sui tre oceani, agendo contro il traffico mercantile nemico e cercando di sfuggire alla caccia delle navi da guerra. Nel caso dell'ultima battaglia del
Pinguin, invece, noi vediamo tale qualità esprimersi fino all'ultimo respiro, unita alla ferma determinazione di non cedere senza lotta.
L'
Atlantis, probabilmente, è più famoso presso il grande pubblico, forse anche per merito del libro di Ulrich Mor, che ha raggiunto - tradotto in inglese - un gran numero di lettori; ma, più ancora, per il film di Duilio Coletti
Sotto dieci bandiere (1960), una produzione italio-americana che mette particolarmente in evidenza le doti umane del comandante tedesco, impersonato dall'attore Van Heflin. Ma il
Pinguin meriterebbe di essere ricordato anche di più, se è vero che, nella carriera di una nave corsara, oltre al numero delle prede (che Mohr, assai impropriamente, chiama
vittorie) e al tonnellaggio delle navi nemiche affondate, contano elementi di valutazione di tipo meno appariscente, ma non meno significativi, quali l'audacia, la determinazione e la capacità di improvvisare una linea d'azione, anche nelle situazioni più difficili o impreviste.
3. La crociera della nave corsara Komet e l'attacco all'isola di Nauru (luglio 1940 - novembre 1941)
Come già era accaduto nel corso della prima guerra mondiale, anche nella seconda la Marina tedesca affidò ad alcuni incrociatori ausiliari il compito di forzare il blocco inglese nel Mare del Nord e nel Canale della Manica, per condurre la guerra di corsa contro il traffico mercantile alleato insieme alle ben più numerose e agguerrite flottiglie di
U-Boote. Si trattava di una strategia ispirata a criteri di economia, dovendosi semplicemente riadattare alcune parti di comuni navi mercantili e dotarle di un modesto armamento, per essere in condizioni di infliggere al nemico danni potenzialmente assai gravi.
Nel periodo 1939-45 furono nove le unità corsare di superficie allestite dalla Germania, la maggior parte delle quali riuscì a tornare in patria, forzando il blocco una seconda volta, e affondando complessivamente 800.000 tonnellate di naviglio alleato. A differenza dei sommergibili, gli incrociatori ausiliari erano non solo molto più visibili (benché adottassero un opportuno travestimento per camuffarsi da navi di Paesi neutrali), ma anche più vulnerabili in termini di autonomia, dovendo sempre dipendere dai rifornimenti di combustibile - ai quali erano addette alcune navi-appoggio - o che dovevano procurarsi da sé, catturando delle navi nemiche che ne trasportassero.
In ogni caso, il rifornimento doveva essere effettuato in alto mare, oppure in qualche località disabitata, come le Isole Kerguelen, nella parte più meridionale dell'Oceano Indiano, lontano da occhi indiscreti. Gli unici porti amici erano quelli controllati dai Giapponesi, che, dalla metà del 1942, comprendevano le ex Indie Orientali Olandesi, la Malesia e Singapore; e dagli Italiani (che però, a partire dai primi mesi del 1941, perdettero le colonie dell'Africa Orientale e conservarono a stento la Libia e il Dodecaneso).
Impossibile pensare anche all'utilizzo dei porti neutrali, nei quali le leggi internazionali davano accesso alle navi delle marine belligeranti per una sosta di sole 24 ore, pena l'internamento; senza contare il pericolo che le interferenze diplomatiche inglesi (e, più tardi, americane) forzassero i Paesi neutrali ad un comportamento poco amichevole verso le navi tedesche, come si vide - nel dicembre del 1939 - in occasione dell'
affaire relativo alla «corazzata tascabile»
Graf von Spee del comandante Langfsdorff, che si era rifugiata, in avaria, nel porto uruguaiano di Montevideo; e, prima ancora, in quello della nave-appoggio
Altmark.
Il più piccolo dei nove incrociatori ausiliari tedeschi impiegati nel corso della seconda guerra mondiale, ma uno dei più audaci e fortunati, fu il
Komet, che aveva una stazza di 3.800 tonnellate, una lunghezza di 115 metri e una larghezza di 15, e che viaggiava alla velocità assai modesta di circa 15 nodi. L'armamento principale consisteva in 6 cannoni da 150 mm.; l'equipaggio era formato da 19 ufficiali e 251 marinai.
Noto anche come
HSK 7 (
HSK era l'abbreviazione di
Hilfskreuzer, ossia incrociatore ausiliario) o, semplicemente, come
Schiff 45 (Nave 45), era stato costruito nel 1937, solo due anni prima dello scoppio della guerra, come semplice nave da carico, denominata
Ems. I lavori di trasformazione in nave da guerra ebbero luogo fra il 1939 e il 1940 e richiesero particolari accorgimenti, tra i quali il rinforzamento della prua, poiché la sua rotta iniziale avrebbe dovuto portarlo nei mari polari e consentirgli di aprirsi un varco in mezzo ai ghiacci galleggianti.
Il comando venne affidato a un ufficiale abile, esperto e molto coraggioso, il capitano di vascello Robert Eyssen, il quale non si sgomentò quando gli venne spiegato che avrebbe dovuto portarsi direttamente nell'Oceano Pacifico attraverso una rotta che non era mai stata tentata da esseri umani dopo l'impresa del forzamento del cosiddetto «Passaggio a nord-Est» da parte dell'esploratore svedese Adolf Erik Nils Nordenskjöld, con la nave
Vega, nel 1877-79.
Salpato da Gotenhaven il 3 luglio 1940 e, travestito da piroscafo norvegese con il falso nome di
Donau, dopo aver costeggiato la Scandinavia e aver doppiato Capo Nord, il
Komet diresse verso Arcangelo; ma, oltrepassata la Penisola di Kola, invece di entrare nel Mar Bianco, proseguì nel mare di Barents fino alla Novaja Zemlja; indi, insinuatosi fra quest'ultima e la Penisola Vaigac, penetrò nel Mar di Kara, fuori da ogni rotta commerciale.
Per settimane la nave tedesca mantenne la prua in direzione Est, incuneandosi fra la banchisa polare e le coste gelate e deserte della Siberia, spesso dovendo aprirsi a forza la via nel
pack, con l'idrovolante di bordo che si levava in volo per indicare la miglior direzione da prendere nel dedalo dei ghiacci galleggianti.
Fu un'impresa nautica di primissimo ordine, quella compiuta dal
Komet in quella prima fase della sua lunghissima crociera, avvalendosi della benevola neutralità delle autorità sovietiche (era ancora in vigore il patto tedesco-sovietico dell'agosto 1939); degna, già essa sola, di porre il comandante Eyssen e il suo equipaggio nel libro d'oro delle grandi imprese marinare.
Finalmente, dopo aver attraversato il Mar dei Laptev e il Mare della Siberia Orientale, l'incrociatore ausiliario oltrepassò il Capo Deznev e scivolò nello Stretto di Behring, entrando nell'aperto Oceano Pacifico, dopo circa un mese di navigazione pericolosa e difficilissima.
Qui giunto, assunse un nuovo camuffamento, quello del cargo giapponese
Ideti Maru, riverniciando lo scafo e adottando alcune modifiche alle sovrastrutture. Tale trasformazione ebbe luogo in un angolo nascosto del Golfo di Anadyr; dopo di che, la
Schiff 45 iniziò la sua avventurosa carriera di nave corsara, piombando del tutto inaspettata sulle navi britanniche in navigazione nel Pacifico occidentale. Vi fu anche un incontro con un altro incrociatore ausiliario, l'
Orion, comandato dal capitano di vascello Weyber e anch'esso destinato a compiere gesta notevoli.
La prima preda fatta dal
Komet dopo la separazione dalla nave «collega», fu il vapore inglese
Holmwood, non lungi dall'isola di Marcus, il 25 novembre 1940; il giorno dopo, fu la volta della grande nave passeggeri
Rangitane, di ben 16.700 tonnellate. Entrambe vennero colate a picco e i loro equipaggi furono presi a bordo prigionieri, non prima che i tedeschi avessero prelevato quanto poteva tornare utile alle loro necessità. Dopo aver scorrazzato fra gli arcipelaghi della Micronesia e della Melanesia, alla fine del dicembre 1940 il comandante Eyssen decise di compiere la sua impresa più spettacolare, l'attacco ai ricchissimi depositi di fosfati dell'isola Nauru (possedimento britannico situato fra le Isole Salomone e le Isole Gilbert), che costituivano una delle maggiori fonti di approvvigionamento strategico dell'industria bellica inglese.
Nella prima guerra mondiale, le azioni delle navi corsare contro la terraferma, comportanti uno sbarco di parte dell'equipaggio, si erano spesso rivelate disastrose: si pensi al taglio del cavo sottomarino delle Isole Cocos da parte dell'incrociatore
Emden o, anche, al progettato sbarco a Port Stanley, nelle Falkland, da parte della squadra di von Spee (cfr., rispettivamente, i nostri articoli
La crociera dell'incrociatore Emden e la battaglia delle isole Cocos, 9 novembre 1914; e
L'ultima crociera dell'Ammiraglio Spee. Battaglie navali di Coronel e Falkland, novembre-dicembre 1914).
Questa volta, però, il comandate Eyssen poteva contare sul fattore sorpresa; cosa che non si era verificata per il tentativo di sbarco di von Spee alle Isole Falkland, allorché l'intera popolazione civile, comprese le vecchie signore, armata di cannocchiale, si erano messa a scrutare l'orizzonte, pronta a dare l'allarme al primo segnale di fumo che fosse comparso all'orizzonte.
Così descrive l'attacco all'isola di Nauru il saggista italiano Massimo Picollo nel suo libro
Gli incrociatori corsari tedeschi. Le navi del tradimento (Giovanni De Vecchi Editore, Milano, 1971, pp. 29-33):
Quando ormai Sturm sparisce oltre l'orizzonte, il Komet
vira bruscamente di 120° a dritta e fa rotta verso Nord-Est. Da questo momento inizia a prendere corpo l'operazione 27, quell'impresa concepita e minutamente preparata dal comandante dello Schiff
45, mentre si dirigeva verso Sturm, e che renderà famoso per l'audacia e l'intraprendenza dell'azione il Komet
ed il suo equipaggio: attaccare e rendere improduttiva per il maggior periodo possibile l'isola di Nauru.
Nauru è un atollo di 21 chilometri quadrati che sorge tutto solo sulla distesa dell'oceano a mezza strada tra le Gilbert e le Salomone. Tra militari inglesi, civili ed indigeni, la popolazione non arriva alle duemila persone. A vederlo da lontano sembra l'angolo più sperduto e pacifico del globo, ma in realtà esso ha un'importanza enorme e dal punto di vista economico e da quello militare. Infatti lì si trovano i più grandi depositi di fosfati di tutta la Micronesia, e le industrie belliche inglesi hanno un estremo bisogno di tali materiali, specialmente ora che stanno producendo il massimo sforzo per ridurre le distanze nei confronti del potenziale bellico tedesco. La vita sull'atollo è quindi un continuo andirivieni di autocarri dai depositi alle banchine,. E di navi che si susseguono sotto le gru di carico. Così mentre le marine del Commonwealth cercano affannosamente un mercantile armato tedesco a sud delle Gilbert, ad alcune centinaia di miglia più a nord-est il Komet
naviga tranquillamente verso la sua preda. Una preda non più rappresentata da una nave, ma da un'isola. E' un'azione completamente diversa da quelle compiute finora: prima il corsaro incrociava alla cieca, o al massimo si dirigeva verso quelle acque che presumeva fossero frequentate da naviglio nemico; ora invece Eyssen sa dove andare, cosa lo aspetta e cosa fare: a un certo momento dritto di prua scorgerà all'orizzonte un punto nero, che man mano si ingrandirà sino a prendere le sembianze della ignara preda.
I preparativi a bordo dello Schiff
45 sono alacri e come al solito meticolosi. Per prima cosa il Komet
provvede all'ormai consueto cambio d'abito: indossa le vesti del cargo nipponico Mango Maru
che a Eyssen risulta al momento attraccato ai moli del porto di Amburgo. Cambia la colorazione delle fiancate; il cassero si arricchisce agli angoli di quattro alte maniche a vento; sui lati esterni delle murate appaiono le bandiere dell'Impero del Sol Levante. Anche questo, come i precedenti travestimenti, risulterà accuratissimo, tanto che gli inglesi di Nauru, finché non sentirono parlare tedesco, credettero di trovarsi di fronte un pacifico mercantile giapponese.
Preparata la nave, ora bisogna preparare gli uomini. Eyssen lascia che essi festeggino il secondo Natale di guerra e che si scambino i doni, più che altro per lasciarli svagare un po'. Quindi raduna gli ufficiali nel quadrato. Spiega sul grande tavolo una dettagliata carta di Nauru e con una matita rossa segna tanti circoli quanti sono i depositi di fosfati, quelli di carburante, la centrale radio e il comando militare. Sa che la guarnigione non supera i duecento uomini, e soprattutto sa che gli inglesi non l'aspettano. Vengono formate le squadre che dovranno occuparsi dei singoli obiettivi, a eccezione della stazione radio di cui si prenderanno subito cura, senza evidente possibilità di errore, i cannoni del Komet
. Ormai tutto è preparato e previsto. Ai corsari non resta che togliere dalla naftalina la loro più smagliante divisa e aspettare.
A 60 miglia da Nauru il Komet
si mette in ascolto radio. La prima cosa che i tedeschi sentono è un colloquio tra l'operatore dell'isola e un suo collega a bordo di un mercantile che chiede il permesso per l'attracco. Poi alcuni disturbi e quindi un brano di discorso in merito ad un presunto attacco di appendicite di un capo tribù locale che non ne vuole sapere di farsi curare. In complesso niente da cui possa arguirsi che gli inglesi aspettino una visita inattesa e sgradita. Nel giorno di San Silvestro lo Schiff
45 è in vista dell'isola. Incomincia allora ad avanzare a zig-zag quasi governi solo con un'elica e con il timone. Subito la ricevente della nave incomincia ad emettere suoni dalla tipica cadenza albionica. Eyssen fa rispondere all'operatore, un nativo di Monaco, perfetto conoscitore dell'inglese e che per molti anni ha vissuto a Kyoto, che il Mangu Maru, mercantile della flotta del Sol Levante, carico di caucciù della Nuova Guinea, chiede di poter attraccare per riparare l'asse dell'elica di dritta che si è flesso. Alcuni minuti di silenzio perché gli inglesi possano controllare l'effettiva esistenza del mercantile giapponese nei ruoli navali e poi giunge autorizzazione. Non c'è tempo di complimentarsi con il radiotelegrafista per la perfetta recita che ogni uomo è pronto al suo posto.
Come il Komet
si presenta all'ingresso in rada leggermente sbandato, subito riceve l'ordine di ancorarsi alla fonda in attesa che si liberi uno degli attracchi al momento tutti occupati da navi impegnate nelle operazioni di carico. Eyssen conta due grosse petroliere da almeno 2.500 tonnellate, un paio di carghi non molto più grandi del Komet
ed una modernissima bananiera, certo da poco discesa dagli scali.
Il corsaro si mette al traverso per calare le ancore, ma invece di queste cala la sezione di fiancata di prua che nasconde sotto il falso ponte il cannone da 150 di dritta. La lunga volata punta sulla bianca palazzina sormontata dalla grande antenna radio: un breve rinculo e la costruzione esplode come un fuoco d'artificio. Lo stupore e la sorpresa a terra sono assolute. Solo la bianca nuvoletta che si leva dalla bocca del pezzo può indicare l'autore di tanto sconquasso. Ma il rombo della cannonata non si è ancora spento che già i piccoli cannoncini da 37 millimetri del Komet
riducono a contorte ferraglie le due mitragliatrici pesanti contraeree piazzate dagli inglesi all'ingresso della rada, e già abbandonate dai serventi che erano accorsi, come tutti, a vedere cosa fosse successo ala centrale radio. Solo quando Eyssen fa innalzare sull'albero di maestra la bandiera di combattimento della Kriegsmarine
, calare in mare le motobarche con le squadre da sbarco e chiedere al megafono la resa, pena la immediata totale distruzione, gli inglesi si rendono conto che il pacifico e malconcio cargo giapponese è in realtà una nave armata tedesca. L'impressione a terra è simile a quella che dovevano provare i pacifici abitanti di una cittadina costiera delle Antille ai tempi di Morgan vedendosi assaliti da un vascello pirata. I civili presenti al porto, almeno i bianchi che sanno che l'Inghilterra è in guerra con la Germania, se la danno a gambe verso l'interno; gli indigeni restano invece paralizzati più dallo stupore che dalla paura, non riuscendo a concepire come dei bianchi venuti da chissà dove possano prendere a cannonate degli altri bianchi.
Quando Eyssen sbarca sull'isola si vede venire incontro il residente inglese, un po' bruciacchiato ed impolverato in quanto si trovava al pian terreno della stazione radio e inoltre piuttosto seccato, non potendo perdonare ai tedeschi, tra l'altro, di avergli mandato a monte il cenone di fine d'anno. Le squadre tedesche avevano ormai preso possesso dei punti chiave di Nauru, senza incontrare la più pallida resistenza. Anzi, nella confusione generale qualche ufficiale di Sua Maestà, rimasto ancora alla bandiera nipponica innalzata sul Komet
, era fermamente convinto che il Giappone aveva dichiarato guerra all'impero britannico, bestemmiando perché era stato informato di ciò direttamente dai giapponesi. Gli inglesi non possono fare altro che arrendersi. Eyssen fa imbarcare tutti gli uomini non indispensabili a terra e ordina ai rimasti di rendere inutilizzabili le poche armi pesanti ancora efficienti nell'isola. Vengono quindi accuratamente minati tutti i serbatoi di nafta, le installazioni portuali e militari, i depositi di viveri e di fosfati, non senza aver prima prelevato tutto ciò che poteva tornar utile. Una mezza dozzina di cannonate ben dirette sistemano le navi alle banchine, e mentre alte cortine di fiamme e di fumo si levano dall'atollo, il Komet
lascia la rada tranquillamente come era venuto, tra il sollievo generale dei polinesiani che, osservando la poppa della nave corsara che si allontana, vedono ritornare contemporaneamente un po' di pace. Non è passata un'ora dalla partenza del corsaro, che dalla curva dell'orizzonte sale il pennacchio nero di un mercantile che deve riempire le stive con i fosfati di Nauru.
Dopo questa impresa altamente spettacolare, il comandante Eyssen decise, saggiamente, di portare la sua nave in una zona dove il nemico, messo in allarme e deciso a vendicare l'affronto, non la potesse trovare facilmente; e, volta la prua a sud, raggiunse le acque dell'Antartide, passando così, inosservato, nell'Oceano Indiano.
Qui, per qualche tempo, concesse agli uomini e alla nave una pausa, in un ancoraggio segreto nelle remote isole Kerguelen, nominalmente territorio francese ma, in effetti, disabitate, e quindi al sicuro da possibili sorprese; tanto più che l'arcipelago - situato oltre il 50° parallelo Sud - era posto molto lontano dalle normali rotte di navigazione commerciale. Proprio la relativa sicurezza del luogo ne fece, durante la guerra, una delle più frequentate basi delle navi corsare tedesche; il
Komet, infatti, vi incontrò un altro incrociatore ausiliario destinato a una notevolissima carriera, il
Pinguin. Il paesaggio, peraltro, era tetro e opprimente, il clima freddo ed estremamente umido. Per cui non fu senza un certo sollievo che, infine, i marinai del
Komet accolsero la decisione del loro comandante di levare le ancore da quel pur sicuro rifugio e dirigere la prua a Nord-Ovest, verso il Madagascar.
Non trovando prede, la nave corsara - dopo aver effettuato un rifornimento di carburante, in luglio, dalla nave-cisterna
Anneliese -, doppiò il capo di Buona Speranza; indi attraversò l'Atlantico meridionale e, per la rotta di Capo Horn, passò nuovamente nel Pacifico, questa volta proveniente da Sud-Est.
Risalita fino alla linea dell'Equatore, la nave corsara individuò allora un buon campo di caccia nei paraggi delle Isole Galapagos, ove riuscì a catturare e affondare diverse navi mercantili alleate, tra le quali l'
Australind, di 5.000 tonnellate, e il
Devon, di 9.000. Poco dopo il
Komet ebbe anche un incontro con il famoso corsaro
Atlantis del capitano Rogge, dopo di che riprese la rotta del Capo Horn e tornò in Atlantico per tentare il rientro in patria, trascinandosi dietro l'ultima nave mercantile catturata, l'olandese
Kota Nopan, stipata di prigionieri. In quest'ultima fase della sua crociera, la
Schiff 45 abbandonò le sembianze del mercantile giapponese
Ideti Maru per assumere il suo ultimo travestimento, quello del portoghese
S. Thomé, riverniciando interamente lo scafo, le sovrastrutture, gli alberi e il fumaiolo.
La sua crociera sarebbe, tuttavia, finita tragicamente prima di aver tagliato la linea dell'Equatore, se due cacciatorpediniere britannici, che l'avevano fermata, non fossero stati sorpresi a loro volta da un sommergibile tedesco, che ne affondò uno e mise in fuga l'altro.
Così, dopo avere imboccato il Canale di Danimarca, il
Komet riuscì a superare per la seconda volta il blocco inglese nel Mare del Nord e ad entrare nel porto di Kiel, sano e salvo, il 30 novembre 1941, fiero dei successi riportati. In questa prima crociera, la nave del comandante Eyssen si era spinta in tutti e tre gli oceani, entrando nel Pacifico addirittura due volte; aveva ripercorso il leggendario «Passaggio a Nord-est», costeggiando la Siberia settentrionale; aveva navigato fra i ghiacci antartici, passando a sud dell'Australia; e aveva catturato dieci navi alleate, colandone a picco nove (per una stazza complessiva di 64.500 tonnellate) e portando in Germania l'ultima.
Il
Komet tentò di intraprendere una seconda crociera nell'ottobre del 1942; ma, questa volta, la fortuna - che lo aveva generosamente assistito nella prima - lo abbandonò di colpo. Poco dopo aver lasciato la Germania, infatti, venne sorpreso e affondato da una silurante inglese nel Canale della Manica, attraverso il quale aveva cercato di passare in Atlantico. Questa volta non lo comandava il capitano Eyssen, ma il capitano Ulrich Brocksien, che trovò la morte nelle onde, insieme all'intero l'equipaggio.
4. La crociera della nave corsara Kormoran (3 dicembre 1940 - 19 novembre 1941)
La crociera della nave corsara
Kormoran, del capitano di corvetta Detmers, è stata, insieme a quella del
Pinguin, la più gloriosa e la più drammatica fra quelle di tutte le sue consorelle, terminando con la distruzione e l'affondamento, ma anche con la distruzione e l'affondamento dell'incrociatore australiano che ne provocò la fine. Questo combattimento all'ultimo sangue, dal quale entrambe le navi in lotta escono annientate, illumina di un bagliore corrusco l'intera vicenda del
Kormoran, e getta una luce particolare sul comandante e sull'equipaggio, che hanno saputo conquistati il rispetto del nemico andando incontro al sacrificio di sé.
Altri capitani, come il capitano Rogge dell'
Atlantis, avrebbero preferito - forse - abbandonare la propria nave, pur senza ammainare la bandiera, e consegnarsi al destino a bordo delle scialuppe di salvataggio. Detmers era fatto di un'altra pasta, e lo dimostrò con la superba coerenza del suo ultimo cimento (cfr. i nostri precedenti articoli
La crociera della nave corsara «Pinguin», 22 giugno 1940 - 9 maggio 1941, e
La crociera della nave corsara «>Atlantis», 11 marzo 1940 - 22 novembre 1941).
L'esito della battaglia che pose fine alla carriera del
Kormoran, ma che vide anche la distruzione dell'incrociatore
Sydney (omonimo di quello che, il 9 novembre 1914, aveva posto fine alla crociera del tedesco
Emden presso le Isole Cocos), lasciò di stucco gli esperti di cose navali: perché, oltre ad avere un armamento di gran lunga superiore, la nave australiana era potentemente corazzata: si trattava, infatti, di un incrociatore pesante e non di un incrociatore leggero, come quello che trentasette anni prima, aveva troncato la brillante carriera di corsaro del comandante von Müller; e le sue piastre di metallo avrebbero dovuto reggere meglio alle bordate da 105 mm. del suo avversario.
Ha osservato, infatti, Giorgio Giorgerini, nella sua monumentale opera
Storia della Marina (Fratelli Fabbri Editori, Milano, 1978, vol. IV, p. 1.o78):
Il Kormoran
, che aveva potuto navigare per 352 giorni ottenendo 11 successi, era stato intercettato il 19 novembre 1941, circa 200 miglia a ponente dell'Australia, dall'incrociatore Sydney
. Il duello, apparentemente del tutto impari, ebbe un esito inatteso: la distruzione di entrambe le navi, nonostante la corazza da 102 mm. che avrebbe dovuto proteggere l'incrociatore australiano.
Il
Kormoran, la più grande delle navi corsare tedesche nella seconda guerra mondiale, con una stazza lorda di poco inferiore alle 10.000 tonnellate, era stata varata in tempo di pace, il 18 aprile 1939, con il nome originario di
Steirmark e destinata a svolgere le pacifiche funzioni di una nave mercantile sulle rotte dell'Asia orientale.
Ma, scoppiata la guerra pochi mesi dopo, l'Ammiragliato di Berlino decise di requisirla e di trasformarla in incrociatore ausiliario, iscrivendola nei ruoli della Marina da guerra con il nome in codice di
Schiff 41, la Nave 41.
Anche un corsaro tedesco della prima guerra mondiale aveva navigato con il nome di
Cormoran (con la C iniziale, però, invece della K) e aveva fatto parte, per un breve periodo, alla squadra degli incrociatori dell'Estremo Oriente dell'Ammiraglio Spee, prima di venire distaccato, in funzione diversiva, nelle acque dell'Australia, mentre il grosso della squadra puntava, attraverso il Pacifico, in direzione della costa occidentale del Sud America.
Il
Kormoran del capitano Detmers dislocava 9.400 tonnellate ed era lungo 164 metri, largo venti e aveva un pescaggio di otto metri e mezzo. Era stato dotato, nel corso dei lavori di trasformazione in incrociatore ausiliario, di un armamento di 6 cannoni da 155 mm., alcuni pezzi di minor calibro, 6 tubi lanciasiluri e una catapulta per due aerei (come il
Pinguin). Trasportava inoltre un carico di 360 mine, che avrebbe dovuto depositare davanti ai punti strategici sulle rotte più frequentate dal naviglio mercantile alleato. La velocità massima poteva essere portata, in caso di necessità, fino a 18 nodi: cosa piuttosto rara per una nave di quella classe e di quella stazza; mentre il combustibile imbarcato le garantiva una autonomia di ben 70.000 miglia. L'equipaggio era formato da 420 marinai e 15 ufficiali, tutto personale scelto e fortemente motivato.
Theodor Detmers, benché giovane (era il più giovane comandante di incrociatori della Marina tedesca) possedeva una considerevole esperienza; aveva partecipato alla campagna di Norvegia, restandovi ferito, ed era stato comandante di un cacciatorpediniere, prima di venire distaccato ad Amburgo e Kiel per seguire i lavori della sua nuova unità, il
Kormoran.
Salpata il 3 dicembre 1940 dal porto di Gotenhafen presso Danzica (in polacco, Gdynia, la nave corsara riuscì a sgusciare, col favore del cattivo tempo invernale, attraverso le maglie del blocco navale britannico nel Mare del Nord; e, imboccata la via più lunga e resa più pericolosa dagli icebergs, ma molto più sicura, del Canale di Danimarca, si portò nelle acque dell'aperto Oceano Atlantico, il 13 dicembre.
Mascherata da nave russa, la
Viaceslav Molotov, percorse buona parte dell'Atlantico senza tradire la sua presenza, e attese fino al 3 gennaio 1941 per fare la sua prima preda, il piroscafo greco
Antonis; poi, il 18 gennaio, la petroliera
British Union, che tentò di resistere e che dovette essere affondata a cannonate; e poi ancora l'
Eurylochus, l'
Agnita e la
Canadolite, quest'ultima di ben 10.300 tonnellate.
Non possiamo ricordare tutte le catture del
Kormoran. Diremo soltanto che, in totale, esso affondò 12 navi alleate, delle quali 8 nell'Oceano Atlantico e 4 nell'Oceano Indiano, per un totale di quasi 75.000 tonnellate. Si spinse in tutti e tre gli oceani del globo, depose campi di mine davanti alle coste del Sud Africa, a quelle dell'India (presso Madras) e a quelle dell'Australia, navigando per 352 giorni, senza mai lasciarsi individuare e costringendo numerose navi da guerra nemiche a distogliersi dai loro compiti per dargli la caccia.
Va rilevato che Detmers si dimostrò un ottimo comandante anche dal punto di vista umano, perché sua costante preoccupazione fu quella di mantenere alto il morale del suo equipaggio, organizzando - nei momenti di pausa - spettacoli e intrattenimenti a bordo della nave, in modo da combattere la monotonia e la stanchezza di una così lunga permanenza in mare, senza mai poter fare scalo in un porto amico né avere alcun contatto diretto con il mondo esterno, se non attraverso gli equipaggi fatti prigionieri.
Giungiamo, così, a quel drammatico 19 novembre 1941, l'ultimo della crociera del
Kormoran, in cui la sua rotta si incrociò, alle ore 16,00, con quella del
Sydney del capitano Burnett; mentre, alle 17,30 le due navi ingaggiarono il loro ultimo combattimento. Un poeta antico avrebbe osservato che un lotta così epica avrebbe meritato un vasto pubblico, mentre nessun testimone vide i prodigi di valore e la tragica fine dei due vascelli avversari. Ciò avvenne in mare aperto, in un punto dell'Oceano Indiano occidentale non lontano dall'Australia: dunque, significativa coincidenza, a non troppa distanza da dove un altro
Sydney, nella prima guerra mondiale, aveva sorpreso e distrutto l'Emden, che era finito incagliato su un banco corallino delle Isole Cocos.
Così descrive la tragica fine del
Kormoran il saggista italiano Massimo Picollo nel suo bel volume
Gli incrociatori corsari tedeschi. Le navi del tradimento (Giovanni De Vecchi Editore, Milano, 1971, pp. 54-57):
Da oltre quattordici mesi il corsaro tedesco è lontano da porti amici. Ha accumulato un attivo di 75.000 tonnellate di naviglio nemico colato a picco. Ha percorso le acque di due oceani per decine di migliaia di miglia. Non è mai venuto meno alle regole della guerra cavalleresca e ai principi di umanità che ispirano la Convenzione di Ginevra. Più volte ha messo a repentaglio la propria sicurezza, piuttosto che abbandonare alla loro sorte di naufraghi gli equipaggi nemici.
Per l'ultima volta si reca all'appuntamento con la sua nave rifornitrice; per l'ultima volta sbarca i prigionieri e imbarca viveri, combustibile e munizioni. Per l'ultima volta vede sorgere all'orizzonte il sole. E' il sole che inonda di luce il 19 novembre 1941 e fa scintillare lontano le corazzature di una nave da guerra. Si tratta del Sydney
, incrociatore pesante australiano di 7.000 tonnellate della classe Perth, armato con otto cannoni da 152, che il suo comandante, capitano J. Burnett, da settimane conduceva alla ricerca di un fantomatico corsaro che da troppo tempo terrorizzava quelle acque.
E' ormai troppo tardi per evitare un combattimento che si annuncia impari. Troppo veloce e troppo ben armato, il Sydney
. A Detmers non resta che giocare d'astuzia il più a lungo possibile onde guadagnare tempo per portarsi a gettata utile dei suoi cannoni assai meno potenti di quelli dell'incrociatore australiano.
Il Sydney
inizia a segnalare intimazioni di fermo. Il Kormoran
, che al momento indossa la vesti del piroscafo olandese Straat Malacca
tarda a rispondere fin quando possibile, poi richiede a sua volta il nominativo all'incrociatore. Trasmette lentamente, con studiata lentezza, usando le bandiere invece che i riflettori, ed intanto si dispone in rotta convergente con il Sydney
e stringe le distanze. Il nemico intima di nuovo l'alt, perentoriamente e chiaramente per l'ultima volta.
Ma lo Schiff
41 è ormai a 800 metri dal bordo dell'incrociatore. Dal corsaro si vedono tutti i particolari: gli uomini ai posti di combattimento, il frenetico movimento sul ponte, l'aereo pronto a levarsi in volo dalla catapulta.
Finalmente Detmers comunica di essere disposto a ricevere a bordo una squadra d'ispezione, ed il Sydney
si avvicina decisamente. La distanza tra le due navi non supera ora i cento metri. Il gioco è riuscito.
La bandiera olandese sparisce improvvisamente dal pennone e al suo posto appare la bandiera di combattimento della Kriegsmarine
. Contemporaneamente cadono le finte fiancate, si levano le volute dei pezzi da 150 e appaiono i tubi lanciasiluri.
Solo sei secondi
ed ecco che esplode la prima bordata del Kormoran
. Un'altra la segue e poi una terza. Le salve squarciano le fiancate esposte del Sydney
. La prima torre prodiera giace riversa dai cardini con i pezzi da 152 che pietosamente puntano il cielo. L'aereo, scaraventato dai suoi supporti, galleggia semidistrutto in acqua. Tutta la nave è avvolta in una nube di fumo denso e acre, rotto solo dalle lingue di fuoco che s'innalzano dai boccaporti e dalla fiancata lacerata.
Tre minuti di panico a bordo dell'incrociatore ma anche gli australiani aprono il fuoco. Dapprima con tiri sporadici ed imprecisi, perché anche la centrale di tiro è stata colpita. Ma la distanza è troppo breve. I primi colpi incominciano a cadere sul Kormoran
e a seminare la morte. Detmers riesce a evitare un lancio di siluri, ma anche i suoi cannoni non sono ormai che ferraglie contorte. I tre pezzi di dritta, però, sono ancora efficienti. Lo Schiff
41 vira lentamente di 180° e si presenta al Sydney
con la fiancata intatta. I suoi pezzi iniziano a vomitare ferro e fuoco, che inesorabilmente martellano il Sydney
. Ma ormai le fiamme che divampano a bordo del corsaro hanno raggiunto la sala macchine. Un'enorme esplosione nel cuore della nave ed il Kormoran
sussulta come squassato da un gigantesco maglio. La nave è ormai definitivamente ferma, perduta.
Ma anche il Sydney
non è in condizioni migliori. Imbarcato di 35° si allontana lentamente, sprigionando cortine di fumo e vomitando nafta. Sul Kormoran
, in sala macchine, nessuno risponde. La nave è devastata da poppa a prua. Niente la può ormai salvare. Detmers ordina di calare le poche scialuppe utilizzabili e le zattere di sughero. Trecentoventi uomini si aggrappano a questi fragili gusci, fissando attoniti la loro nave che inesorabilmente sprofonda finché sulla imperturbabile superficie dell'oceano non restano che i naufraghi con le loro scialuppe, i loro relitti e una grande stretta nell'intimo.
Lontano, nella direzione presa dal Sydney
un bagliore enorme squarcia le tenebre che ormai erano scese. Alle ore 21 del 19 novembre 1941 l'incrociatore pesante Sydney
, orgoglio della marina australiana, salta in aria con i suoi 644 uomini e scompare con tutto l'equipaggio tra i flutti. I superstiti del Kormoran
verranno raccolti il giorno seguente da navi pattuglia nemiche e termineranno la loro guerra internati in un campo di prigionia sulla costa settentrionale della Australia.
Impossibilitato a domare gli incendi scoppiati a bordo, Detmers era stato costretto a ordinare ai suoi marinai di abbandonare la nave. A causa della scarsezza delle scialuppe, molte delle quali erano andate distrutte nel combattimento, parecchi uomini finirono in mare; e la loro ricerca, nell'oscurità della notte, fu angosciosa e difficile. Alla fine, ben 80 uomini risultarono mancanti all'appello: gran parte di loro erano periti nell'affondamento di uno dei canotti.
La raccolta dei naufraghi ebbe termine solo verso l'una di notte, e solo allora il comandante si decise ad abbandonare la nave per salire, a sua volta, su di una scialuppa. Soltanto venti minuti dopo, il
Kormoran esplose, allorché le fiamme raggiunsero i locali dove erano collocate le mine non ancora depositate in mare; e la bella nave colò a picco nella notte, con la bandiera di guerra che garriva al vento.
Trascorsero parecchi giorni, prima che una unità australiana raccogliesse quegli uomini alla deriva. Lo spazio era così angusto sulle zattere, che i superstiti erano stati costretti a riposare a turno, mentre i loro compagni si tenevano ritti in piedi. Il trattamento nei campi di prigionia fu corretto; ma solo dopo la fine della guerra, circa cinque anni dopo, Detmers e gli altri scampati alla morte poterono fare ritorno in patria e raccontare a parenti ed amici - quelli che erano sopravvissuti all'immane catastrofe - le loro imprese a bordo della più grande nave corsara dei tempi moderni.
Quanto al
Sydney, esso era atteso nel porto di Freemantle nel pomeriggio del 20 novembre. Poiché era sotto silenzio radio, non ci si preoccupò del suo mancato arrivo, fino a che gli venne ordinato di rompere tale silenzio e di segnalare la sua posizione; ma non ci fu risposta alcuna.
Scattarono allora le ricerche, sia con le navi che con gli aerei; e fu allora che i 315 uomini del
Kormoran vennero scoperti e tratti in salvo. Del
Sydney, invece, non venne trovata alcuna traccia, nemmeno una macchia di nafta o un cadavere galleggiante. Il mare aveva inghiottito anche il più piccolo resto dello sfortunato incrociatore australiano che, per l'ingenuità o l'imprudenza del suo comandante, si era avvicinato oltre ogni margine di sicurezza alla nave corsara, esponendosi a una inattesa e totale distruzione.
Le ricerche vennero definitivamente sospese il 29 novembre e la nave dichiarata ufficialmente dispersa, con un comunicato ufficiale, il 1° dicembre. Solo una cintura di salvataggio e un battello pneumatico erano stati trovati, crivellati di colpi, che andavano alla deriva; e, più tardi, un corpo umano, che però non fu possibile identificare e non è detto che appartenesse all'equipaggio dell'incrociatore australiano. Del
Sydney, da allora, non si è mai più saputo nulla. E' diventato un mistero irrisolto del mare; uno dei tanti.
Per un ulteriore approfondimento, si rinvia alla lettura del libro di Gabriele Zaffiri,
Le navi corsare del Terzo Reich, Nicola Calabria Editore, Patti (Messina), 2005.
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