Fonte: Arianna Editrice
Questa pagina raccoglie sei articoli dedicati agli incrociatori corsari tedeschi nella Prima Guerra Mondiale.
- 1. LA CROCIERA DELL'INCROCIATORE EMDEN E LA BATTAGLIA DELLE ISOLE COCOS (9 novembre 1914)
- 2. UNA BATTAGLIA FRA DUE TRANSATLANTICI: CARMANIA E CAP TRAFALGAR (14 settembre 1914)
- 3. LA CROCIERA DELL'INCROCIATORE KÖNIGSBERG E LE AZIONI NAVALI NEL RUFIGI (6 e 11 luglio 1915)
- 4. LE DUE CROCIERE DELLA NAVE CORSARA MÖWE (dicembre 1915 - marzo 1917)
- 5. LA CROCIERA DEL CORSARO WOLF (30 novembre 1916 - 24 febbraio 1918)
- 6. LA CROCIERA DEL CORSARO SEEADLER (21 dicembre 1916 - 2 agosto 1917)
1. LA CROCIERA DELL'INCROCIATORE EMDEN E LA BATTAGLIA DELLE ISOLE COCOS (9 novembre 1914)
La crociera dell'incrociatore tedesco
Emden nella prima guerra mondiale e le notevoli gesta del suo cavalleresco comandante, Karl von Müller, costituiscono una pagina di storia particolarmente avventurosa e interessante, che reca ancora un sapore d'altri tempi.
Quella nave da guerra inafferrabile che cola a picco un bastimento mercantile dopo l'altro, mostrando la massima cortesia verso i suoi prigionieri; che penetra audacemente in un porto nemico ben munito e, dopo aver distrutto un incrociatore avversario, si ferma e torna indietro per porgere le scuse al capitano di un mercantile colpito per errore, prima di affrontare e distruggere una cannoniera che gli è venuta incontro, sono imprese che ricordano situazioni del passato, quando il valore individuale si sposava con la perizia tecnica, e la determinazione non escludeva un contegno umanissimo nei confronti del nemico, e specialmente dei civili.
Uno storico inglese ha scritto, a proposito di von Müller, che egli «
guadagnò l'ammirazione del nemico per l'abilità, lo spirito d'iniziativa e il coraggio con i quali combatté tanto a lungo, e per la cavalleria e il senso di umanità che dimostrò». E lo scrittore americano John Jennings, ha scritto, nel suo libro
Emden nave corsara (titolo originale
The Raider, 1963; tradizione italiana di Sebastiano Morin, Longanesi & C., Milano, 1968, pp. 4-5):
L'Emden
era dall'altra parte, durante il conflitto 1914-1918. Era nemico della Russia da principio, poi della Francia, poi dell'Inghilterra, e infine del Giappone, prima che la sua carriera fosse troncata da un incrociatore australiano. Sarebbe stato anche nemico nostro se fosse sopravvissuto abbastanza. E tuttavia neppure da parte dei suoi più acerrimi nemici v'è mai stata critica o disprezzo alcuno della sua condotta. Ha combattuto la sua guerra nell'unico modo che gli era possibile: nel modo che ci si attendeva da parte sua. Da solo e con onore, coraggiosamente, audacemente, con risolutezza e soprattutto con un tocco di generosità e cavalleria; qualità che sembrano ormai scomparse per sempre dalla guerra.
Se non possiamo ammirare i principi per i quali il suo equipaggio combatteva, bisogna pur riconoscere il coraggio delle loro convinzioni. Tutto ciò che fin dalla fanciullezza era stato insegnato loro a onorare, rispettare e venerare, si trovava a bordo; e dal momento in cui si distaccarono dalla squadra, fuori di Pahang, e diressero a sud per la loro solitaria missione nell'Oceano Indiano, non poteva esservi stato nella mente di ciascun uomo a bordo neppure un solo momento di dubbio circa il loro ultimo destino. Sapevano che con quell'atto stesso essi diventavano un bastimento senza porto, e uomini senza casa.
V'erano nel mondo pochi porti che fossero pronti a riceverli, e quei pochi si trovavano molto lontano, metà del giro del mondo, ed erano preclusi a loro. Solamente fino a che i viveri e il combustibile duravano essi potevano tener liberamente il mare. Dopo, la fine era ovvia: prima o poi la trappola doveva scattare e allora sarebbero stati presi. Per alcuni (quanti, chi poteva dirlo?) poteva significare soltanto la morte. Per altri vi sarebbe stata una vita che non era vita: ciechi, mutilati, storpi. Per i rimanenti, salvo per quei pochissimi che fossero riusciti con qualche impensato stratagemma a fuggire, vi sarebbe stata la vita da prigioniero di guerra per un tempo indefinito e in condizioni sconosciute.
E tuttavia anche sapendo tutto ciò nessuno di loro, neppure per un solo istante, ha esitato. Fino all'ultimo uomo rimasero saldi e leali verso gli ideali e le concezioni nelle quali credevano, ai principi che avevano giurato di difendere. Se poi quelle concezioni e principi fossero giusti o sbagliati non spetta a noi giudicare qui. Noi onoriamo gli uomini che avevano avuto la forza di far fronte al destino senza vacillare nel sostenere le loro credenze, e la nave che essi conducevano.
Abbiamo già avuto modo di delineare un profilo sintetico delle imprese dell'
Emden nell'articolo
L'ultima crociera dell'Ammiraglio Spee. Battaglie navali di Coronel e Falkland, novembre-dicembre 1914. In questa sede ne intendiamo tracciare un quadro un po' più dettagliato.
L'
Emden era un incrociatore leggero impostato nel 1906 nell'Arsenale di Danzica (allora città tedesca), varato il 26 maggio 1908 ed entrato in servizio effettivo il 10 luglio 1909. Come le altre navi della tedesche della medesima classe, era più piccolo, meno veloce, meno protetto e meno armato degli incrociatori leggeri britannici. In particolare, essendo dotato di cannoni da 105 mm., si trovava in condizioni di netta inferiorità rispetto ai pezzi da 152 delle navi inglesi. Ciò significava che, in caso di combattimento, il nemico avrebbe potuto colpirlo grazie alla sua gittata maggiore, nonché tenersi costantemente fuori tiro, mediante la superiore velocità.
L'
Emden dislocava 3.600 tonnellate (4.200 a pieno carico), era lungo 118 metri e largo 13,5, e pescava 5,5 metri. L'apparato motore consisteva di 2 motrici verticali a 3 cilindri a triplice espansione, alimentate da 12 caldaie a carbone, capaci di sviluppare una potenza di 13.500 cavalli e una velocità massima di 24 nodi. Il suo armamento comprendeva 10 cannoni da 105 mm., otto da 52 mm. e 2 lanciasiluri da 450 mm. La protezione orizzontale andava dai 20 agli 80 mm., con gli scudi dei cannoni di 50 mm.; le corazze metalliche del palco di comando erano di 100 mm.: anche da questo punto di vista, era una nave assai meno protetta delle similari unità della marina britannica.
L'equipaggio era formato da 18 ufficiali e 343 marinai. Lo comandava il conte Karl von Müller, capitano di fregata, nato ad Hannover nel 1873 da una famiglia di
Junkers prussiani; aveva dunque, allo scoppio della guerra, appena quarant'anni. Tra i suoi ufficiali vi era anche un nipote del Kaiser Guglielmo II, il principe Franz Josef Hohenzollern, che in seguito avrebbe narrato la crociera della nave corsara in un pregevole libro di memorie.
Quando scoppiò la prima guerra mondiale, l'
Emden si trovava in Estremo Oriente e faceva parte della Squadra degli incrociatori dell'Ammiraglio Maximilan von Spee, con base a Tsingtao. In quel momento la squadra era sparpagliata su di una vasta zona dell'Oceano Pacifico. L'Ammiraglio, con i due incrociatori corazzati
Scharnhorst e
Gneisenau e con alcune carboniere, si trovava all'ancora nell'isola di Ponapé nelle Caroline, sede di una antica e misteriosa civiltà che aveva costruito delle ciclopiche muraglie in pietra squadrata, di cui si potevano - e si possono - ancora ammirare i resti impressionanti. L'
Emden, invece, era rimasto a Tsingtao, la sentinella tedesca sulla penisola dello Shantung, nel Mar Giallo. Il
Nürnberg, infine, si trovava sulla via del ritorno da San Francisco e il Leipzig era addirittura sulle coste della California.
Poco dopo la dichiarazione di guerra della Germania alla Russia, il 1° agosto 1914, l'
Emden ebbe la ventura di catturare un piroscafo russo, il
Riasan, che, in Estremo Oriente, fu la prima vittima del conflitto scoppiato nella lontana Europa in seguito all'eccidio di Sarajevo. La cattura della nave riusa ebbe luogo, la notte del 4 agosto, nello Stretto di Tsushima, ove von Müller si era portato allo scopo di intercettare il traffico nemico sulla rotta Nagasaki-Vladivostok.
Subito dopo, riportata la preda a Tsingtao e saputo dello stato di belligeranza anche con la Francia e la Gran Bretagna, il comandante dell'
Emden decise di lasciare al più presto la base sulla costa cinese, per non lasciarvisi intrappolare dal probabile blocco che il nemico vi avrebbe posto (a differenza del comandante della vecchia corazzata austro-ungarica
Kaiserin Elisabeth che preferì rimanervi, partecipando alla sua difesa); e si diresse velocemente verso l'isola di Pagan, nell'arcipelago delle Marianne, ove l'Ammiraglio Spee aveva dato convegno alle sue sparse unità leggere.
A Pagan vi fu una conferenza dei comandanti a bordo dello
Scharnhorst, in cui fu stabilito che la squadra avrebbe intrapreso la traversata del Pacifico meridionale, per portarsi nelle acque del Cile, Paese neutrale che manteneva un benevolo atteggiamento verso gli Imperi Centrali, anche in ragione della forte presenza finanziaria tedesca e di una numerosa e intraprendente colonia di immigrati germanici. Di lì, poi, si sarebbe tentata la via del rientro in patria, doppiando il Capo Horn e risalendo l'Oceano Atlantico in tutta la sua lunghezza.
In quella sede, tuttavia, il comandante von Müller chiese e ottenne da von Spee il permesso di separarsi dal nucleo principale della squadra, per spostarsi nelle acque dell'Oceano Indiano e là condurre, con le sue sole forze e con l'appoggio di poche navi carboniere, la guerra di corsa contro il traffico mercantile delle potenze dell'Intesa. Soli e senza alcun porto amico in cui rifornirsi e riparare eventuali avarie, gli uomini dell'
Emden erano perfettamente consapevoli che la loro crociera avrebbe potuto concludersi in un modo solo, cioè con la cattura o la distruzione della loro nave, in un tempo relativamente breve; tuttavia erano decisi a infliggere il maggiore danno possibile all'avversario.
Così, il 14 agosto, l'incrociatore leggero
Emden si era separato dallo
Scharnhorst, dal
Gneisenau e dal
Nürnberg e, lasciata Pagan, aveva volto la prua a sud-ovest, con l'intenzione di passare nell'Oceano Indiano, sua futura «riserva di caccia», attraverso lo Stretto di Lombok, nelle Indie Orientali olandesi, anch'esse territorio neutrale. Lo accompagnava nella sua missione la nave ausiliaria
Markomannia.
Lungo la strada si era incontrato dapprima col piroscafo tedesco
Prinzessin Alice che, però, non potendo seguirlo per un'avaria alle caldaie, fu spedito alle Filippine (statunitensi dal 1898, e perciò neutrali); indi con la cannoniera
Geier, fuggita dall'Africa Orientale Tedesca, che venne inviata alle Hawaii, territorio statunitense, ove subì l'inevitabile internamento, a norma delle leggi internazionali.
Giunto all'isola di Timor, von Müller ebbe le prime serie difficoltà per il rifornimento del carbone, che le autorità olandesi vollero impedirgli e che poté effettuare, invece, nell'ancoraggio portoghese di Nusi Besi. Quindi, per passare attraverso gli stretti passaggi delle Isole della Sonda strettamente vigilati dalle navi britanniche, l'
Emden ricorse a uno stratagemma: innalzato un quarto, posticcio fumaiolo, si camuffò da incrociatore inglese e riuscì a superare quel difficile tratto di mare, intensamente pattugliato dal nemico.
Nell'Oceano Indiano l'
Emden fu per molte settimane una spina dolorosa nel fianco della marina britannica. La guerra di corsa da esso condotta con straordinaria fortuna e perizia - sempre caratterizzata da un comportamento cavalleresco degno d'altri tempi - causò ingenti danni al commercio inglese. Complessivamente l'
Emden si impadronì di 22 navi mercantili, delle quali 16 vennero affondate, 2 utilizzate come carboniere e 4 vennero rimandate libere con gli equipaggi delle varie prede, illesi e reduci da un trattamento umanissimo, tale che gli stessi avversari non poterono fare a meno di mostrare rispetto e perfino ammirazione nei confronti di quella moderna nave corsara.
La guerra di corsa condotta dall'incrociatore ebbe, inoltre il duplice effetto di far salire alle stelle i prezzi delle assicurazioni sulle navi mercantili inglesi e di ritardare enormemente le partenze dei trasporti di truppe australiane e neozelandesi per i campi di battaglia in Europa, che - ad un certo punto - ne risultarono quasi paralizzati.
La «tecnica» con cui von Müller era in grado di localizzare le navi alleate e di attenderle al varco era quanto mai semplice e persino primitiva: consisteva nel seguire attentamente le trasmissioni radiotelegrafiche delle stazioni a terra e nel leggere le notizie riportate dai giornali trovati a bordo delle sue prede.
Il 22 settembre l'
Emden bombardò i depositi di petrolio di Madras, in India, incendiandoli per almeno 2 milioni di litri e sfuggendo, quindi, all'inseguimento dell'incrociatore corazzato
Hampshire. E' degno di nota il fatto che la nave tedesca, presentatasi davanti alla grande città indiana col favore del buio, la trovò completamente illuminata, come in tempo di pace. Le autorità inglesi, infatti, non avevano minimamente immaginato di potersi venire a trovare in zona di operazioni, ad opera del piccolo incrociatore tedesco, giù braccato da numerose unità da guerra di quattro nazioni: inglesi, francesi, russe e giapponesi.
Il 28 ottobre il corsaro spinse la sua temerità fino al punto di presentarsi davanti al munito porto di Penang, sulla costa orientale della Malesia. Vi penetrò all'alba e con due siluri vi affondò l'incrociatore russo
Yemtschug, di 3.000 tonnellate, che si trovava all'ancora; quindi, nell'uscire dal porto, affondò a cannonate il cacciatorpediniere francese
Mousquet che lo aveva coraggiosamente affrontato e si allontanò, facendo perdere le proprie tracce al cacciatorpediniere
Pistolet che aveva tentato d'inseguirlo.
Nel corso di questa azione, dopo l'affondamento dello
Yemtschug (il cui comandante si trovava a terra al momento dell'attacco, e che venne poi processato per negligenza da una corte marziale ed espulso dalla marina), mentre usciva dal porto la nave tedesca aprì il fuoco contro un bastimento che, nella luce incerta e a causa della rifrazione, era stato scambiato per un incrociatore inglese. Non appena fu chiarito l'errore - che, fortunatamente, non aveva provocato alcuna vittima -, von Müller volle tornare indietro per scusarsi personalmente con quel comandante, prima di fronteggiare il coraggioso ma disperato attacco del Mousquet che, a sua volta, aveva dapprima scambiato l'
Emden per una unità amica.
La fine dell'
Emden giunse rapida e inattesa, allorché il capitano von Müller prese la decisione di distruggere la stazione radiotelegrafica inglese delle isole Cocos, un gruppo di ventisette atolli corallini situati a nord-ovest dell'Australia, dei quali due soli abitati (West e Home), e di tagliare il cavo sottomarino che ad essi era allacciato.
Notiamo, per inciso, che molte navi tedesche impegnate nella guerra di corsa sugli oceani trovarono la loro fine proprio in seguito alla decisione di non limitarsi alla cattura delle prede in mare, ma di imbastire operazioni contro obiettivi nemici sulla terraferma.
L'incrociatore
Karlsruhe saltò in aria dopo che il suo comandante, Koehler, volle dirigere sulla colonia britannica dell'isola Barbados, nelle Antille, il 4 novembre 1914, per effettuarne il bombardamento. Questa impresa avrebbe dovuto essere il coronamento di una fortunata crociera, nel corso della quale erano state colate a picco 17 navi mercantili alleate, per una stazza complessiva di circa 70.000 tonnellate.
Il destino della squadra di von Spee fu deciso allorché questi, dopo la vittoriosa battaglia di Coronel nelle acque cilene, invece di risalire l'Atlantico nella massima segretezza, volle attaccare la colonia inglese di Porto Stanley, nelle Isole Falkland, per catturarne il governatore e «vendicare» così la cattura del governatore tedesco delle isole Samoa da parte delle forze neozelandesi. Così, per ragioni puramente di prestigio, furono trascurate le più evidenti norme strategiche, in una azione che, anche riuscendo, avrebbe comportato un ritardo nella navigazione e delle perdite umane, indebolendo gli effettivi della squadra e, quindi, l'efficienza delle navi in vista di una nuova battaglia navale. Quest'ultima circostanza - ossia di dover sostenere un combattimento con l'equipaggio ridotto, a causa di una operazione di sbarco - fu appunto quella che si verificò nel caso dell'
Emden davanti alle isole Cocos.
Il 9 novembre, accompagnato dalla nave scorta
Buresk, l'incrociatore tedesco era arrivato davanti all'isola Direction e vi aveva sbarcato un distaccamento di 3 ufficiali e 45 marinai per mettere fuori uso la stazione radio. Questa, però, fece in tempo a lanciare un ultimo, disperato messaggio di soccorso, che fu raccolto - anche se non compreso - da un convoglio britannico diretto in Europa e scortato da numerose navi da guerra. Erano l'incrociatore corazzato
Minotaur, che alzava le insegne dell'Ammiraglio Jerram, gli incrociatori leggeri
Melbourne e
Sydney della squadra australiana; e il giapponese
Ibuki.
Il comandante di quest'ultimo, desideroso di battersi, chiese il permesso di poter effettuare un sopralluogo alle isole Cocos, per verificare la situazione; ma l'Ammiraglio Jerram non accondiscese, dato che l'incrociatore giapponese era l'unità più potente della sua squadra ed egli, giustamente, considerava suo compito prioritario quello di proteggere il convoglio che gli era stato affidato. E' il caso di ricordare che tale convoglio aveva dovuto rinviare già due volte la partenza, proprio a causa delle presenza dell'
Emden nella zona orientale dell'Oceano Indiano; e che l'Ammiragliato di Londra si era deciso a farlo partire, al terzo tentativo, solo dopo aver messo insieme quella poderosa squadra di scorta.
Per vedere che cosa stesse accadendo alla stazione radiotelegrafica delle isole Cocos, pertanto, Jerram distaccò il
Sydney, al comando del capitano John Glossop; tuttavia stabilì che, se questo non fosse tornato, prima il Melbourne e poi l'
Ibuki sarebbero andati a prenderne il posto. A partire da quel momento, pertanto, la sorte dell'
Emden era segnata. Intanto, alle 7,30 il distaccamento sbarcato dalla nave tedesca abbatté l'antenna e distrusse la stazione radiotelegrafica; indi tagliò i cavi sottomarini, li rimorchiò con le imbarcazioni e li lasciò cadere al largo.
Alle 9,00 le vedette dell'
Emden avvistarono una nube di fumo all'orizzonte e von Müller, ritenendo erroneamente di aver a che fare con l'incrociatore
Newcastle, di armamento e velocità all'incirca pari a quelli della sua nave, prese il largo per dare battaglia, senza avere il tempo di riprendere a bordo i marinai sbarcati, e quindi con l'equipaggio incompleto. In realtà, il
Sydney era più potente, più veloce e più protetto dell'
Emden; la sua fiancata di 226,5 kg. surclassava di quasi tre volte quella della nave tedesca, di soli 80 kg. Nonostante le sue evidenti condizioni di inferiorità, la nave tedesca accettò il combattimento e si batté valorosamente, colpendo almeno 16 volte l'avversario; ma il
Sydney, grazie alla sua maggiore velocità, si portò fuori tiro dei pezzi da 105 mm. dell'avversario, continuando a martellarlo coi suoi calibri da 152.
Ecco come il principe Franz Josef Hohenzollern, tenente torpediniere a bordo dell'
Emden, ha narrato la sua esperienza diretta del combattimento nel suo libro di memorie
L'incrociatore «Emden» (traduzione italiana di Pfützer-Gabi-Bauerr, Omero marangoni Editore, 1932, pp. 196-201):
Alle 9, 15 fu dato ordine al gruppo di sbarco con segnali Scott di terminare le distruzioni e di affrettare l'operazione di ritorno perché il tempo previsto era già trascorso. Qualche minuto più tardi, la vedetta informò che la nave che noi avevamo creduta il Buresk
s'avvicinava a tutta velocità, ed aveva gli alberi molto alti come le navi da guerra inglesi. Subito dopo, la nave issò effettivamente la bandiera di guerra inglese
Nessun dubbio vi era sulla sorte che ora ci attendeva:: un combattimento aspro e difficile tra l'Emden
e la nave inglese!
Quantunque si presentasse difficile questo combattimento, la fiducia nel valore del nostro equipaggio, la provata audacia del comandante dell'Emden
, era in tutti così forte, che cullavamo la speranza di riuscire ancora una volta ad avere il sopravvento e la vittoria; eravamo sicuri di un combattimento glorioso. Il comandante immediatamente fece suonare l'allarme ed ordinò: «Tutti pronti per il combattimento!». La sirena fischiò ripetutamente per richiamare la compagnia di sbarco. I minuti erano preziosi, ogni ritardo poteva causare l'irreparabile. Passò qualche minuto; ora non avevamo più tempo per attendere il ritorno dei 50 uomini. Bisognava mettere le macchine sotto pressione per ottenere dall'Emden
la massima velocità.
Alle 9,30 si levò l'ancora e l'Emden
manovrò incontro al nemico. Fin qui, ero rimasto sul ponte, ma il dovere mi chiamò al posto di combattimento, nel compartimento dei tubi lancia-siluri. Qui tutto era già preparato; informai il blockhaus. Verificammo ancora i dispositivi di lancio, e tutti gli altri congegni di manovra con la più scrupolosa cura; l'ardente desiderio di combattere ci esaltava. Le scosse della nave, causate dalle macchine sotto pressione, erano indice che l'Emden
marciava molto forte. Non passò molto tempo che la nostra artiglieria aprì il fuoco. Col respiro sospeso, attendevamo le risposte
ma non sentimmo arrivare nessuna granata inglese. Il nemico doveva tirare male.
Verso le 10, le prime granate scoppiarono in prossimità del compartimento dei tubi; feci ispezionare il doppio fondo e le camere per vedere se l'acqua entrasse. Solo in questo modo si poteva esattamente rendersi conto se dei proiettili avevano colpito la nave allo scafo.
Alle 10,20 una granata colpì il ponte corazzato sopra il compartimento lancia-siluri, di traverso sott'acqua. Una terribile detonazione! La scossa fu così violenta che il nostro torpediniere-meccanico, che era davvero un pezzo d'uomo nel vero senso della parola, venne buttato a terra dallo spostamento d'aria. L'effetto fu così comico che (malgrado la gravità della situazione) non potemmo trattenere il riso. A causa dell'esplosione della granata, si era prodotto uno squarcio nel ponte corazzato di modo che l'acqua ed il gasi invasero il nostro compartimento. Ci mettemmo subito i nostri batuffoli anti-gas (non si conoscevano ancora le maschere) che ci resero l'aria respirabile.
I miei uomini cercarono poi di rattoppare alla meglio lo squarcio nel ponte corazzato con delle tavole e delle coperte, tutto quello che si trovava nel compartimento. Momentaneamente ciò bastava. Ma poi dovetti chiedere l'aiuto dei carpentieri di servizio a prua per eseguire questo lavoro; essi però erano già occupatissimi per altre riparazioni. I nostri rattoppi di fortuna erano insufficienti e non impedivano all'acqua ed al gas di penetrare nel nostro compartimento. Nulla si poteva fare contro l'acqua, ma, per lottare contro i gas velenosi, feci uscire l'aria compressa delle bombole che servono per caricare le camere dei siluri. Potemmo allora respirare un po' meglio. Diedi ordine al compartimento delle macchine a dritta dove si trovava la pompa per l'aria compressa dei siluri, di caricare di nuovo il collettore. Ebbi nessuna risposta
questo scompartimento doveva essere già stato distrutto. Chiamai allora il blockhaus.
Le numerose esplosioni di colpi che si susseguivano sulla nostra nave, dimostravano che gli inglesi erano riusciti a regolare il loro tiro. Qualche granata scoppiò con fracasso spaventevole sul ponte corazzato proprio all'altezza del nostro compartimento. Noi eravamo stupiti nel vedere che la corazza, sotto simili colpi, non era stata ancora completamente squarciata. Eravamo avidi di notizie; ma non era nemmeno il caso di interpellare il blockhaus: il nostro comandante aveva ben altre cose da fare e non poteva distrarsi nemmeno per un secondo. Dopo un po' di tempo ci pervenne questo richiamo: «Compartimento lancia-siluri pronto?» al quale rispondemmo: Tutto è pronto!. Verso le ore 10,25 ricevemmo l'ordine: «Preparate per il lancio a dritta!».
Il tubo venne tosto messo a posto. Eravamo tutti contenti e speravamo vivamente che la nostra arma entrasse a far parte del combattimento. Speranza vana
ahimé!
I miei uomini lavoravano con la più perfetta calma, come durante gli esercizi, nonostante che l'acqua (che già ci arrivava alle caviglie) rendesse molto più difficile il loro compito. Ad ogni virata e sobbalzo della nave, l'acqua sbatteva violentemente contro le pareti dello scompartimento. Ciò era molto fastidioso perché dovendo caricare di nuovo un tubo (operazione questa da eseguire con la massima sollecitudine) gli uomini rischiavano di scivolare e di cadere, con grande pericolo della vita.
Potevano essere le 10,45 quando sentimmo una scossa d'una violenza indimenticabile; questa però non doveva provenire dallo scoppio di una granata, perché il rumore era stato troppo sordo. Supponemmo che l'albero si era abbattuto, come ci venne confermato più tardi. L'Emden
fortunatamente non era stato ancora colpito da colpi mortali; era stato centrato il ponte corazzato, ma nessun proiettile lo traversò; il più terribile era stato l'ultimo ricevuto.
Verso le ore 11, una granata scoppiò nuovamente sulla nostra nave sotto la linea d'immersione. La violenza dell'esplosione spense tutte le lampadine del compartimento dei tubi lancia.-siluri. Ricorsi subito all'illuminazione di soccorso che almeno ci permetteva di renderci conto dei danni dell'esplosione. Lo squarcio non era molto largo, ma era lungo ben 40 centimetri: attraverso si vedeva il chiarore dell'acqua del mare. Il nostro compartimento fu di nuovo invaso dal gas. Tre dei miei uomini vennero feriti dalle schegge alle gambe; ma fortunatamente potevano ancora combattere. Non avevamo più materiale per arrestare l'acqua che entrava ed il nostro compartimento era talmente invaso dai gas velenosi che bisognò abbandonarlo. Correvamo pericolo di rimanere asfissiati poiché i nostri batuffoli contro il gas erano del tutto insufficienti. Informai così il blockhaus: «Il compartimento dei siluri è invaso di gas e di acqua, è necessario abbandonarlo». Diedi nello stesso tempo ordine ai miei uomini di uscire.
Cercammo di giungere in coperta attraverso la rete blindata, ma non fu possibile perché era fortemente contorta. Non ci rimase altro che tentare di poter uscire attraverso le aperture dei siluri. Feci prima rimettere a posto il riquadro perché l'acqua non potesse salire nei compartimenti al di sopra del nostro. Ci arrampicammo sul tubo di sinistra, un uomo fu sollevato per mollare il riquadro. Egli gridò a dei camerati che si trovavano all'esterno dell'apertura, poi si arrampicò ancora più in alto e fu tirato fuori. Eseguimmo tutti la stessa operazione. Io feci poi rimettere a posto il riquadro.
Trovai nel vano di tramezzo un gran numero di feriti che il capo musica Wecke stava fasciando; egli mi riferì alla meglio lo stato del nostro caro Emden
. Quando giunsi sul ponte superiore, uno spettacolo orribile si offrì alla mia vista: dappertutto giacevano morti e feriti gravi; dappertutto s'elevavano dei gemiti e delle pietose invocazioni! La cosa più triste e più terribile, era che nulla si poteva fare per soccorrere questi disgraziati, per calmare le loro sofferenze. L'Emden
non era altro che una rovina. In qualunque parte si volgesse lo sguardo, non si vedeva altro che dei forti infiniti nella bordata, pezzi di ferro divelti e contorti, rovine fumanti, mucchi di rottami e di cenere. In quale stato terribile era ridotto il nostro incrociatore, poche ore prima ancora così bello!
Incontrai presso la batteria di prua, l'insegna Geerdes, pure ferito, che mi indicò con la mano Gaede, il nostro ufficiale cannoniere. Egli giaceva disteso sul cannone a sinistra
era agonizzante. Ebbe però ancora tale lucidità da potermi riconoscere. La sua uniforme era rossa
inzuppata di sangue. Mi ringraziò alzando un po' la testa, vedendo che mi avvicinavo. Mi feci vicino e lo trasportai a poppa ove chiuse gli occhi per sempre
A lungo l'
Emden sostenne l'impari battaglia; finché, in preda agli incendi, si gettò in costa sui banchi corallini. Erano le 11,20. L'incrociatore australiano continuò a colpirlo, sospendendo il tiro solo per inseguire il
Buresk che, per non farsi catturare, preferì autoaffondarsi; quindi tornò all'isola Direction per catturare i marinai tedeschi sbarcati nel primo mattino, ma non riuscì a trovarli. Infatti, avendo assistito impotenti alla distruzione della loro nave, essi si erano impadroniti di un brigantino ancorato nel porto, l'
Ayesha, e con quello avevano veleggiato verso Sumatra.
All'alba del 10 novembre la situazione a bordo dell'
Emden era tragica: i feriti erano numerosi e torturati dalla sete, ma il
Sydney riprese il bombardamento fino a quando von Müller fece abbassare le insegne di guerra e alzare la bandiera bianca. I Tedeschi avevano avuto 133 morti su un totale di 361 (47 dei quali non erano a bordo durante il combattimento). Gli Australiani, per parte loro, non avevano avuto che 4 morti e 8 feriti, 4 dei quali gravi. Dopo essere stati medicati, i prigionieri tedeschi vennero spediti, via Suez, in un campo di prigionia sull'isola di Malta, ove sarebbero rimasti per tutta la durata della guerra. Il relitto dell'
Emden rimase ad arrugginire sulla barriera corallina delle isole Cocos, silenzioso testimone di una pagina tragica ed esaltante della guerra sui mari, finché una tempesta tropicale non lo spazzò via, nel 1956.
La crociera dell'
Emden ebbe una coda quasi romanzesca con le vicende fortunose dell'
Ayesha, al comando del secondo ufficiale dell'incrociatore, von Mücke. Dopo essere riuscito ad allontanarsi dal luogo del tragico combattimento, l'
Ayesha raggiunse Sumatra alla fine di novembre e, qui, il suo equipaggio salì a bordo del piroscafo tedesco
Choysing. Dopo una navigazione avventurosa, quei marinai dell'
Emden raggiunsero il porto di Hodeida sul Mar Rosso donde, attraverso l'Arabia e la Turchia, raggiunsero Costantinopoli e, finalmente, poterono rientrare in patria.
2. UNA BATTAGLIA FRA DUE TRANSATLANTICI: CARMANIA E CAP TRAFALGAR (14 settembre 1914)
Di tutti gli incrociatori ausiliari tedeschi della «prima generazione» (se così possiamo chiamarla), ossia che si trovavano sugli oceani al momento dello scoppio della prima guerra mondiale, il
Cap Trafalgar fu quello che ebbe vita più breve, ma anche quello che conobbe la vicenda più drammatica (cfr. il nostro
Le due crociere della nave corsara Möwe, dicembre 1915 - marzo 1917).
Non riuscì a catturare nemmeno una preda e concluse la sua crociera dopo soli quaranta giorni dall'inizio delle ostilità fra Gran Bretagna e Germania, iniziate il 4 agosto 1914; e il destino volle che la sua fine cruenta avvenisse ad opera di una nave mercantile dalle caratteristiche molto simili alle sue, eccezion fatta per l'armamento, che, nell'inglese, era nettamente superiore. Proprio quel combattimento fra due transatlantici di notevole stazza, entrambi trasformati frettolosamente in navi da guerra, che ebbe luogo in una zona remota del Sud Atlantico, conferisce alla vicenda dello sfortunato corsaro tedesco un particolare interesse, tanto da aver attirato l'attenzione di diversi studiosi di cose navali.
L'isola di Trindade è una roccia arida e brulla gettata in mezzo all'Oceano, fra il 20° parallelo di latitudine Sud e il Tropico del Capricorno, a 500 miglia dalla costa del Brasile, cui appartiene. (Non va confusa con l'isola più grande e molto più conosciuta di Trinidad, che si trova sempre al largo dell'America Meridionale, ma di fronte alla costa del Venezuela, vicino all'isola di Tobago, con la quale forma lo Stato di Trinidad e Tobago). E' davanti a quelle scogliere nude e inospitali che si svolse l'epico duello fra il transatlantico tedesco e quello inglese.
Sia detto fra parentesi, l'isola di Trindade, un semplice puntino sulle carte geografiche che non dice nulla di particolare alla persona comune, e neppure al naturalista, che - nel 1958 - ebbe luogo una vicenda misteriosa, ben nota agli studiosi di ufologia. La nave da guerra della Marina brasiliana
Almirante Saldanha, salpata da Rio de Janeiro per installare sull'isola una stazione scientifica per lo studio dei fenomeni meteorologici ed oceanografici, registrò uno dei casi meglio documentati di avvistamento di «oggetti volanti non identificati».
Il 16 gennaio di quell'anno, infatti, tutto l'equipaggio fu richiamato dalle evoluzioni di un oggetto discoidale che viaggiava ad oltre 1.000 chilometri orari, dal diametro di 40-50 metri ed alto circa 8, che volava talmente basso da permettere a un fotografo che si trovava a bordo, Almiro Barauna, di scattare alcune immagini le quali, sviluppate a bordo poco dopo, si rivelarono discretamente nitide. I marinai riferirono che l'oggetto si spostava velocissimo, senza emettere alcun suono, ondeggiando in modo analogo a quello dei pipistrelli; che aveva colore grigio scuro e consistenza, apparentemente, metallica; che era scomparso e riapparso dietro la montagna, si era fermato per un attimo, quindi si era allontanato rapidamente. Inoltre, le apparecchiature di bordo registrarono delle interferenze elettromagnetiche nel corso dell'avvistamento.
Anche il tracciato del radar rivelò che qualche cosa di sconosciuto era comparso nel cielo di Trindade, quel giorno; e l'esame delle fotografie - una delle quali decisamente buona - stabilì che esse erano autentiche, senza ombra di dubbio. La Marina brasiliana, da parte sua, emise un comunicato, nel quale confermò l'avvistamento di un «oggetto volante non identificato» sull'isola di Trindade; e fu la prima volta che delle autorità governative rilasciavano una simile ammissione.
Ma chiudiamo questa pur interessante parentesi e torniamo alle vicende belliche che più di quarant'anni prima, nel settembre del 1914, fecero parlare dell'isola di Trindade - altrimenti sconosciuta ai più - sui giornali di varie nazioni.
Il
Cap Trafalgar era un vapore nuovo di 18.700 tonnellate, che poteva sviluppare una velocità di 17 nodi, adibito alle linee di navigazione fra la Germania e il Sud America. Aveva fatto il viaggio inaugurale a Buenos Aires proprio mentre, in Europa, scoppiavano le ostilità fra l'Intesa e gli Imperi Centrali. Era una nave magnifica, la più grande e la più bella fra quante facevano servizio su quella rotta; il destino volle che il suo primo viaggio sarebbe stato anche l'ultimo.
Dopo aver scaricato a Buenos Aires ed essersi rifornito di carbone, il 23 agosto era ripartito per Montevideo, di dove avrebbe dovuto intraprendere il viaggio di ritorno verso l'Europa. Adesso, però, lo scoppio improvviso delle ostilità gli tagliava la via del rientro in patria, come stava accadendo in quei giorni a decine di navi germaniche ed austro-ungariche. A differenza di quelle, però, il
Cap Trafalgar non si sarebbe adattato a divenire una inerme selvaggina delle navi da guerra inglesi e francesi, né si sarebbe rassegnato all'internamento in qualche Paese neutrale. Era stabilito, al contrario, che sarebbe stato trasformato in incrociatore ausiliario, e che avrebbe condotto la guerra di corsa contro il naviglio alleato sulle rotte commerciali dell'Oceano Atlantico.
A Montevideo le autorità portuali, sospettando qualcosa del genere, lo sottoposero a meticolose perquisizioni (senza dubbio su pressione delle autorità consolari britanniche); ma, come era già accaduto nel precedente scalo di Buenos Aires, nulla di sospetto venne trovato a bordo, per cui la nave fu lasciata libera di ripartire. Se fosse stata appurata la sua natura di incrociatore ausiliario, le leggi internazionali gli avrebbero concesso solo ventiquattr'ore di permanenza, pena il disarmo e l'internamento immediato. Si ricordi che proprio a Montevideo, il 17 dicembre del 1939, la corazzata tascabile tedesca
Graf von Spee del comandante Hans Langsdorff fu costretta ad autoaffondarsi, dopo essersi venuta a trovare in una situazione senza vie d'uscita: imbottigliata da alcuni incrociatori inglesi nel Rio de la Plata, e seriamente danneggiata dopo un combattimento sostenuto contro di essi.
Ripreso il mare dopo la sosta a Montevideo, il
Cap Trafalgar, al comando del capitano di vascello Wirth, si incontrò - al largo - con la cannoniera
Eber, che gli cedette i suoi due cannoni da 105 mm. e alcune mitragliatrici. Effettuato il trasbordo, alla piccola cannoniera - rimasta ormai disarmata - non rimase altro da fare che dirigersi verso il porto argentino di Bahia Blanca, a sud di Buenos Aires, andando incontro all'inevitabile internamento.
L'intercettazione dei messaggi radio nemici permise al
Cap Trafalgar di tenersi alla larga dalle navi da guerra britanniche, ma ciò ebbe anche la conseguenza di tagliarlo fuori dalle rotte commerciali più battute; per cui, nell'arco di due settimane, non gli riuscì di catturare nemmeno una preda. E ciò nonostante che si fosse abilmente e tempestivamente trasformato in un classico bastimento della Unione Castle Line, ridipingendosi con i colori di pace: i fumaioli di rosso e di nero e lo scafo di un tenue verde chiaro.
A metà settembre era già a corto di carbone e, per rifornirsene, diede appuntamento a due navi ausiliarie davanti alla costa dell'isola di Trindade. Ma, dopo esservi giunto a sua volta e mentre era impegnato nelle operazioni di carbonamento, il mattino del 14 settembre vide una nuvola di vapore levarsi all'orizzonte e, poco dopo, profilarsi lo scafo del
Carmania. Allora levò prontamente le ancore e, resosi conto di non potersi allontanare in tempo, mise le macchine a tutta forza e manovrò per andare incontro al suo avversario.
Fino al mese di luglio del 1914 il
Carmania era stato un transatlantico della Cunard Line, costruito - come il suo gemello
Caronia - nel 1903. Stazzava 19.500 tonnellate, cioè poco più del
Cap Trafalgar, e anche la velocità era circa la stessa: 16 nodi orari.
Ai primi di agosto, profilandosi lo scoppio della guerra, sia il
Carmania che il
Caronia vennero trasformati in incrociatori ausiliari nel porto di Bristol. I lavori di riadattamento furono imponenti, poiché richiesero il lavoro assiduo di ben 5.000 operai per i due piroscafi, mentre duemila vagoni vennero riempiti con i materiali asportati.
Il comando del
Carmania venne assunto dal capitano Noel Grant, affiancato dal luogotenente E. Lockyer come primo ufficiale; il precedente comandante, capitano Barr, rimase a bordo nel ruolo di addetto alla navigazione e all'avvistamento. Con lui, rimasero a bordo anche una cinquantina di uomini del vecchio equipaggio del tempo di pace, compresi alcuni ufficiali, in ragione della loro lunga esperienza sul transatlantico.
Fu armato con otto pezzi da 120 mm. (portata di 9.000 metri), dotato di un potente cannocchiale e di fari per le missioni notturne; indi fu ridipinto di grigio e una parte delle murate venne segata via per fare spazio ai cannoni; inoltre, delle placche di metallo furono inchiodate ai fianchi della nave nei punti più vulnerabili. Tutti questi lavori durarono appena una settimana, dal 7 al 14 agosto, ma avevano richiesto l'opera di migliaia di operai specializzati.
Ben diversi erano stati i lavori a bordo del suo futuro avversario, il
Cap Trafalgar, che aveva dovuto fare tutto da solo, trasbordando i due modesti pezzi della
Eber in mare aperto, senza poter effettuare alcuna miglioria e senza disporre né di un bacino, né di personale specializzato e di materiali con cui corazzare le proprie fiancate e rinforzare i ponti.
Lasciata la Mersey, il
Carmania ricevette istruzioni di pattugliare l'Atlantico; un secondo dispaccio gli ordinò di dirigersi verso l'isola di Trindade, perché all'Ammiragliato di Londra era giunta notizia che, nei suoi paraggi, sembrava incrociasse il
Patagonia, un bastimento da carico che era stato destinato al rifornimento di carbone degli incrociatori tedeschi.
Non si trovò traccia del
Patagonia che, in effetti, si era messo al sicuro nel porto di Pernambuco, ma il
Carmania ebbe ordine di proseguire ugualmente la missione, perché l'isola di Trindade - che emerge altissima dalle acque del Sud Atlantico - offriva un ottimo nascondiglio alle navi che volessero rifornirsi di carbone senza essere viste, specialmente al riparo delle montagne sul lato sud-occidentale.
Giunto in vista dell'isola nel mattino del 14 settembre, il
Carmania avvistò, presso la costa occidentale, l'albero maestro di una grossa nave, dalla quale si levò ben presto una densa nuvola di fumo. Poco dopo, due bastimenti più piccoli furono visti uscire da dietro la sagoma della nave sconosciuta, e allontanarsi ai due lati a tutta velocità: erano le due navi appoggio del
Cap Trafalgar, costrette ad interrompere il trasbordo del carbone sull'incrociatore ausiliario.
Gli Inglesi, comunque, ignoravano con quale avversario avessero a che fare: avrebbe anche potuto trattarsi del
Dresden o del
Karlsruhue, i quali - a quanto se ne sapeva - incrociavano entrambi in quella zona dell'Oceano Atlantico. Il capitano Grant, infine, suppose trattarsi del
Berlin, e rimase in tale convinzione ancora per diversi giorni; solo in seguito avrebbe saputo la vera identità della nave con la quale aveva sostenuto un micidiale duello.
Comandati gli uomini ai posti di combattimento, il capitano Grant fece spedire un colpo di avvertimento davanti alla prua del transatlantico sconosciuto che, nel frattempo, aveva innalzato sull'albero maestro la bandiera della Marina da guerra germanica: croce rossa in campo bianco. In risposta, il
Cap Trafalgar sparò una bordata sopra il ponte della nave britannica: era l'inizio di uno scontro all'ultimo sangue.
Così sono state riassunte le fasi salienti del combattimento dal comandante inglese John Kerans nel suo libro
Le grandi avventure del mare (titolo originale:
The world's greatest sea adventures, Odhams Books Ldt., London, 1964; traduzione italiana e riduzione di Luigi Brioschi, Casa Editrice Bietti, Milano, 1966, pp. 79-82):
Data la direzione da cui la nave inglese si lanciava sulla tedesca, solo tre dei suoi pezzi potevan servire. I cannonieri dunque si affaccendarono intorno ad essi, e dopo aver dato quella prima dimostrazione che aveva soltanto spruzzato d'acqua lo scafo tedesco, aggiustarono la mira proprio sul bersaglio. Si videro sul Cap Trafalgar
una serie di esplosioni, seguite da fiammate. Ma fu subito chiaro che avevano a che fare con un nemico piuttosto pericoloso: il Carmania
fu colpito a sua volta e tremò da prua a poppa all'impatto con la pesante carica di esplosivo. Una bomba cadde proprio accanto a uno dei cannoni, uccidendo due degli addetti e ferendo gli altri.
Il capitano fece portare il piroscafo sul lato sinistro, per mettere in azione un quarto pezzo. Con stupefacente precisione, lavorando freddamente e tranquillamente come se si trattasse di un'esercitazione, i cannonieri fecero partire un'altra salva, e tutte quante le bombe raggiunsero il bersaglio. Circa quattro chilometri separavano in questo momento le due navi, e si udiva ormai non solo il rimbombo dei cannoni ma lo stesso rumore che essi provocavano nel venir caricati. I tedeschi avevan puntato dritto sul ponte del Carmania
, e una, due, tre bombe vi caddero proprio sopra e intorno. Delle esplosioni mandarono in pezzi argani, scialuppe, ventilatori e danneggiarono l'albero stesso della nave. Era ovvio che il nemico mirava non allo scafo, ma sulla coperta, in modo da far fuori il maggior numero possibile di ufficiali e marinai, e possibilmente impadronirsi della nave e portarsela via come bottino di guerra. Gli inglesi invece puntavano i loro cannoni proprio sullo scafo avversario, nel tentativo di affondarlo. Caricavano e sparavano con tale rapidità e frequenza che il metallo dei pezzi era diventato incandescente, e la vernice prendeva fuoco. Una bomba dietro l'altra piombava sul vascello tedesco, all'altezza della linea di galleggiamento. Si cominciò a veder fumo salire dalla sua tolda.
Le due navi si erano avvicinate ancora; erano ormai a due chilometri di distanza; e si accostavano ancora. A distanza ravvicinata i tedeschi sarebbero stati in grado di spazzare letteralmente la coperta del Carmania
, uccidendo gli artiglieri e tutti quanti appunto si trovassero fuori, sulla tolda. Per aumentare il fuoco il capitano Grant portò la nave sull'altro fianco; ora toccava ai cannonieri del lato destro, coi loro cinque pezzi, fare la propria parte. Il Cap Trafalgar
tremò di nuovo, sotto una serie di colpi precisi diretti proprio in mezzo al suo scafo. Era evidente che era stata colpita molto duramente.
Anche sul Carmania
seguitavano a cascar bombe, provocando incendi continui: se ne udiva il rumore caratteristico, come se ne udiva il crepitio in mezzo al fumo che l'avvolgeva. Un marinaio avanzò barcollando verso il ponte mezzo fracassato, per annunziare che le condutture della nave eran saltate, e le pompe non davano acqua. Subito venne organizzata una squadra che formasse una catena di secchi in mezzo a quel caos di fumo, fuoco, spezzoni di bombe incendiati e frantumi di metallo incandescente. La squadra si mise al lavoro, con la stessa freddezza e calma di cui avevan dato prova gli artiglieri, e miracolosamente ebbe presto ragione del fuoco. Ma le fiamme seguitavano ad avvolgere il ponte di comando; il capitano Grant decise di spostarsi con i suoi aiutanti a poppa, da dove avrebbe seguitato a governare la nave. Come per prodigio, nessuno di quelli che stavan sul ponte era stato ucciso; così tutti quanti poteron saltare giù e portarsi al nuovo luogo di comando.
Il Carmania
somigliava poco ormai alla bella lussuosa nave che era salpata da Liverpool solo cinque settimane prima! Il suo ponte era distrutto e in fiamme; l'incendio si propagava dappertutto; le cabine di comando erano un inferno sconvolto; il sartiame pendeva in stracci infiammati; tutti gli arnesi in metallo non erano ormai che rottami contorti; ciò che era stato scialuppe, alberi e altri aggeggi in legno era stato scagliato dovunque in schegge e brandelli. Gli uomini invece no: pochi ne erano morti, pochi ne eran stati seriamente feriti.
Nel frattempo, la situazione sul Cap Trafalgar
sembrava davvero disperata. Da prua a poppa la nave tedesca era ingolfata di fumo, e dal fumo si vedevan spuntare qua e là le lingue di fiamme, che tendevano ad alzarsi dove l'equipaggio non riusciva a controllarle, e qui si quietavano dove disperatamente si riusciva a bloccarle. In mezzo a quel pandemonio, si vedevano ancora i lampi secchi e repentini delle cannonate; ma i colpi, se non avevan perso in rapidità, mancavano però in precisione. Si aveva la sensazione che là, sulla nave tedesca, si tentasse un ultimo, disperato e quasi sfiduciato sforzo per capovolgere le sorti del combattimento. Ma, all'improvviso, annunciò un urlo: «Affonda! Sta affondando! Abbandonano la nave!».
Era vero. Il Cap Trafalgar
si stava inclinando; e si calavan già in mare le scialuppe di salvataggio. Poi tacquero anche i cannoni. Inclinandosi sempre più, la nave scomparve dietro l'isola. Ufficiali ed uomini del Carmania
potevano ora dedicarsi del tutto alla propria nave, avvolta ormai dal fuoco. Vennero lasciati per prudenza ai pezzi solo gli artiglieri; tutti gli altri si portarono ai bordi dell'incendio. Lentamente riuscirono a domarlo. Per l'intervento eroico degli ingegneri si poté a un certo punto far uso anche delle pompe, e il Carmania
fu salvo.
Ora i due piccoli bastimenti che all'inizio dello scontro si erano allontanati, ritornavano; e i superstiti del Cap Trafalgar
si accostavano ad essi a bordo delle loro scialuppe. Si vide il grosso piroscafo piombare tutto su un lato, fino a che i comignoli stessi toccaron la superficie del mare; vi fu come un'esitazione, lo scafo s'impennò un istante, poi s'inabissò in un caos di schiuma ribollente e fischi di vapore nel risucchio improvviso. Un urlo di gioia di levò dal Carmania
.
Il
Cap Trafalgar aveva avuto ben 51 marinai uccisi, tra i quali il valoroso capitano Wirth (contro solo 9 caduti sul
Carmania); gli altri erano stati tratti in salvo dalle due navi ausiliarie prima che i voraci squali, che infestavano quelle acque, potessero assalire i naufraghi.
Subito dopo che il corsaro tedesco era stato visto scomparire tra i flutti, fu avvistato del fumo e, puntati i cannocchiali, apparve agli Inglesi una grossa nave a quattro fumaioli. Pensando che si trattasse del
Karlsruhe o del
Kronprinz Wilhelm, il capitano Grant ordinò di allontanarsi quanto più velocemente possibile in direzione sud-est. Fatto degno di nota, gli Inglesi dovettero trovare la rotta servendosi della posizione del sole, perché tutti gli strumenti di navigazione erano andati distrutti nel corso dell'asperrima battaglia.
La nave avvistata era effettivamente il
Kronprinz Wilhelm, informato per dispaccio della sorte toccata al
Cap Trafalgar. Se fosse giunto solo un'ora prima, il combattimento avrebbe preso una piega ben diversa; ma adesso, visto come erano andate le cose, il comandante della nave tedesca rinunciò a tentare la sorte e si allontanò a sua volta, per non mettere a repentaglio le sue possibilità di proseguire la guerra di corsa al naviglio mercantile.
Non inseguito, ma alquanto malridotto, il
Carmania, che aveva evitato di misura di fare la stessa fine del suo avversario, si ritrovò all'appuntamento stabilito con l'incrociatore
Bristol; indi venne scortato da un altro incrociatore britannico, il
Cornwall, fino a un luogo d'ancoraggio. Solo dopo che gli ingegneri di quest'ultima nave furono saliti a bordo ed ebbero provveduto a tappare le falle più gravi e a rimettere in funzione gli strumenti di navigazione, il
Carmania poté rimettersi lentamente in viaggio per Gibilterra, ove avrebbe ricevuto delle riparazioni più accurate e sarebbe stato messo in grado di riprendere la sua attività di incrociatore ausiliario.
Per commemorare il fatto d'armi dell'isola Trindade, il
Carmania ricevette un piatto d'argento dell'ammiraglio Nelson, che si trovava a bordo della sua nave Victory durante la battaglia di Trafalgar del 21 ottobre 1805. L'ironia della sorte aveva voluto che gli Inglesi riportassero la vittoria su di una nave tedesca che, centonove anni dopo, portava il nome del promontorio che aveva visto la più brillante vittoria dell'ammiraglio Nelson sulla flotta franco-spagnola di Napoleone Bonaparte.
Il combattimento fra i due transatlantici presso l'isola di Trindade fu un episodio unico nella storia della prima guerra mondiale. Gli Inglesi se ne gloriarono, ma è evidente che avevano goduto di una schiacciante superiorità sia in fatto di armamento, sia in fatto di protezione della nave; e, più in generale, della posizione di vantaggio offerta loro dal dominio dei mari, con la possibilità di rifornirsi di carbone in porti amici, di eseguire tutti i lavori necessari in bacino, e così via.
Anche la segnalazione del
Patagonia presso l'isola di Trindade, che condusse il
Carmania in quel luogo e gli permise di sorprendere il
Cap Trafalgar mentre stava effettuando il carbonamento, dimostra una superiorità del servizio d'informazioni britannico, dovuta anche al fatto che i Tedeschi, per non tradirsi, erano costretti a fare il minor uso possibile del radiotelegrafo.
Questa superiorità si sarebbe rivelata decisiva nelle vicende che condussero la squadra di incrociatori da battaglia dell'ammiraglio Sturdee a distruggere le navi di von Spee presso le Isole Falkland, alcuni mesi più tardi (cfr. F. Lamendola,
L'ultima crociera dell'Ammiraglio Spee. Battaglie navali di Coronel e Falkland). Il servizio di informazioni tedesco, appoggiato da una rete di spie e ancoraggi segreti, specialmente sulla costa occidentale del Sud America, faceva quel che poteva; ma non giocava alla pari con quello avversario.
Ad ogni modo, una valutazione serena del combattimento fra il
Carmania e il
Cap Trafalgar porta indiscutibilmente alla conclusione che la nave tedesca, di molto inferiore a quella britannica per il numero e il calibro dei suoi cannoni, si batté con indomito valore e avrebbe riportato la vittoria, se lo scontro fosse stato ad armi pari. Non vi sono dubbi su questo, e nessuna versione di parte potrebbe modificare un simile giudizio.
Un autore australiano discretamente obiettivo, Roy Alexander, che fu per diversi mesi prigioniero a bordo del corsaro Wolf, lo riconobbe molto lealmente nel formulare un giudizio conclusivo sul fatto d'armi navale dell'isola Trindade. Nel suo libro
La crociera del corsaro Wolf (titolo originale dell'opera,
The Cruise of the Raider «Wolf», Yale University Press, 1939, traduzione italiana di Tito Diambra, Casa Editrice E. Corticelli, Milano, 1940, pp. 331-32), scrive:
Le due navi seguirono tattiche differenti: l'inglese mirava al bagnasciuga, il tedesco al ponte di comando, e cercava di far tacere i cannoni del nemico spazzandogli i ponti con le mitragliatrici. Dopo un'ora e mezzo di fuoco la nave tedesca sbandò a dritta e affondò con la prora; a poppa sventolava sempre la bandiera. Il Carmania
, gravemente avariato, aveva a bordo un incendio così violento che pareva necessario abbandonarlo. Era stato colpito settantanove volte. Una persona dell'equipaggio, che aveva la passione dei numeri, contò 304 fori. L'incendio era al centro, il ponte di comando in fiamme era stato abbandonato; la radio distrutta dai colpi nemici; la nave governava con la ruota del timone poppiera; le sovrastrutture demolite; per combattere l'incendio non c'eran più che le catene di buglioli (secchie), perché le tubature dell'acqua erano pure distrutte. (
)
Fatto curioso, il Carmania
, tartassato a quel modo, non ebbe che nove morti. Riparato, riprese servizio come incrociatore ausiliario. In seguito riuscì molto utile come trasporto, e dopo la guerra ritornò nave da passeggeri in Atlantico. Fu demolito in tempi abbastanza vicini.
E così conclude (
Idem, p. 329):
Il Cap Trafalgar
affondò; ma giustizia vuole si riconosca che come armamento era in condizioni d'inferiorità rispetto al rivale britannico, e - per la verità - dei due fu quello che combatté più valorosamente; coi suoi due cannoni di calibro più piccolo il Cap Trafalgar per poco non riuscì ad affondare il Carmania
che era armato assai più potentemente. Si è fatta molta retorica e si sono scritte risme di carta su quel combattimento; ma da un esame coscienzioso dei documenti risulta che il Cap Trafalgar
come armamento principale aveva due cannoni da 103 mm., mentre il Carmania
ne aveva otto da 120.
3. LA CROCIERA DELL'INCROCIATORE KÖNIGSBERG E LE AZIONI NAVALI NEL RUFIGI (6 e 11 luglio 1915)
Immaginiamoci una moderna nave da guerra europea occultata nel delta di un grande fiume africano e mimetizzata fra le palme, le mangrovie e le liane, nel calore torrido del clima equatoriale, con i coccodrilli che scivolano sulla corrente e, la notte, il ruggito spaventoso del leone, che gela il sangue nelle vene agli ascari.
Immaginiamoci, poi, una intera flotta di navi nemiche che le danno la caccia, ma non osano penetrare a loro volta nel fiume, per timore di arenarsi sui banchi di sabbia del fondo, e che tentano di individuarla servendosi di aerei che sorvolano la giungla in ogni senso, con il rischio che i coraggiosi piloti, esaurita la benzina, precipitino in quel dedalo di isole e di canali popolati di nemici, di nuvole d'insetti e di animali selvaggi.
Immaginiamo, infine, due monitori - le imbarcazioni a fondo piatto, cariche di cannoni e con lo scafo e i ponti corazzati che erano divenute famose nel corso della lontana Guerra di Secessione americana -, fatte venire apposta dalla lontana Europa per risalire senza rischio quelle acque malfide, che si portano lentamente a tiro della nave intrappolata e che ingaggiano con essa un duello d'artiglieria all'ultimo sangue, senza potersi vedere direttamente, ma regolando il tiro sulla base delle segnalazioni di svariati posti d'osservazione, scaglionati da ciascuna delle due parti in quel paesaggio anfibio e lussureggiante
Sembrano gli elementi di un classico romanzo di guerra e d'avventura, usciti dalla fantasia di un Joseph Conrad, di un Karl May o di un Ruydard Kipling; e, invece, sono quelli di una storia vera fino all'ultimo dettaglio; una vicenda sconosciuta al grande pubblico, che si svolse realmente nel corso della prima guerra mondiale, nel del delta del fiume Rufigi, nella sezione meridionale della colonia dell'Africa Orientale Tedesca.
La nave intrappolata era l'incrociatore
Königsberg, della Marina imperiale germanica; il suo comandate, l'intrepido e valoroso capitano di fregata Max Looff.
Dal punto di vista tecnico, si trattava di una unità dalle caratteristiche molto simili a quelle dell'
Emden, del quale abbiamo già diffusamente parlato (cfr.
La crociera dell'incrociatore «Emden» e la battaglia delle isole Cocos, 9 novembre 1914).
Era un incrociatore leggero di 3.400 tonnellate, varato il 12 dicembre 1905 nei cantieri navali di Kiel. Misurava una lunghezza di 115 metri e una larghezza massima 13, con un pescaggio di poco inferiore ai 5 metri. Come tutte le altre unità tedesche della medesima classe, era armato con 10 pezzi a tiro rapido da 105 mm., oltre a 10 pezzi da 52 mm. e due tubi lancia-siluri. L'apparato motore constava di due macchine alternate da tre cilindri ciascuna, che potevano consentirgli di sviluppare una velocità massima di 24 nodi.
L'equipaggio era formato da 322 uomini, tra ufficiali e marinai. Il capitano Looff era alsaziano, essendo nato a Strasburgo nel 1874 (appena tre anni dopo la cessione di quella provincia dalla Francia alla Germania); aveva dunque, allo scoppio della prima guerra mondiale, quarant'anni appena compiuti. Coetaneo del comandante dell'incrociatore
Emden, Karl von Müller, poteva sembrare piuttosto giovane per un comando di quella responsabilità; questa, però, era una cosa abbastanza comune nella giovane Marina imperiale germanica voluta da von Tirpitz, basata su idee nuove e sul criterio del merito.
Nei primi mesi del 1914 l'Ammiragliato di Berlino aveva deciso di inviare il
Königsberg di stanza nella colonia dell'Africa Orientale Tedesca, in sostituzione della vecchia cannoniera
Geier, allo scopo di rafforzare la presenza tedesca in quella zona strategica.
Va osservato che un eccellente lavoro di rilevamento cartografico era stato appena condotto dalla nave oceanografica
Möwe (da non confondersi con l'incrociatore ausiliario che più tardi sarebbe stato adibito alla guerra di corsa sugli oceani, e che condusse due fortunate crociere, rientrando indenne in Germania dopo aver posato dei banchi di mine e aver colato a picco una quota notevole di tonnellaggio mercantile alleato (cfr. F. Lamendola,
Le due crociere della nave corsara Möwe, dicembre 1915 - marzo 1917).
Tale lavoro si sarebbe rivelato di importanza decisiva per consentire al
Königsberg di nascondersi a lungo alla caccia delle flotte avversarie, eleggendo a suo rifugio il delta del fiume Rufigi.
Alla vigilia della prima guerra mondiale, l'Oceano Indiano si poteva considerare a tutti gli effetti come un
lacus britannicus. Vi stanziavano due squadre navali inglesi, quella delle Indie Orientali e quella del Capo di Buona Speranza, che ne controllavano i due sbocchi: verso il Pacifico e verso l'Atlantico. La prima, comandata dall'ammiraglio Pierce, era di base a Bombay e comprendeva una vecchia corazzata pre-dreadnought,
Swiftsure, e 3 incrociatori leggeri, due dei quali -
Pelorus e
Fose - di tipo antiquato, mentre il terzo,
Dartmouth, era una moderna unità armata con 8 pezzi da 152 mm. e sviluppava una velocità di ben 26 nodi.
La seconda, al comando dell'ammiraglio Kig-Hall, era costituita da 3 vecchi incrociatori leggeri:
Hyacint,
Astrea e
Pegasus (quest'ultimo di sole 2.200 tonnellate). Dunque le forze navali britanniche dell'Oceano Indiano erano numerose, se pure qualitativamente modeste; ma loro unico avversario essendo il
Königsberg, il compito ad esse richiesto, di proteggere il traffico commerciale e i trasporti di truppe, non appariva particolarmente difficile. Almeno sulla carta: ma, allo scoppio delle ostilità, si vide che le cose stavano un po' diversamente.
L'incrociatore leggero
Königsberg era partito dal porto di Wilhelmshaven il 28 aprile 1914, arrivando nel porto di Dar-es-Salaam, il 6 giugno dopo un viaggio spedito, attraverso il Mediterraneo e il canale di Suez. Da parte sua, il 27 luglio l'ammiraglio King-Hall salpò dall'isola Mauritius con i suoi tre incrociatori per cercarlo e tenerlo costantemente sotto sorveglianza, in attesa dell'ormai imminente dichiarazione di guerra. La nave tedesca uscì dal porto la sera del 30 luglio e quella notte stessa fu avvistata dalle navi inglesi che però, più lente, se la lasciarono sfuggire dopo un convulso inseguimento, reso più difficile da un violento piovasco notturno.
Lo
Hyacinth fu allora rimandato indietro per proteggere le acque sudafricane rimaste indifese, e King-Hall continuò le ricerche con due sole navi. Il 20 settembre, però, fu il
Königsberg a cogliere allo sprovvista i suoi inseguitori: penetrato nel porto di Zanzibar, vi sorprese il piccolo
Pegasus all'ancora, e lo affondò a cannonate, allontanandosi poi indisturbato.
Ha scritto, a proposito di questa azione audace e spettacolare, ma non gloriosa, un insigne storico militare italiano, il Contrammiraglio Ettore Bravetta, nella sua coscienziosa opera
La grande guerra sul mare (Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1926, vol. 1, p. 128):
Il nome dell'incrociatore leggero Königsberg
fu appreso per la prima volta dal grosso pubblico mondiale quando il telegrafo annunziò il suo combattimento - se così può chiamarsi - col Pegasus
, bastimento assai più vecchio e molto meno potente, che era ancorato a Zanzibar per riparare le proprie macchine. La mattina del 20 settembre 1914 l'incrociatore tedesco, presentatosi davanti al porto, aprì il fuoco sul britannico dalla distanza di circa 8.500 m. Il Pegasus
, armato di calibri inferiori ed impossibilitato a muoversi, rispose come meglio poté, ma in otto minuti fu ridotto al silenzio e poco dopo affondò. Ebbe 86 fra morti e feriti: Non fu un combattimento; ma un massacro. Naturalmente, ed in teoria, il Pegasus
non avrebbe dovuto essere lasciato solo, in tali condizioni, dentro un porto non difeso; ma in pratica dovete tentar la sorte, perché in quel giorno tutte le navi da guerra disponibili nell'Oceano Indiano dovevano scortare il convoglio di truppe indiane. E il Tedesco colse l'occasione propizia.
Dopo tale impresa, il capitano Looff rientrò nel suo imprendibile rifugio nel delta del fiume Rufigi, nella sezione meridionale dell'Africa Orientale Tedesca, nascosto dalla fitta foresta tropicale e protetto da secche insidiose, che ne rendevano assai pericolosa la navigazione.
Il 21 settembre l'incrociatore inglese
Chatham del capitano di fregata Drury-Lowe ebbe ordine di lasciare il Mar Rosso per mettersi alla ricerca della nave avversaria. Esso le era superiore sia per armamento (8 pezzi da 152 mm. contro 10 da 102), che per stazza (5.400 tonnellate contro 3.400) e velocità (26 nodi contro 24). Gli furono affiancati inoltre gli incrociatori
Dartmouth e
Weymouth, della sua stessa potenza, e tali forze incominciarono una perlustrazione sistematica della costa orientale africana fra Tanga e la foce dello Zambesi.
Il 19 ottobre il
Chatham entrò nel porto di Lindi ove, a bordo della finta nave-ospedale tedesca
Präsident, Drury Lowe scoprì - leggendone il libro di bordo - che il rifugio del
Königsberg era nel delta del Rufigi. Da quel momento il destino dell'incrociatore tedesco fu segnato, anche se furono necessari mesi e mesi di lotte e di imprese logistiche notevolissime, prima di poterlo mettere fuori combattimento. Il 30 ottobre il
Dartmouth e il
Weymouth si portarono al largo del delta; il 31, il
Chatham bombardò la stazione di segnalazioni tedesca sull'isola di Mafia; e il 1° novembre incominciò il bombardamento contro il rifugio del
Königsberg.
Valendosi di dettagliate carte nautiche - di cui l'avversario era sprovvisto - il capitano Looff poté evitare le secche e risalire il fiume sino a portarsi, per il momento, fuori tiro; il suo destino, tuttavia, era segnato. Dopo un nuovo, infruttuoso bombardamento da parte del
Chatham il 3 novembre, la carboniera inglese
Newbridge risalì il ramo del Simba-Uranga e vi si autoaffondò, allo scopo di precludere all'avversario l'unica possibile via di scampo. L'operazione riuscì solo in parte, perché (come già nel caso di Santiago di Cuba nel 1898, durante la guerra ispano-americana, e in quello di Zeebrugge nel 1918) una eventuale sortita del
Königsberg avrebbe potuto essere effettuata anche da altre bocche del delta - almeno teoricamente - con l'alta marea; in realtà, l'incrociatore tedesco non avrebbe mai più ripreso la via del mare aperto, dove sarebbe andata incontro a una rapida distruzione da parte della squadra che effettuava il blocco del delta.
Per poter infliggere al
Königsberg il colpo mortale, l'Ammiragliato inglese dovette trasferire in Africa orientale sia la nave trasporto idrovolanti
Laconia, sia i monitori fluviali
Severn e
Mersey che, con il loro fondo piatto (pescavano appena m. 1,45), potevano risalire il fiume come gli incrociatori non erano in grado di fare. Si trattava di due unità da 1.260 tonnellate ciascuna, armate con 2 pezzi da 152 mm. e mortai da 120: le sole che avrebbero potuto mettere la parola fine alla carriera del corsaro tedesco.
Giunsero all'isola di Mafia, base delle operazioni nel delta, il 2 giugno 1915 e poco più di un mese dopo, il 6 luglio, avevano risalito il fiume il fiume Rufigi abbastanza in profondità da poter aprire il fuoco contro il
Königsberg.
Benché il loro tiro fosse diretto dall'osservazione aerea degli idrovolanti, dopo 8 ore di fuoco dovettero ritirarsi perché, pur avendo colpito l'avversario più volte - ma non in maniera decisiva - erano state a loro volta seriamente danneggiate dai Tedeschi che, a loro volta, avevano costruito tutta una serie di posti d'osservazione, trincee e nidi di mitragliatrici nella zona. L'operazione fu ripetuta l'11 luglio e questa volta, dopo quattro ore e mezza di fuoco incessante, poté considerarsi conclusa definitivamente: il
Königsberg non era più che una carcassa fumante adagiata sui bassi fondali.
Le vicende di questa drammatica battaglia fra tre moderne navi da guerra, che parevano giocare a rimpiattino fra i bassi fondali e la vegetazione inestricabile del delta, sono state efficacemente riassunte dallo storico-giornalista americano Edwin P. Hoyt jr. nel suo bel libro
I Tedeschi che non persero mai (titolo originale:
The Germans Who Never Lost, 1968; traduzione italiana di Anna Bacigalupo, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1971, pp. 150-54):
Per quattro giorni non accadde nulla, ma il capitano [Looff] sapeva che i suoi nemici stavano studiando un piano d'attacco migliore di quello del 6 luglio, che aveva avuto così poco successo, nonostante la loro schiacciante superiorità in tutto fuorché nel coraggio e nella precisione di tiro.
L'11 luglio, di prima mattina, i due aerei superstiti cominciarono a volteggiare sopra il Königsberg
. Nei giorni precedenti si era avuto soltanto una ricognizione al giorno, e questa era la prima volta che si aveva un concentramento, - se così poteva chiamarsi - di forze aeree. Il capitano capì che era venuto il momento dell'attacco. Ben presto i guardiani di costa gliene diedero conferma: il nemico stava tornando con i pontoni corazzati. Il piano era lo stesso, ma l'ammiraglio King-Hall aveva preso personalmente il comando, spostandosi sul Weymouth
.
Alle otto del mattino i monitori furono attaccati ai rimorchiatori; alle 10,40 erano sulla bocca del fiume, e alle 11,45 superavano la barra del Rufigi. Ben presto giunsero a tiro del Königsberg
, e l'incrociatore, informato dagli osservatori costieri, incominciò a sparargli contro. I cannonieri colpirono due volte il Mersey
, e uno dei proiettili sfondò la cabina del capitano, ferendo due uomini e mettendo fori combattimento il cannone di poppa. L'altro finì nei sacchetti di sabbia in coperta, e fece poco danno. Poi il Mersey
si ritirò e il Severn
riprese la posizione che aveva occupato cinque giorni prima. Il Mersey aveva il compito di provocare il fuoco tedesco, mentre il Severn aveva quello di sparare.
Ma le cose non andarono in questo modo: il capitano Looff non volle fare il gioco del nemico tirando soltanto al Mersey
, e mise sotto il fuoco delle sue artiglierie anche il Severn
; anzi, si concentrò su questo quando seppe che il Mersey
era fuori combattimento. I pezzi del Königsberg
sparavano bene, e i proiettili esplodevano tutto attorno al monitore, che aveva i ponti cosparsi di schegge di shrapnel. Il Severn
cessò il fuoco, aspettando che il primo aereo tornasse a dargli la direzione. Quando, alle 12,30, l'apparecchio arrivò, il monitore riprese a sparare, e questa volta la tattica funzionò bene, come si vide fin dalla prima salva.
«Accorciare di 400 metri a sinistra, disse il tenente Cull, e sull'aereo l'osservatore batteva al radiotelegrafo il messaggio per il monitore. Accorciare di 100 metri, 22 metri a sinistra, fu la seconda segnalazione, e i cannoni regolarono il tiro».
All'ottava salva, il monitore trovò la mira, e da quel momento la battaglia consistette semplicemente in uno scambio di colpi in cui i cannoni del monitore avevano la meglio. Gli uomini del capitano Looff sparavano con quattro cannoni soltanto, non perché gli inglesi avessero, come essi credevano, messi fuori combattimento gli altri quattro, ma perché il Königsberg
era a corto di munizioni. Poiché la traiettoria era molto alta, i proiettili da 152 mm. cadevano pesantemente sui ponti dell'incrociatore, e ciascuno di essi produceva danni gravissimi: i primi distrussero il castello e la coperta di prua, e diversi altri colpirono il ponte di batteria.
Dal suo posto in plancia, il capitano Looff osservava angosciato la sua nave bersagliata dal nemico. Il ponte non era protetto, e gli ufficiali diverse volte lo pregarono di ripararsi sulla torretta corazzata, da cui il tenente Apel dirigeva il tiro dei cannoni; ma il capitano sapeva che questa era l'ultima battaglia del Königsberg
e che, se chiedeva a 216 uomini di esporsi al fuoco del nemico e forse di morire per lui, era molto più giusto che rimanesse sul ponte piuttosto che mettersi al riparo, quando c'era ben poco altro che potesse fare.
Poi vennero un paio di colpi precisi, che piombarono con forza a poppa, e sfondarono il deposito delle munizioni, causando un'esplosione a catena, che distrusse gran parte dei proiettili da 105 mm. che ancora restavano. I primi proiettili misero fuori combattimento i cannoni di prua, e fecero una strage in coperta: uno scoppiò in plancia, distruggendola, ferendo leggermente il capitano e strappandogli i vestiti di dosso. La maggior parte degli uomini nella torretta fu ferita, ma il tenente Apel rimase illeso. Qualche minuto dopo un altro colpo mise fuori servizio il telefono della nave. L'incendio a poppa sollevava un'enorme colonna di fumo, e il crepitio dei proiettili piccoli accompagnava il fuoco del Königsberg
e il fragore dei colpi sparati dagli inglesi.
All'1,30 la nave era in rovina; gli inglesi l'avevano presa, e la colpivano tenendo semplicemente i cannoni puntati sempre nella stessa direzione: non c'era bisogno né dell'abilità né della scienza balistica che il tiro sul mare richiede per il continuo spostamento degli opposti obiettivi; era come stare in mezzo a un fiume a sparare ai pesci in un barile. Lo scontro non sarebbe stato così unilaterale, se il Königsberg
avesse avuto le munizioni necessarie e se il colpo a poppa non avesse distrutto la riserva dei proiettili da 105 mm. All'1,30, la nave era ridotta a sparare con due soli cannoni, e ciascuno aveva soltanto due proiettili. Uno era uno shrapnel e fu riservato per l'aereo: i sottotenenti Niemeyer e Kohtz e il fuochista Kaiser - nessuno dei tre cannoniere - caricarono il pezzo, e con quell'unico proiettile colpirono l'aereo, costringendolo a scendere a precipizio nel fiume fra il Königsberg
e i suoi attaccanti. Il fuoco sotto coperta minacciava di estendersi al magazzino a metà della nave e di farla saltare in aria; e il capitano ordinò di inondare le stive, togliendosi così ogni possibilità di continuare la battaglia: ma bisognava scegliere fra questo e correre il rischio di perdere l'equipaggio.
Arrivò un ultimo proiettile, che fece danni gravissimi. Trapassò la cabina, esplose a poppa, dov'era il capitano, che ebbe dozzine di ferite, alcune tanto gravi che gli uomini lo credettero morto. Il primo ufficiale Koch stava per assumere il comando della nave, quando Looff fece segno che era in grado di tenerlo lui. Questo proiettile uccise il valoroso cannoniere dilettante, l'ufficiale marconista Niemeyer, e il fuochista Kayser, e ferì gravemente il tenente Kohtz. L'ultimo cannone era fuori combattimento. Il Königsberg
taceva, e in coperta si sentivano soltanto i rumori del disastro. Il capitano Looff, dalla lettiga dove lo avevano disteso i suoi uomini, parlò rapidamente, dando ordini al primo ufficiale Koch. I feriti, compreso il capitano, furono trasportati nelle scialuppe, e dopo di loro scesero i superstiti dell'equipaggio, tranne un pugno di uomini con il primo ufficiale Koch. Questi scese sotto coperta, dove munì di detonatori un paio di teste di siluri per far saltare il fondo della nave. Poi li accese, tolse i percussori ad alcuni cannoni, altri li fece buttare nel fiume, poerché il nemico non poteva servirsene. Dopo aver dato un ultimo sguardo attorno, si tuffò in acqua: era l'ultimo a lasciare la nave, perché il suo capitano era stato portato via, più morto che vivo.
Il capitano, mentre si allontanava dalla nave, osservò che la sua bandiera e la bandiera di battaglia erano ancora alte sul pennone, proprio come voleva. Quando arrivò a riva, si volse indietro, e vide il primo ufficiale Koch che nuotava senza darsi pensiero dei coccodrilli. Poi, poco dopo le due, mentre i proiettili inglesi continuavano a fioccargli attorno e le bandiere sventolavano sull'albero contorto, il Königsberg
mandò prima un brontolio per l'esplosione dei siluri che aveva dentro, poi il brontolio si trasformò in un boato; la nave si inclinò leggermente a sinistra e andò a fondo. Poco dopo si vedevano spuntare dalle onde soltanto le cime degli alberi, con le bandiere ancora al vento.
I Tedeschi, però, poterono sbarcare tutto ciò che restava dell'armamento e, con esso, rinforzare il magro parco d'artiglieria del generale von Lettow-Vorbeck, il leggendario difensore dell'Africa Orientale Tedesca, che potrà vantarsi di non essere mai stato battuto dagli Alleati: solo il 14 novembre 1918, dopo aver appreso la notizia della resa della Germania, il suo piccolo esercito invitto avrebbe deposto le armi.
Per riuscire a distruggere l'incrociatore leggero tedesco, comunque, i Britannici avevano dovuto tenere impegnate forze cospicue per più di otto mesi, e avevano dovuto sostenere spese e perdite umane e materiali davvero imponenti. Dall'ospedale della piantagione di Neustieten, a cinque miglia dalla foce del fiume Mbuni, il capitano Looff redasse poco dopo il suo rapporto all'Ammiragliato tedesco, iniziando con queste precise parole: «Il
Königsberg è distrutto, ma non conquistato».
E non era una semplice vanteria.
Le perdite tedesche erano state ingenti: tre morti nel primo attacco, quello del 6 luglio, e diciannove nel secondo; complessivamente, 48 uomini erano stati feriti, di cui la metà in modo grave. Altri cento marinai erano stati distaccati, in precedenza, per servire a terra come truppe di fanteria; tutti gli altri membri dell'equipaggio sbarcarono in quel primo pomeriggio dell'11 luglio e si accinsero a riprendere la lotta a terra, per la difesa della colonia, entrando a far parte del piccolo esercito di von Lettow-Vorbeck.
Le operazioni del fiume Rufigi e quelle che ad esse furono collegate - come l'oneroso trasporto dei due monitori dalla Gran Bretagna, attraverso mezzo continente africano -, presentano un alto grado di interesse militare, soprattutto dal punto di vista logistico. Sia i Tedeschi che i Britannici dovettero affrontare le particolari condizioni di una esuberante natura tropicale, con un clima caldo e umido assai difficile da sopportare per degli Europei, la presenza costante di insetti portatori di malattie, e, più di ogni altra cosa, un terreno scarsamente esplorato, povero di strade e ricchissimo, d'altra parte, di ostacoli naturali, con un campo visivo reso estremamente limitato dalla ricca vegetazione pluviale.
Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto, i Tedeschi operavano, inizialmente, in condizioni di vantaggio, perché avevano avuto modo di condurre delle efficienti campagne di rilevamento topografico e idrografico proprio alla vigilia della guerra, nel corso delle quali si era particolarmente distinta - come già si è detto - la nave oceanografica
Möwe. Ma tale vantaggio venne annullato allorché i Britannici fecero arrivare sul posto l'aviazione, per mezzo della quale l'ultimo nascondiglio del
Königsberg poté essere individuato senza scampo.
Dal punto di vista strettamente militare, invece, le operazioni che condussero alla distruzione dell'incrociatore tedesco presentano un interesse minore, perché, a partire da quando gli Inglesi ebbero la certezza che l'incrociatore tedesco si teneva nascosto nel delta del Rufigi, il gioco a rimpiattino era finito e tutto si ridusse a un lungo, estenuante assedio, la cui conclusione era solo questione di tempo. Anche se non avessero potuto far venire dall'Europa i due monitori Severn e Mersey, gli Inglesi sarebbero comunque riusciti a neutralizzare l'avversario, in un modo o nell'altro: o con gli aerei, o con dei dirigibili, o facendo avanzare le artiglierie a terra; o anche, semplicemente, ostruendo l'uscita in mare con altri relitti di navi affondate.
Ma ci sarebbe voluto molto più tempo, molto più denaro e molti più sacrifici di quelli, già notevolissimi, che furono effettivamente necessari per venire a capo del problema rappresentato dalla presenza del
Königsberg nelle acque del fiume africano.
Un ufficiale della Marina britannica, E. K. Chatterton, che ha scritto una delle monografie più complete e imparziali di tutta la vicenda dell'assedio e della distruzione finale dell'incrociatore tedesco, ha così ricapitolato i principali aspetti strategici e logistici di quella operazione (
La tragica fine del «Königsberg», traduzione italiana di Alberto Tedeschi, Omero Marangoni Editore, Milano, 1933, pp. 236-41):
Queste operazioni nel Rufiji, non hanno, si può dire, paragone nella storia navale, non solo per aver dimostrato come l'attenzione di una intera squadra possa essere sviata da altre sfere di attività, da un incrociatore che sappia avvantaggiarsi di una situazione che lo mette in uno stato di temporanea immunità, ma anche per la strana fusione richiesta dei vecchi sistemi con quelli nuovi. Nessuno avrebbe potuto prevedere che i monitori potessero ricomparire nella Marina, ancora meno che si rendessero indispensabili o che avrebbero lavorato in collaborazione con la più nuova delle armi: l'aviazione. Fino ad allora le spedizioni belliche nei fiumi non avevano avuto altri motivi che la cattura di qualche pirata, o di qualche mercante di schiavi, mentre in verità, questi monitori, nell'avanzare dal mare, stavano proteggendo le linee di traffico nell'Oceano, contro un temibile corsaro. Peraltro, se il Königsberg
avesse incontrato i due assalitori dovunque, a mare aperto, avrebbe potuto scegliere la propria distanza e annientare il Severn
e il Mersey
, in pochi minuti. In tal modo gli intricati canali, la barriera dell'isola e della foresta e tutte le altre difese naturali dell'interno dell'Africa, avevano posto l'incrociatore tedesco in una posizione di svantaggio; dal momento in cui era stato costretto a rinunciare alla mobilità e a strisciare per piccoli corsi di acqua, abbandonando l'Oceano, aveva annullato la propria superiorità. Una volta di più veniva messo in evidenza il punto debole delle grandi e veloci navi da guerra.
Infatti la grande velocità porta la necessità di abbondanti provviste di combustibile, il che a sua volta richiede una base comoda e protetta, alla quale la nave possa far centro per prelevare combustibile e lubrificante. In mancanza di questo, essa abbisogna di un'organizzazione di navi d'approvvigionamento, tanto perfetta da non venire mai a mancare quando le stive dell'incrociatore siano vuote. Ma dove vi è una superiore potenza navale, che detenga il dominio del mare e delle rotte di traffico, il sistema di rifornimenti può essere facilmente impedito; né le carboniere né le altre navi di approvvigionamento possono osare un appuntamento senza correre gravi rischi. Di conseguenza il fato del Königsberg
era praticamente determinato, fin dal primo momento, e la sua attività distruttrice doveva forzatamente essere di breve durata. Quando giunsero sul luogo dei modernissimi incrociatori inglesi, dotati di ben fornite carboniere e di basi come Mombasa e Zanzibar, fu possibile vedere che i Tedeschi non avrebbero più potuto ottenere il loro combustibile. L'incrociatore si era effettivamente interrato da solo; il dominio dell'Oceano apparteneva ai suoi rivali, ed era quindi fuori questione che gli potessero pervenire dei soccorsi.
Praticamente, il Königsberg
fu dapprima affamato, poi messo nella quasi impossibilità di navigazione, e finalmente menomato, più che distrutto propriamente. Una nave da guerra è uno scafo mobile che porta artiglieria ed equipaggi, ma fino a che i suoi cannoni e il personale sopravvivono e soltanto la sua mobilità è perduta, la vittoria su di essa non è completa. Questa era un'altra curiosa particolarità dell'impresa del Rufiji. Se tutti quei proiettili inglesi, che avevano trovato il bersaglio, l'avessero colpita in un combattimento di mare, essa sarebbe affondata con la perdita di tutte le batterie e di buona parte della ciurma. In altre parole vi sarebbe stata una conclusione definitiva. Ma il Königsberg
si era portato in un basso fondo ed era impossibile affondarlo, in qualsiasi circostanza; esso si limitò a immergersi più profondamente nel fango africano, divenendo inamovibile, mentre i cannoni e gli uomini superstiti divenivano disponibili per altre ostilità.
Di conseguenza quando il capitano Looff il 20 luglio scrisse il suo rapporto dell'azione e concluse con l'affermare che la R. N. Imperiale Königsberg
era distrutta, ma non conquistata, vi era nelle sue parole qualche cosa di più di una semplice retorica o di una teatrale ampollosità. Ai suoi ordini rimaneva ancora un pugno di combattenti allenati e disciplinati, la cui resistenza era stata collaudata in dieci mesi di monotona reclusione, variata soltanto da improvvisi assalti nemici. Non vi poteva essere una più dura prova della volontà di vincere di un equipaggio. Il fatto che in mezzo a tante circostanze scoraggianti, alle incertezze, all'isolamento dal mondo civilizzato, il capitano Looff fosse riuscito a conservare l'efficienza combattiva e l'equilibrio morale del suo equipaggio, costituisce una grande lezione per noi tutti. Si era pensato che la vita, in quell'ambiente impossibile ed in quel clima micidiale, avesse fiaccato le forze tedesche, ma il duello finale delle artiglierie provò il contrario, e i cannonieri dell'incrociatore diedero una splendida prova del loro valore.
Secondo la testimonianza dello stesso capitano Looff i proiettili dei monitori piovvero in un vero diluvio sulla sua nave, l'11 luglio, causando dapprima gravi perdite a prua, il che è perfettamente d'accordo con le dichiarazioni degli aviatori. Nel suo rapporto ufficiale, il Comandante tedesco dichiara che gli uomini addetti ai pezzi e alle munizioni, nella parte prodiera del Königsberg
furono tutti uccisi, mentre egli stesso fu seriamente ferito. In seguito si verificò il medesimo disastro a poppa, dove si sviluppò un incendio, con il conseguente scoppio di munizioni, durante il quale si ebbero a lamentare diverse vittime.
In breve il ponte superiore fu in uno stato di devastazione, e tutti gli uomini addetti ai pezzi perirono, per modo che risultò impossibile rispondere ulteriormente ai monitori e gli ultimi due colpi tedeschi erano stati quelli che avevano causato il disastro dell'apparecchio di Cull. Dopo questo il compito dei superstiti del Königsberg
non era più quello di combattere, bensì di domare il grave incendio che minacciava di fare più vittime che non il nemico; le stive dovettero perciò essere inondate.
Alla una e trenta del pomeriggio, il capitano Looff che era stato nuovamente ferito, ordinò al suoi secondo di far saltare il Königsberg
. Era una decisione penosa, ma inevitabile, e frattanto la nave, che per molti mesi era stata la casa di quegli uomini, veniva abbandonata. Sotto il nostro fuoco, i superstiti sbarcarono, per mezzo delle lance, portando con loro i feriti. Alle due il Königsberg
fu fatto saltare, per mezzo di un siluro, che squarciò la nave sotto il ponte prodiero. Lo scafo si inclinò sensibilmente, e affondò fino al ponte superiore; sarebbe rimasto là fino a che la ruggine non lo avesse corroso, simbolo della crudeltà dell'uomo verso il suo simile, ironica lezione di civiltà dell'Europa ai selvaggi primitivi del Rufiji.
4. LE DUE CROCIERE DELLA NAVE CORSARA MÖWE (dicembre 1915 - marzo 1917)
Prima Crociera: (dicembre 1915 - marzo 1916)
Nel corso del 1915, dopo che gli improvvisati incrociatori corsari tedeschi operanti nelle acque extra-europee sono stati tutti eliminati dalla marina britannica, l'Ammiragliato di Berlino decide di riprendere le operazioni contro i commerci dell'Intesa, armando e lanciando sulle rotte oceaniche delle nuove unità, adibite espressamente alla guerra di corsa.
Il conte Nikolaus Burggraf und Graf zu Dohna Schlodien, ufficiale di rotta sulla corazzata
Posen, all'inizio di settembre riceve l'incarico di equipaggiare all'uopo una nave, da scegliere secondo il criterio della massima capacità operativa, non solo per attaccare il naviglio mercantile nemico, ma anche per la posa di banchi di mine, sull'esempio di quanto ha fatto il
Meteor del capitano von Knorr, davanti al Firth of Forth. Queste vicende sono state da lui stesso narrate nel suo libro di memorie
«Möwe», l'ultimo corsaro della Grande Guerra (traduzione italiana di Pfützer-Colombi, Omero Marangoni Editore, Milano, 1932), che costituisce una importante fonte storica.
Fino a quel momento la Germania ha adibito ad incrociatori ausiliari prevalentemente dei piroscafi, capaci di sviluppare alte velocità ma troppo visibili e abbisognanti di enormi quantità di combustibile. Dohna decide di scegliere una nave da carico adibita al trasporto delle banane dal Camerun, il
Pungo, all'epoca attraccata ad Amburgo, dotata di una velocità di soli 14 nodi, ma che dispone di un buon impianto frigorifero per stiparvi grandi scorte di vettovaglie, dato che dovrà operare per molti mesi senza poter contare su alcun porto amico; di un ampio carbonile e di alloggi per l'equipaggio sufficientemente comodi. Si tratta di un vapore di 9.800 tonnellate, lungo 123 metri, largo 14 e con un pescaggio di 7 metri.
Nonostante alcune difficoltà burocratiche, la nave viene trasferita a Wilhelmshaven e messa in cantiere per una serie di lavori di adattamento alle sue nuove funzioni di unità militare. Tra l'altro, vengono installati a prua quattro cannoni a tiro rapido da 150 mm., a poppa un pezzo da 105 mm. anch'esso a tiro rapido; indi la nave, ribattezzata
Möwe (= gabbiano), viene portata nel Mar Baltico per compiere una serie di esercitazioni con il suo nuovo equipaggio della marina da guerra, composto da 150 uomini.
Il 26 dicembre il
Möwe leva gli ormeggi da Kiel, traversa il Canale ed entra nel Mare del Nord; il giorno dopo si ancora nel Suderpip, presso il delta dell'Elba, dove - sotto le raffiche di pioggia e vento - l'equipaggio la rivernicia di nero, completando così la sua trasformazione per mascherarla agli occhi del nemico. Nel primo mattino del 29 essa toglie l'ancora e discende l'Elba, poi supera il faro di Amrum e prende il largo, iniziando la sua prima crociera.
Solo allora gli uomini vengono messi al corrente, in linea di massima, della missione loro affidata. Si tratta di deporre circa 500 mine davanti ad obiettivi strategici della costa nemica, indi compiere alcune scorrerie ai danni del traffico mercantile dell'Intesa, godendo della massima libertà d'azione. Il morale è alto, nonostante la consapevolezza dei rischi e la certezza dei disagi non indifferenti di una lunga crociera di guerra senza scalo.
La giornata del 31 e la notte di San Silvestro vedono la nave obbligata a bordeggiare in prossimità della costa nemica, per evitare una tempesta in arrivo. Del resto, proprio le pessime condizioni meteorologiche giocano a favore della possibilità di forzare il blocco inglese, consentendo alla nave corsara di passare inosservata.
Nel primo pomeriggio del Capodanno, il
Möwe inizia a posare un banco di mine fra la Scozia e le Isole Orcadi, luogo di passaggio abituale della flotta inglese, quando si reca in crociera nel Mare del Nord. Le operazioni sono ostacolate da un forte vento (intensità 10-12) e dai marosi che, al termine della posa, sfondano la coperta anteriore, costringendo la nave a ridurre sensibilmente la velocità per non imbarcare troppa acqua.
Nei giorni successivi la nave tedesca, portandosi circa a metà strada fra l'estremità settentrionale della Scozia e l'Islanda, passa nell'aperto Oceano Atlantico, indi scende a sud-ovest e penetra nel Golfo di Guascogna, ove depone le 250 mine rimanenti davanti ai porti francesi, fra la foce della Loira e quella della Gironda, il 10 gennaio. Fino a questo momento non ha fatto incontri pericolosi, né ha compiuto alcuna azione contro le navi alleate al largo della Manica, per non destare l'allarme in anticipo e compromettere la posa delle mine sulla rotta di Bordeaux.
E' in questo momento che l'equipaggio riceve, via radio, la notizia del suo primo successo: la corazzata inglese
King Edward, di 15.000 tonnellate, è incappata in una delle mine deposte dalla nave corsara al largo della Scozia, ed è affondata. La crociera in Atlantico inizia, pertanto, sotto i migliori auspici.
Adesso il capitano Dohna, liberatosi del suo pericoloso ed ingombrante carico di mine, può dedicarsi liberamente alla seconda parte della sua missione: la guerra di corsa contro il naviglio dell'Intesa. La sua prima cattura, il giorno 11 gennaio, è un colpo particolarmente fortunato, perché consiste in un colpo doppio: il mercantile inglese
Farringford, che viene colato a picco dopo il trasbordo del suo equipaggio; e il vapore
Corbridge, diretto in Brasile con 4.000 tonnellate di ottimo carbone Cardiff, che riceve un equipaggio da presa e viene aggregato alla crociera della nave tedesca.
Lasciate le acque dell'Europa, il
Möwe dirige la prua a sud-ovest, oltrepassa le Canarie e traversa il medio Atlantico, arrivando a fine gennaio davanti alle coste del Brasile, non lontano da Fortaleza. In quelle prime tre settimane di guerra corsara gli si offre l'occasione di affondare numerosi piroscafi alleati: il
Dromonby (3.600 tonnellate), l'
Author (3.500), il
Trader (3.700), l'
Ariadne (3.000), l'
Appam (7.800). Quest'ultimo, un transatlantico con 148 uomini di equipaggio e 160 passeggeri fra civili e militari, non viene colato a picco, ma utilizzato come nave scorta; i Tedeschi vi scoprono con sorpresa, in un secondo momento, 16 casse d'oro provenienti dalle miniere sudafricane e dirette a Londra.
Il primo combattimento ha luogo con il mercantile armato
Clan Mac Tavish (5.800 tonnellate) che, pur disponendo di un solo cannone a tiro rapido da 57 mm., ha cercato di opporsi alla cattura, subendo la perdita di una ventina di uomini. Prima di finire in fondo al mare, la nave inglese ha fatto in tempo a lanciare dei disperati messaggi radio, cosa che induce il capitano Dohna ad allontanarsi in fretta e a distaccare l'
Appam, carica degli equipaggi nemici prigionieri (più di 400 persone) verso un porto degli Stati Uniti, in cui farsi internare.
Dopo aver affondato anche il veliero
Edinburg (1.400 t.), il
Möwe entra silenziosamente nel delta del Rio delle Amazzoni e, ricongiuntosi il 28 gennaio al Corbridge, che aveva adibito a nave carboniera, effettua l'indispensabile rifornimento di combustibile. Ripreso il mare, il 4 febbraio il corsaro fa una nuova preda, il belga
Luxemburg (4.300 t.), che trasporta 5.900 tonnellate di carbone e che viene immediatamente affondato. Poi, al largo dell'isola Fernando de Noronha, è la volta del mercantile inglese
Flamenco, che tenta di lanciare l'allarme via radio.
Il conte Donha ha così rievocato l'episodio (
Op. cit., pp. 89-90):
Da un telegramma non cifrato, emesso dal carico inglese Flamenco
, risulta che questi deve passare durante la notte a circa 50 miglia all'Ovest di Fernando di Noronha. All'alba mi trovo anch'io in quei paraggi e lo incrocio senz'altro. Il capitano della nave inglese cerca ancora di lanciare un richiamo di soccorso colla radio, ma noi arriviamo in tempo a turbare la sua comunicazione e a distruggere il suo apparecchio radio con qualche obice da 150 mm. bene aggiustato. Disgraziatamente i nostri proiettili ottengono anche il risultato inatteso di incendiare la nave, che si mette a bruciare come una torcia, e l'equipaggio deve calare subito le scialuppe per salvarsi. Nell'emozione generale, una di queste, assai affollata, si capovolge e una ventina di uomini viene proiettata in acqua. Bisogna stare molto attenti in questa zona infestata da pescicani e ci mettiamo subito al loro salvataggio: alla fine possiamo ritenerci soddisfatti perché riusciamo a riportarli tutti a bordo tranne uno. Le ricerche continuano per vedere di salvare anche quest'ultimo disgraziato ma evidentemente un pescecane più vorace degli altri deve averlo ghermito
Dopo aver modificato ancora una volta le sue caratteristiche esteriori in seguito all'incontro con la nave norvegese Estrella - che viene lasciata andare in quanto neutrale, ma che, dotata di un apparecchio radio, costituisce una fonte di pericolo, la nave tedesca cattura ancora la nave carboniera Westburne (3.300 t.) e, subito dopo, il mercantile Horace (anch'esso di 3.300 t.); il primo viene utilizzato per spedire i numerosi prigionieri verso un porto neutrale.
Dopo essere risalito a nord-est per riattraversare l'Atlantico, oltrepassate le Azzorre il
Möwe cattura la nave francese
Maroni (3.000 t.), diretto da Bordeaux a New York, colandola a picco; e, il 25 febbraio, fa la sua ultima preda: il
Saxon Prince, che trasporta in Inghilterra 4.000 tonnellate di cotone, grano e acciaio.
Per forzare il blocco inglese, il capitano Dohna aveva pensato inizialmente di entrare nel Canale di Danimarca, girando a nord dell'Islanda; ma il cattivo stato delle due caldaie, molto logorate, lo costringe ad abbreviare la rotta e a ridurre per qualche giorno la velocità a soli 8 nodi. Recuperata, il 29 gennaio, la velocità massima di circa 15 nodi, il corsaro giunge in prossimità della costa norvegese nella notte dal 1° al 2 marzo, passando in mezzo alle maglie della sorveglianza nemica, grazie alla luna nuova e al mare molto agitato. Il 3 marzo penetra nello Skagerrak e il giorno dopo entra nella baia di Helgoland, accolto trionfalmente dalla squadra di incrociatori da battaglia dell'ammiraglio von Hipper.
Seconda Crociera (novembre 1916 - marzo 1917)
Per alcuni mesi la nave rimane in Germania, per subire lavori di riparazione e per concedere un periodo di riposo agli ufficiali e all'equipaggio, ciascun membro del quale ha ricevuto la croce di ferro di seconda classe quale riconoscimento della brillante impresa compiuta.
In quel periodo il
Möwe viene ribattezzato
Vineta, per confondere le spie nemiche; e, nel corso di alcune sortite nel Mare del Nord, al largo della Norvegia, cattura il mercantile inglese
Escimo, al limite delle acque territoriali. L'equipaggio tedesco venne portato da 150 a 250 uomini e sottoposto a un nuovo periodo di esercitazioni.
L'occasione di salpare viene con la luna nuova di novembre, il giorno 22, quando le condizioni sono più favorevoli per eludere il blocco inglese. Questa seconda missione dovrebbe ricalcare, sostanzialmente, l'itinerario della prima; di fatto, sarà più lunga di circa un mese, perché la nave si spingerà più a sud nell'Atlantico meridionale, fino quasi alla latitudine del Capo di Buona Speranza; ma senza passare nell'Oceano Indiano. In compenso, questa volta non deve deporre banchi di mine, ma soltanto dedicarsi alla guerra di corsa.
Ribattezzato col suo vecchio nome e affidato sempre al capitano Dohna, il
Möwe riattraversa il Kattegat e lo Skagerrak, costeggia la Norvegia; poi, compiendo un ampio giro attorno alle Isole Faer Oer, si porta a sud dell'Islanda e inizia la discesa verso le medie latitudini, puntando sempre a sud-ovest.
Il 2 dicembre, la prima preda: la nave inglese
Voltaire (5.500 t.), diretta a Buenos Aires, che viene affondata subito dopo il trasbordo dell'equipaggio. Quindi, giunta sulla rotta fra Londra e New York, la nave tedesca mette a segno una serie di colpi fortunati: cadono in suo potere il
Mount Temple (9.800 t.), il 6 dicembre, poi, in rapida successione, il minuscolo tre alberi
Duchesse of Cornwall, e altri due mercantili, il
King George e il
Cambrian Range, l'8 dicembre: tre prede in un solo giorno.
Il 10 dicembre è la volta del vapore
Georgic (oltre 10.000 t.), che trasporta, fra l'altro, 1.200 cavalli destinati all'artiglieria inglese sul fronte occidentale, e 36 automobili blindate. Commovente la sorte dei poveri animali, allorché la nave viene colata a picco, così come traspare dalle parole del mastro meccanico Wagner (
Op. cit., p.p. 140-141):
Alle 10 la distruzione del vapore è ultimata. La nostre scialuppe non sono ancora giunte a 200 m. dalla nave nemica che le due cariche esplodono quasi simultaneamente. Una era stata posta fra il terzo e il quarto albero, l'altra circa all'altezza delle caldaie. Come già era successo per il Cambrian Range alte colonne d'acqua si elevano lungo i fianchi della nave e precipitano sul ponte. Queste ottengono l'effetto di allagare gli scompartimenti , mentre le onde incominciano ad invadere la coperta, che appare arrossata per il sangue dei cavalli uccisi dall'esplosione. Aspettammo per due ore che la nave sparisse dalla superficie ma alla fine ci convincemmo che, se non l'avessimo aiutata, la sua completa distruzione si sarebbe fatta attendere ancora per molto. Il nostro comandante decise di inviarle un siluro. Quando quest'ordine fu conosciuto a bordo tutti si precipitarono in coperta per poter assistere allo spettacolo che si annunciava interessante. Condotta la nostra nave in una posizione favorevole il siluro venne lanciato, cadde in acqua e si diresse verso il bersaglio, lasciando una tenute traccia di bolle d'aria. Era la prima volta che molti di noi potevano osservare il lancio di un siluro, ed eravamo ansiosi di controllarne il micidiale effetto. Passarono alcuni istanti e poi una formidabile esplosione e un'altissima colonna d'acqua, mista a fumo, si elevò nell'aria, e, giunta al suoi punto massimo, si riversò disordinatamente in tutti i sensi. Purtroppo ci vollero ancora tre ore prima che la nave si decidesse ad affondare. Alla fine, verso le 15, si coricò completamente sull'acqua e sparve. Fu orribile spettacolo osservare la ragica lotta sostenuta da molti cavalli contro la morte. Questi erano alloggiati nei ponti superiori e quando l'acqua giunse fino a loro ruppero le catene, che li tenevano legati e si precipitarono in acqua. Un cavallo fece per tre volte il giro a nuoto attorno ala nave, che affondava, cercando invano un appiglio, al quale attaccarsi, prima di lasciarsi andare a fondo, senza forze. Un altro venne a nuoto fino da noi per implorare di salvarlo. Io non dimenticherò mai lo sguardi disperato che ci rivolse. Con tre colpi di pistola, bene aggiustati, affrettammo la sua fine.
I prigionieri a bordo del
Möwe sono già complessivamente quasi 450; per cui, quando viene catturato il mercantile
Yarrowdale, che trasporta materiale bellico, una parte di essi viene trasferita a bordo con un piccolo equipaggio da presa e spedita non verso un porto neutrale, ma verso la Germania, in considerazione della preziosità del carico. Dopo una navigazione avventurosa, la nave - affidata al quartier mastro Badewitz - riuscirà a raggiungere il porto di Swinemünde, beffando il blocco navale inglese. Impresa notevolissima, specie se si considera che un equipaggio di appena 15 tedeschi aveva dovuto tenere a bada 460 prigionieri.
Subito dopo è la volta del
Saint Théodore che, con le sue 7.000 tonnellate di eccellente carbone, costituisce una preda particolarmente utile. In pochi giorni di crociera fortunatissima, il corsaro ha catturato o affondato otto vapori e un veliero, per un totale di quasi 50.000 tonnellate di stazza, senza contare i carichi, sequestrati o distrutti. Il 17 dicembre, dopo una breve pausa, cade in potere del tedesco il mercantile
Dumatist, carico di frutta e viveri freschi: un altro colpo fortunato. Dopo di che, sia per le persistenti condizioni di cattivo tempo, sia perché l'allarme, ormai, si è ampiamente diffuso fra i nemici, il
Möwe abbandona quel terreno di caccia, ormai sfruttato, e scende verso l'Equatore.
Il 23 dicembre si rifornisce di carbone dal
Saint Théodore, al quale aveva dato appuntamento in un luogo prefissato; poi, anche questa nave viene trasformata in incrociatore ausiliario. Ribattezzata
Geier, le viene dato un piccolo equipaggio di 9 sottufficiali e 37 uomini, al comando del tenente di vascello Wolf; l'armamento, ceduto dal
Möwe, consiste in 2 cannoni a tiro rapido da 52 mm.
Il giorno di Natale viene catturato e affondato un magnifico veliero francese, il
Nantes, che trasporta dal Cile 3.300 tonnellate di salnitro: è un vero peccato mandarlo a picco, perché la nave - una delle ultime del suo genere - è veramente un gioiello, con tutte le vele spiegate e un equipaggio che le manovra con estrema perizia.
Giunto di nuovo al largo del Brasile, come nel corso della prima crociera, il
Möwe cattura un veliero carico di grano argentino e diretto a Bordeaux, l'
Asnières; poi un vapore giapponese, l'
Hudson Maru, trattenuto come nave scorta; indi il
Radnoschire (4.300 t.), e, l'8 gennaio, la nave carbonifera inglese
Minieh e il mercantile
Netherby Hall. Subito dopo l'
Hudson Maru viene spedito a Pernambuco con gli equipaggi delle navi affondate.
Dopo un rendez-vous con il
Geier e un nuovo rifornimento di carbone, la nave tedesca si porta sulla rotta del Capo di Buona Speranza, dove si trattiene per un mese esatto, dal 2 gennaio al 2 febbraio 1917, ma senza rinnovare gli spettacolari successi del Nord Atlantico. Risalito fino a Trinidad, il
Möwe si incontra nuovamente con il
Geier, le cui macchine avariate consigliano di non sfruttarlo oltre, per cui viene autoaffondato. Nella sua breve carriera di corsaro indipendente, non ha catturato che due prede assai modeste, due velieri.
Poi, un nuovo periodo di catture numerose: la carboniera inglese
Brecknockshire (8.000 t.), con un carico di 7.000 tonnellate di carbone; e, lo stesso giorno, il mercantile
French Prince; poi, ancora, il piccolo vapore
Eddie. Sfuggito a un incrociatore inglese, il corsaro si porta in una nuova «riserva di caccia» all'altezza delle isole di Capo Verde, dove cattura e affonda i vapori
Catherine (2.900 t.) e
Rhodante (3.600 t.).
Ormai la rotta è a nord, per il ritorno in patria. Dopo aver colato a picco la nave inglese
Esmeraldes (4.700 t.), con nebbia e pioggia, per la prima volta la nave corsara si trova a dover sostenere un combattimento in pieno regola, al largo di Terranova. Il suo avversario è l'incrociatore ausiliario britannico
Otaki, con il quale si svolge un aspro duello di artiglieria. Il
Möwe incassa alcuni colpi e a bordo scoppia un incendio; ma la nave inglese, meno armata, ha la peggio e, a sera, cola a picco. Il suo comandante rimane ucciso insieme a 13 uomini dell'equipaggio; altri 73 vengono presi a bordo dai Tedeschi, fra i quali una ventina di feriti, in massima parte gravi.
Il capitano Dohna e i suoi uomini hanno dovuto lottare a lungo contro l'incendio, e un sottufficiale e cinque fuochisti muoiono in seguito alle ustioni riportate; parecchi sono i feriti. Finalmente le fiamme vengono spente e, dopo alcuni giorni di lavoro, la nave è rimessa in efficienza.
Le ultime due prede sono il vapore
Demerteton (6.000 t.) e il
Governor (5.500 t.), entrambi armati; il primo si arrende senza lottare, il secondo tenta di resistere e ne nasce un breve ma sanguinoso combattimento, che termina con la sua distruzione.
Drammatiche le fasi dello scontro, che avrebbe potuto terminare in altro modo se gli artiglieri inglesi avessero avuto il tempo di far fuoco con il cannone mascherato da 120 mm., che avevano già puntato contro la nave corsara. Così rievoca l'episodio il già citato Wagner (
Op. cit., pp. 213-214):
Sembra che il nemico non sia armato di cannone perché ha la poppa molto rialzata e proprio nel mezzo di dietro ha un albero per la bandiera. Quando l'avversario si accorge del nostro mutamento di rotta, per avvicinarlo, aumenta rapidamente di velocità, ma ora è troppo tardi perché gli siamo vicini. Il Conte dà l'ordine di fermarsi e tira il consueto colpo di avvertimento. La nave però sembra non se ne dia per inteso e allora noi apriamo immediatamente il fuoco che viene a colpire la nave nemica. Il secondo colpo portato a segno ha un effetto straordinario, che ci sorprende moltissimo. Infatti un obice da 150 millimetri colpisce la soprastruttura di poppa, ne strappa le pareti e fa apparire ai nostri occhi un grazioso cannone da 120 mm. che vi era dissimulato. Due uomini lo avevano già caricato e puntato: senza dubbio questi non si aspettavano che l'ordine di lasciar cadere le mascherature e di aprire il fuoco. Per nostra fortuna siamo riusciti a sventare l'inganno. Uno dei due serventi è buttato in mare mentre l'altro ha una mano completamente asportata. Lo stesso proiettile passa poi attraverso il ponte, butta a mare una scialuppa, perfora una ciminiera e finalmente strappa la parte sinistra della passerella, ferendo gravemente l'ufficiale in seconda e il primo luogotenente, che si trovano in quel luogo.
Un altro proiettile penetrato di poppa proprio al di sotto della linea di immersione, attraversa obliquamente la nave ed esce a sinistra, provocando una grossa falla nella chiglia. Altri due proiettili colpiscono al centro, l'uno all'altezza della macchina, l'altro a poppa, ma non ne possiamo scorgere l'effetto.
Con la bellezza di circa 700 prigionieri stipati nella stiva, il
Möwe si spinge molto a nord, fin nei pressi della costa meridionale dell'Islanda, indi scende a sud-est e, il 19 marzo, è in vista delle acque territoriali norvegesi, dopo aver forzato il blocco inglese per la quarta volta in soli quindici mesi. Riattraversati gli Stretti danesi, il 21 marzo rientra a Kiel e getta l'ancora, trionfante, dopo una crociera ancor più fruttuosa di quella precedente.
Sono stati catturati o affondati 21 vapori e 5 velieri dell'Intesa, per un totale di quasi 120.000 tonnellate di stazza lorda. Non meno gravi sono stati i danni causati al nemico in termini di perdita di materiali strategici, ritardo nei rifornimenti marittimi e aumento delle tariffe assicurative; senza contare la diminuzione di prestigio per l'insufficiente controllo delle rotte oceaniche, a dispetto del ferreo blocco navale inglese nel Mare del Nord.
Le due crociere del
Möwe costituiscono senza dubbio un brillante successo militare, anche se ci sarebbe voluto ben altro per mettere in crisi le comunicazioni fra l'Intesa e i Paesi neutrali d'oltre oceano, soprattutto gli Stati Uniti. A ciò si stavano impegnando gli U-boote i quali, come è noto, giunsero a un passo dal recidere i rifornimenti verso la Gran Bretagna e la Francia, ma diedero occasione all'entrata in guerra degli Stati Uniti poco dopo il rientro della nave corsara, il 6 aprile 1917 (la dichiarazione di guerra fu estesa all'Austria-Ungheria solo il 7 dicembre per le mene degli esuli cechi, Masaryk e Bene, e di quelli croati, molto ascoltati dal presidente Wilson).
La condotta del capitano Dohna durante le sue due crociere in Atlantico fu umana, per quanto possibile; e, in ogni caso, conforme al diritto di guerra. Le navi neutrali vennero rispettate e gli equipaggi di quelle catturate o affondate vennero trattati secondo le norme internazionali. Nessuno venne abbandonato in mare con le scialuppe: furono tutti presi a bordo e, ove possibile, rimandati in qualche porto neutrale. Quando il
Möwe incontrò una resistenza, la sua reazione fu dura, ma proporzionata. Data la barbarie della guerra in se stessa, e paragonata alle carneficine dei fronti terrestri, la condotta della nave corsara fu, se non proprio cavalleresca, quanto meno civile, come gli stessi nemici dovettero riconoscere.
Dal punto di vista strettamente militare, peraltro, fu evidente che l'azione delle navi corsare di superficie avrebbe potuto far sentire il suo peso sulla bilancia della guerra soltanto se fossero state organizzate numerose unità di quel genere, altrimenti si sarebbe trattato - come fu - di exploit isolati e scarsamente significativi. Ad ogni modo, si era trattato di un utile banco di prova per la marina tedesca, che ne trasse numerosi insegnamenti per il futuro.
Lo si sarebbe visto nella seconda guerra mondiale, quando una seconda ondata di navi corsare di superficie venne sguinzagliata su tutti e tre gli oceani per attaccare e distruggere - in concomitanza con i «branchi di lupi» sottomarini - il traffico marittimo dell'Impero britannico e, poi, degli Stati Uniti d'America.
5. LA CROCIERA DEL CORSARO WOLF (30 novembre 1916 - 24 febbraio 1918)
Di tutte le navi corsare che la Marina imperiale germanica lanciò sugli oceani durante la prima guerra mondiale per dare la caccia al naviglio mercantile alleato, il
Wolf (= lupo) fu certamente quella che ottenne i successi più spettacolari e che condusse la crociera più lunga e fortunata: ben quindici mesi di navigazione ininterrotta, senza mai poter entrare in un porto amico e senza l'ausilio di navi appoggio per l'indispensabile rifornimento di carbone, violando con successo il blocco navale inglese nel Mare del Nord sia nel viaggio di andata, che in quello di ritorno.
Eppure non si trattava di una nave dai requisiti eccezionali, bensì di un mercantile qualsiasi, riadattato in piena guerra: un vapore ad un'elica di nome
Watchtfels, costruito nel 1913 per le la Hansa Linie di Brema, 5.800 tonnellate di stazza e una velocità - assai modesta - di undici nodi. La sua trasformazione in nave da guerra adibita a una lunghissima crociera in mari lontani fu un miracolo di organizzazione e di uso razionale dei non grandi mezzi a disposizione: prova del fatto che, in guerra, non è solo la forza bruta a determinare l'esito delle operazioni, ma anche lo spirito d'iniziativa, l'impiego intelligente dei materiali a disposizione, la tenacia, la qualità del morale degli uomini e l'intraprendenza dei capi.
Altre navi corsare tedesche compirono imprese memorabili, ma nessuna ebbe quel misto prodigioso di fortuna, coraggio e abilità, che consentirono al
Wolf di spingersi così lontano, fino all'Antartico e alla Nuova Zelanda, infliggendo tanti danni al nemico, pur potendo contare su così modeste risorse. In pratica, esso si alimentò di quanto potevano fornirgli le sue stesse prede, sia in termini di combustibile, sia di viveri e perfino d'informazioni.
Prima di lui, il Möwe aveva compiuto ben due crociere, in tempi ravvicinati, tra la fine del 1915 e i primi mesi del 1917, riportando notevoli successi, specialmente nella seconda (cfr. il nostro
Le due crociere della nave corsara «Möwe»); ma non si spinse fuori dell'Atlantico e non rimase mai lontano dalla Germania per più di cinque mesi consecutivi.
Altri incrociatori corsari tedeschi che fecero parlare di sé furono il
Kronprinz Wilhelm, il
Kaiser Wilhelm der Grosse, il
Prinz Eitel Friedrich e il
Cap Trafalgar: tutti navi mercantili che si trovavano sui mari allo scoppio della guerra (ad eccezione del secondo) e che vennero armati dagli incrociatori leggeri che si trovavano all'estero in quel momento, come il
Dresden e il
Karlsrhue (cfr. F. Lamendola,
L'ultima crociera dell'Ammiraglio Spee. Battaglie navali di Coronel e Falkland).
Presso l'Ammiragliato britannico si credeva che tutti o quasi tutti i mercantili tedeschi all'estero fossero dotati di cannoni nascosti nelle stive, e che, allo scoppio della guerra, sarebbero stati prontamente trasformati in incrociatori ausiliari; ma non era affatto così. Solo col tempo e sulla base di alcune positive esperienze, il Comando della flotta tedesca giunse a comprendere e apprezzare al suo giusto valore le possibilità offerte dalle navi mercantili trasformate in incrociatori ausiliari per danneggiare i commerci del nemico; e, quando ciò avvenne, era già troppo tardi. La carta decisiva fu giocata dai sommergibili, che godevano di maggiore autonomia e potevano forzare il blocco e spostarsi attraverso i mari con molta maggiore segretezza.
Il
Kronprinz Wilhelm, di 15.000 tonnellate, aveva lasciato il porto di New York nell'agosto del 1914 ed era stato armato con quattro cannoni cedutigli dal
Karlsruhe, col quale si era incontrato in mare aperto. Al comando del capitano di vascello Thierfelder condusse una fortunata crociera di otto mesi nell'Atlantico meridionale, affondando ben 17 navi alleate, prima di essere costretto ad entrare nel porto di Newport News, ove venne internato, l'11 aprile 1915.
Il
Kaiser Wilhelm der Grosse era un transatlantico di 14.500 tonnellate che si era reso celebre nel 1897, allorché - prima nave della Marina tedesca - aveva vinto il nastro azzurro per la traversata atlantica nel tempo più breve, filando alla velocità media di 22 nodi. Partì dalla Germania il 4 agosto 1914, poche ore prima che il governo di Londra dichiarasse la guerra, ma non ebbe fortuna. Dopo aver catturato due sole navi, il 26 agosto fu attaccato e colato a picco dall'incrociatore inglese
Highflyer davanti al Rio de Oro spagnolo, sulla costa africana prospicente le isole Canarie. Una terza nave da esso fermata, il transatlantico
Arlanza, era stato lasciato andare perché portava a bordo anche donne e bambini: una nota gentile che suona quasi patetica, agli esordi di una guerra mondiale che avrebbe visto gli orrori dei gas asfissianti, i primi bombardamenti aerei sulle città indifese e la barbarie degli affondamenti indiscriminati da parte dei sommergibili.
Il
Prinz Eitel Friedrich, un vapore di 9.000 tonnellate che stazionava nei mari della Cina, ebbe una carriera brillante. Al comando del capitano di vascello Thierichens, ricevette alcuni pezzi d'artiglieria dalla cannoniera Tiger e si allontanò da Tsingtao appena in tempo per evitare di restare intrappolato dal blocco navale alleato. Dopo aver traversato l'intera lunghezza dell'Oceano Pacifico, si ricongiunse temporaneamente con la squadra dell'Ammiraglio von Spee ed entrò a Valparaiso dopo la vittoria tedesca nella battaglia navale di Coronel, il 1° novembre 1914. Poi riprese la sua crociera solitaria, risalì l'Atlantico (mentre la squadra di von Spee veniva distrutta alla isole Falkland, l'8 dicembre) e finì internato anch'esso a Newport News, l'11 marzo 1915, dopo aver affondato complessivamente 11 navi, per la maggior parte velieri. A parte il
Dresden, che fu costretto ad autoaffondarsi il 15 marzo presso l'isola di Mas a Tierra nell'arcipelago Juan Fernandez, fu la nave da guerra tedesca che sopravvisse più a lungo sugli oceani, prima della crociera del
Wolf, che ebbe inizio quasi due anni dopo.
Infine il
Cap Trafalgar, piroscafo di 18.000 tonnellate, non riuscì a catturare nemmeno una preda prima di essere affondato nel corso di un epico combattimento presso l'isola brasiliana di Trinidad, il 14 settembre 1914. Il suo avversario era un incrociatore ausiliario britannico, il
Carmania, dalle caratteristiche molto simili alle sue, per stazza e velocità, che aveva però un decisivo vantaggio in fatto di armamento: otto cannoni da 120 mm. contro due soli da 103 mm. Nonostante la disparità di forze, la nave tedesca si batté con grande valore e riuscì quasi ad affondare il nemico, prima di essere colata a picco.
Ma torniamo al
Wolf.
Il
Watchtfels, verso la fine del 1916, entrò segretamente nel bacino di carenaggio e venne armato con sette cannoni da 150 mm. e quattro siluri; sia i cannoni che i lanciasiluri erano abilmente mascherati da false murate di maniera, in modo da sembrare una inoffensiva nave mercantile. Era dotato anche di un idrovolante e di personale così specializzato che, quando il velivolo perse un'ala nel corso della crociera, poté essere riparato senza l'ausilio di nessuno. Infine, furono caricate a bordo circa 400 mine, che dovevano essere deposte lontano dall'Europa e dall'Atlantico settentrionale, davanti ai porti ritenuti sicuri dal nemico, fra il Mare Arabico e l'Oceano Pacifico occidentale. Per tale ragione, il
Wolf aveva ricevuto ordini tassativi di non affondare naviglio nemico nel Nord Atlantico e di non spargere in alcun modo l'allarme, prima di essere giunto nei pressi del Capo di Buona Speranza, in modo da poter giungere del tutto inaspettato davanti ai suoi lontani obiettivi. Solo a quel punto avrebbe potuto iniziare la sua carriera di corsaro.
Il comandante era il capitano di corvetta Carl Nerger; lo affiancava un primo ufficiale proveniente dalla marina mercantile, Schmehl. Data la natura della sua missione, il
Wolf uscì dal porto di Kiel nel massimo segreto e, dopo un incidente alle macchine, lasciò definitivamente la Germania il 30 novembre 1916. Con il favore della nebbia raggiunse la Norvegia senza essere scoperto; indi, dopo averla costeggiata, puntò a nord-ovest, passò tra le maglie del blocco inglese ed entrò senza incidenti nel Canale di Danimarca, fra l'Islanda e la Groenlandia, sfiorando i ghiacci galleggianti e sfruttando i pericolosi alleati di quei mari settentrionali, in pieno inverno: la fitta nebbia, le nevicate, i piovaschi e le acque agitate.
Giunto al largo di Capo Farvel, l'estremità meridionale della Groenlandia, il
Wolf mise la prua al sud e scivolò lungo l'Atlantico, seguendo all'incirca il 40° meridiano, tagliando inosservato la frequentatissima rotta New York-Liverpool; indi attraversò l'Equatore e diresse a sud-est, giungendo davanti al Capo di Buona Speranza, ove depose un primo e un secondo di mine sia davanti a Città del Capo, sia davanti al capo Agulhas, all'estremità meridionale del continente africano; il tutto sempre senza farsi notare.
E già questa prima parte della missione, per quanto svolta in sordina, si deve ritenere un'impresa del tutto eccezionale. Vero è che lo aveva assistito una fortuna non comune: ad esempio, al largo di Città del Capo si era imbattuto in un intero convoglio alleato, guidato dall'incrociatore inglese
Berwick; e, non avendo fatto in tempo ad allontanarsi, gli era sfilato di controbordo, come nulla fosse. Quella sera stessa, aveva deposto il suo micidiale carico di mine. Era il 16 gennaio 1917, ed erano passati solo quarantasette giorni dalla sua partenza.
Entrato nell'Oceano Indiano, si era diretto dapprima all'isola di Ceylon, deponendo un terzo campo di mine davanti al porto di Colombo; poi verso nord-ovest, posandone un quarto al largo di Bombay. Solo allora incominciò a fare prede, catturando la petroliera
Turritella, che trasformò in posamine ausiliario, col nome di
Iltis, e la spedì al largo di Aden, ove essa dovette autoaffondarsi per non finire catturata, dopo aver compiuto la sua missione.
Le mine deposte dal
Wolf nelle acque dell'India causarono poi gravi danni al nemico. Davanti a Colombo vi affondarono il postale
Worcestershire e il transatlantico
Perseus; davanti a Bombay le urtarono e colarono a picco altre navi, tra le quali il transatlantico
Mongolia (sul quale persero la vita 26 persone).
Intanto la nave corsara iniziava la traversata dell'Oceano Indiano da nord-ovest a sud-est, catturando alcune navi mercantili, dalle quali si riforniva di viveri e carbone: appena la quantità necessaria per tirare avanti, prendendo a bordo, ogni volta, gli equipaggi delle navi affondate. Girando attorno al Capo Leeuwin, scivolò a sud dell'Australia e, per evitare possibili incontri con navi da guerra, tenne una rotta molto meridionale, che la portò in vicinanza della banchisa di ghiaccio del continente antartico. Dopo averla costeggiata per un lungo tratto, affrontando i «Cinquanta urlanti» e i «Quaranta ruggenti», il
Wolf passò oltre la Tasmania e la Nuova Zelanda, dopo aver toccato la punta sud-orientale di quest'ultima; poi, nei pressi delle Isole Kermadec, catturò e affondò due mercantili, il
Wairuna e il
Winslow.
Così è stata descritta la cattura del
Wairuna, un vapore da carico che, il 3 giugno 1917, ebbe la sfortuna di passare vicino alla nave corsara e il cui comandante, pur messo in guardia dal suo ufficiale in seconda, non volle credere al pericolo incombente e non modificò la rotta, quando era ancora in tempo a farlo. Il racconto è di un cittadino australiano che si trovava a bordo in qualità di radiotelegrafista, Roy Alexander, e che visse poi come prigioniero gli ultimi nove mesi della crociera del
Wolf, conservando - peraltro - una notevole equanimità nei confronti del nemico (R. Alexander,
La crociera del corsaro «Wolf»; titolo originale dell'opera,
The Cruise of the Raider «Wolf», Yale University Press, 1939, traduzione italiana di Tito Diambra, Casa Editrice E. Corticelli, Milano, 1940, pp. 36-40):
Mentre [il cameriere] mi stava esortando ad andar di sopra a dare un'occhiata a quella bella nave che c'era all'ancora, il suo cicalio fu interrotto. Il vassoio del tè precipitò mentre io, col vantaggio di una testa sul cameriere, infilavo il breve passaggio che metteva in coperta. Gli ufficiali di macchina salivano anche loro; dal castello la guardia franca di servizio accorreva a poppa. Un idrovolante girava a basa quota intorno a noi:; tanto basso che quando ci passava sopra pareva rasentasse le gallette degli alberi. Era un biplano a due posti, con le ali dipinte sotto a croci di malta nere: l'insegna germanica. Era tanto vicino che si vedeva benissimo l'osservatore dondolare fuori della carlinga una lunga bomba a forma di pera.
Accorsi sul ponte di comando:
- Non toccate il manipolatore - mi disse il capitano: - Aspettate qui un momento.
Un marinaio salì di corsa con un messaggio attaccato a un sacchetto di sabbia, che l'osservatore dell'aereo ci aveva lasciato cadere sulla prora.
- Non usate la radio. Fermate le macchine. Eseguite gli ordini dell'incrociatore o vi bombarderemo - diceva il messaggio, scritto in inglese.
L'idrovolante fece una nuova picchiata e piantò una bomba proprio di prora a noi, per dar forza all'ordine.
Il Wairuna
era in una posizione disperata. Passato il promontorio, la sua rotta lo aveva portato dritto vicino alla nave sconosciuta, che adesso era a meno di un miglio. Parecchi cannoni erano puntati su di noi, e un picchetto armato già veniva a bordo.
Il nostro secondo, Rees, se ne stava a un'estremità della plancia con le braccia conserte. Non diceva «l'avevo detto, io»; ma gli si leggeva in faccia.
- Sbarazzatevi del registro segnali radio, e non toccate il manipolatore.
Questo fu l'ultimo ordine che ebbi dal capitano Saunders.
In coperta fuori del salone metà dell'equipaggio faceva ressa intorno a un oggetto che doveva essere una grossa baia (secchia): il capo cameriere aveva tirato fuori le provviste di tabacco dicendo che era meglio lo avesse la nostra gente e non i Tedeschi.
- Val quasi la pena di lasciarsi catturare - diceva udibilmente un fuochista tirandosi fuori dalla calca e avvolgendo in un cencio il tabacco e le scatole delle sigarette: - E' la prima volta che una compagnia di navigazione mi dà qualche cosa per nulla.
Giù nel locale delle caldaie un ufficiale gettava dentro un focolare certe carte di bordo e codici di segnali: ci buttai anch'io il registro radio e i codici relativi. Risalito in coperta vidi quel tal cameriere, fuori della cabina della radio, infilarsi la famosa giacca bianca, ritenendo forse che quella specie di uniforme valesse a stabilire chiaramente la sua qualità presso i Tedeschi.
L'apparecchio radio era nuovo ed era una cosa troppo utile per lasciare che se ne impadronisse il picchetto armato, che già arrivava. Il ricevitore venne staccato dalla tavola mediante una chiave per dadi e gettato fuori bordo. Quasi tutte le parti del trasmettitore gli tennero dietro. Mentre io stavo ancora frugando fra i pezzi di ricambio per vedere se avevo dimenticato nulla d'importante, apparve sulla porta un ufficiale tedesco. Teneva la rivoltella spianata e aveva seco due marinai armati, ma era sorridente e garbato:
- Buona sera! - disse in tono cortese: - Le vostre carte, per favore.
Non fu molto contento quando vide che le cose importanti erano sparite. Fummo condotti nel salone e interrogati; tutto senza «ammuina» (chiasso, disordine, agitazione). Anzi il capo cameriere ci servì il tè, e l'ufficiale tedesco si compiacque di accettarne una tazza.
Il picchetto armato era numeroso, con due ufficiali. Appena messo piede in coperta andarono dritti nei punti stabiliti in precedenza - la plancia, il locale macchine e così via - e presero possesso di tutto metodicamente. Dopo il tè (curioso, quel tè di corsari insieme coi loro prigionieri), quelli di noi che erano stati trattenuti nel salone ebbero ordine di scendere nella barca del picchetto: sempre con la massima cortesia. Trasbordarono tutti gli ufficiali di coperta e il direttore di macchina; il resto dell'equipaggio fu lasciato pel momento sul Wairuna
.
Ormai il sole era tramontato; ma dalla barca, avvicinandoci, potemmo veder bene il corsaro. Era una nave solida e dall'aspetto «efficiente». Nulla adesso la distingueva da un vapore mercantile qualunque. Fumaioli e scafo neri; qua e là nelle sovrastrutture un po' di grigio scuro. Moltissimi mercantili britannici a quel tempo erano dipinti col grigio di guerra; e questa nave era un po' più scura; ma la differenza si apprezzava appena. I cannoni, brandeggiati adesso nella posizione longitudinale, non si vedevano più. La nave doveva stazzare un 7 mila tonnellate; il ponte di comando lungo e scoperto le dava un'aria che ricordava la nota classe dei Kashmir della Peninsulare e Orientale.
Ma la somiglianza col transatlantico cessò di colpo quando, saliti a bordo con la biscaglina (scaletta di cavo e piuoli) ci trovammo fra un lanciasiluri e un cannone da 150. La nave formicolava d'uomini; e sulla sola coperta a poppa, che era la parte visibile a noi in quel momento, c'erano due lanciasiluri e due di quei cannoni: gli uni e gli altri così ben nascosti dietro le murate di lamiera abbattibili, che anche di sotto bordo, dalla barca, non se ne vedeva nulla.
Condotti a poppa sotto il casseretto fummo perquisiti, sequestrandoci ogni lettera e fino il più piccolo pezzo di carta.
Ci fecero poi lavare con una specie di sapone antisettico, e poscia ci restituirono gli abiti e ci condussero di sotto per una piccola scala, nell'alloggio dei prigionieri, che era la stiva numero 4 a poppa estrema, nel traponti: in uno scatolone quadro di lamiera molto sudicio e ricoperto di polverino di carbone, in mezzo a una folla d'un centinaio d'uomini che ci domandavano notizie del mondo esterno; marinai di tutti i tipi, bianchi, neri, bruni e grigi. In quel calore umido molti erano quasi nudi, ma alcuni indossavano ancora uniformi della marina mercantile lacere e consunte.
Le cose che raccontavano gli uomini erano ancora più strane della loro apparenza e dell'ambiente. Tutti erano stati catturati nell'Oceano Indiano qualche mese prima, e le loro navi mandate a fondo. Alcuni erano sul Wolf
da più di tre mesi. Il corsaro era dunque il Wolf
, nave da guerra ignota alle autorità navali degli Alleati. Ignota del resto anche in Germania, salvo che a pochissimi ufficiali e funzionari; e anche questi, dopo sei mesi che era partita, ignoravano se fosse ancora a galla. Incrociatore e posamine allo stesso tempo, ne aveva già seminate a Città del Capo, a Colombo e a Bombay; ma una metà del carico di mine era ancora a bordo
Dopo aver lasciato le isole Kermadec, il
Wolf depose un quinto campo di mine davanti al Capo Nord, all'estremità settentrionale della Nuova Zelanda; poi volse la prua a sud e ne depose un sesto davanti all'imboccatura occidentale dello Stretto di Cook, che separa l'isola del Nord da quella del Sud, punto di passaggio obbligato di gran parte del traffico marittimo da e per Auckalnd; infine, traversato il Mare di Tasman, ne depose un settimo di fronte alle isole Gabo, presso la costa sud-orientale dell'Australia, a metà strada circa fra Melbourne e Sydney. Questi ultimi campi di mine fecero anch'essi le loro vittime: il Cumberland, di 9.000 tonnellate, il Port Kemble di 5.000 e il Wimmera di 3.500 (quest'ultimo, affondato nel luglio del 1918, registrò purtroppo la perdita di circa trenta vite umane).
Ciò fatto, la nave corsara tornò indietro sino a Capo Farewell, all'estremità sud-occidentale della Nuova Zelanda, indi riattraversò il Mare di Tasman e si diresse al nord. Nelle vicinanze delle Nuove Ebridi catturò la nave Beluga, e nei pressi delle isole Figi la stessa sorte toccò all'Encore. Dalle Figi, il
Wolf volse il timone verso le isole Salomone, ove catturò il Matunga; poi, girando attorno all'Arcipelago di Bismarck nella Nuova Guinea tedesca (occupata dalle forze australiane fin dall'inizio della guerra), costeggiò la grande isola a nord e, presso l'isola di Waigeo, di sbarazzò del Matunga, colandolo a picco. A questo punto, sgusciò fra Ceram e Halmahera (Gilolo), nelle Molucche, attraverso il Mar di Giava nelle Indie Orientali olandesi (acque neutrali, quindi, ma intensamente pattugliate dal nemico) e si spinse audacemente fino sino a Singapore, ove depose il suo ottavo ed ultimo campo di mine, in un punto sensibilissimo del traffico marittimo nemico; ma che non produsse vittime.
Tornato a sud, il
Wolf passò tra Bali e Lombok e riattraversò l'Oceano Indiano in senso inverso, sempre facendo numerose prede lungo il suo cammino, tra le quali l'Hitachi Maru e l'Igotz Mendi, il primo presso Ceylon, il secondo fra l'isola Mauritius e il Madagascar. Ormai la meta era la Germania: doppiato il Capo Agulhas, il corsaro, dopo aver affondato il Marechal Davout, fece un'ultima tappa all'isola di Trinidad e, poi, affondò un'ultima preda - il vapore norvegese Store Brore. Nei pressi dell'Equatore effettuò l'ultimo rifornimento di carbone; indi, come all'andata, e seguendo esattamente la medesima rotta, risalì l'Atlantico senza eseguire alcun attacco, per non tradire la propria presenza.
Anche questa volta il capitano Nerger avrebbe voluto imboccare lo Stretto di Danimarca, ma non gli fu possibile a causa dei lastroni di ghiaccio galleggianti, e dovette tentare la via più pericolosa, perché più battuta dal nemico, passante a sud dell'Islanda.
Eppure, anche questa volta la fortuna fu dalla sua e riuscì a passare indenne fra le maglie del blocco britannico, rientrando sano e salvo a Kiel il 24 febbraio 1918, accolto - diversamente che alla partenza - da una folla tripudiante.
In totale, calcolando sia le navi affondate nella guerra di corsa (tredici), sia quelle affondate dopo aver urtato le mine deposte dal
Wolf, il tonnellaggio alleato colato a picco si calcola nell'ordine delle 135.000 tonnellate. L'intera crociera aveva coperto un percorso di 64.000 miglia, tutte senza aver potuto contare sul benché minimo aiuto esterno. Inoltre, per non tradire la sua presenza, il
Wolf non aveva mai fatto uso del radiotelegrafo; ragion per cui, in Germania, fino all'ultimo non si seppe nulla del suo destino.
Il comandante Nerger ebbe l'ordine
Pour le mérite e fu promosso comandate della flottiglia dei dragamine.
Così il già citato Roy Alexander ricapitola le fasi conclusive della crociera del corsaro
Wolf (
Op. cit., pp. 26-30):
L'ultima parte della crociera in Atlantico somiglia ad una di quelle storie a tinte forti che raccontano i romanzi di avventure, con le stive gremite di prigionieri malati di scorbuto; le avarie grosse riportate in un tentativo di trasbordare carbone in pieno Atlantico con forte mare morto; la nave che fa acqua da ogni parte, e perde lamiere, e per poco non fa scuffia in una tempesta; e poi ricoperta di ghiaccio si apre a forza il passaggio fra i lastroni galleggianti tra la Groenlandia e l'Islanda, cercando di girare al largo dalle pattuglie del mare del Nord; e il tentativo finale - riuscito - per violare il blocco; e la sorpresa e l'entusiasmo a Kiel quando il Wolf
, dato per perduto da molto tempo, all'improvviso ricompare. Una grande nave. Una grande impresa. Un gran comandante.
E ancora (Id., p. 325):
Karl August Nerger è, e rimarrà, uno dei più grandi uomini di mare che mai vide il mondo, uno dei figli più valorosi della Germania, l'eroe di una saga del mare la cui memoria vivrà imperitura.
6. LA CROCIERA DEL CORSARO SEEADLER (21 dicembre 1916 - 2 agosto 1917
Nel corso del 1916 l'Ammiragliato tedesco decise di fare un esperimento per proseguire la guerra di corsa contro il traffico mercantile alleato, servendosi di una unità di superficie dalle caratteristiche del tutto diverse da quelle dei piroscafi trasformati in incrociatori ausiliari, come il
Kaiser Wilhelm der Grosse, il
Prinz Eitel Friedrich, il
Möwe ed anche come il
Wolf, che sarebbe partito il 30 novembre di quell'anno per la sua crociera di ben quindici mesi nei tre oceani del globo (cfr. i nostri articoli
Le due crociere della nave corsara Möwe, dicembre 1915 - marzo 1917 e
La crociera del corsaro Wolf, 30 novembre 1916 - 24 febbraio 1918).
Quel tipo di navi, infatti, benché dissimulassero le artiglierie e i lanciasiluri dietro delle finte sovrastrutture, potevano ingannare il nemici a una certa distanza, facendosi passare per pacifiche navi da trasporto di qualche Paese neutrale; ma non avrebbero mai potuto ingannarle da vicino, e tanto meno sostenere un'ispezione a bordo, senza tradire immediatamente la loro reale natura. A Berlino, pertanto, si pensò di predisporre e mettere in mare una nave che, pur svolgendo compiti di guerra di corsa, fosse in grado di reggere anche alla prova di una minuziosa ispezione da parte delle navi da guerra nemiche.
Si trattava di un progetto estremamente audace; e tuttavia, la gravità degli effetti del blocco marittimo inglese sull'economia tedesca era tale da indurre a tentare qualunque esperimento, pur di spezzare quel cerchio di ferro e arrecare il maggior danno possibile ai rifornimenti di viveri e materie prime dell'Intesa. Era infatti evidente, dopo il sanguinoso fallimento dell'offensiva Brusilov, che la Russia sarebbe stata presto costretta ad uscire di scena; ma che, d'altra parte, gli Stati Uniti avrebbero quanto prima gettato la maschera della neutralità e si sarebbero apertamente schierati al fianco degli Alleati, entrando nel conflitto con tutto il loro enorme potenziale finanziario, industriale e umano. Pertanto bisognava cogliere il momento favorevole fra l'ormai imminente paralisi militare russa, preludio alla firma di una pace separata sul fronte orientale, e l'intervento in guerra degli Stati Uniti, intensificando al massimo lo sforzo bellico finché esistevano concrete prospettive di vittoria.
Per quanto riguarda la possibilità di utilizzare nella guerra di corsa una unità di superficie perfettamente mascherata da nave mercantile neutrale, si giunse alla conclusione che in un unico caso ciò era possibile: trasformando in incrociatore corsaro una nave a vela. I cannoni potevano essere nascosti nelle stive e il boccaporto avrebbe potuto essere ostruito da un carico di legname accatastato in coperta, pratica allora molto diffusa tra i velieri, specialmente di nazionalità scandinava. In tal modo, un picchetto d'ispezione di una nave da guerra alleata, anche salendo a bordo, non avrebbe potuto notare nulla d'insolito, a meno di condurre il veliero in porto per sgomberare la coperta e ispezionare la stiva. Dovevano però essere praticati dei passaggi segreti che consentissero a numeroso equipaggio, che in caso di pericolo doveva nascondersi nella stiva, di salire in coperta nel più breve tempo possibile.
Un altro evidente vantaggio di utilizzare un veliero era il fatto che ciò avrebbe permesso una assoluta autonomia nei confronti del combustibile. Non essendo costretto a rifornirsi continuamente di carbone, un veliero avrebbe potuto navigare indefinitamente, senza segnalare la propria presenza e senza dover dipendere da navi appoggio o dal carbone eventualmente trasportato da qualcuna delle sue prede.
In ogni caso, si trattava di una missione pericolosissima, quasi suicida; e, per realizzarla, bisognava trovare un comandante che non fosse soltanto un esperto lupo di mare, pratico della navigazione a vela, ma che fosse anche un uomo d'azione energico e brillante, pieno di iniziativa e di fantasia, per improvvisare volta per volta la strategia più adatta a passare inosservato e, poi, ad intraprendere la sua crociera solitaria nei mari più lontani, sapendo di non poter contare sul minimo appoggio dalla madrepatria.
Fu a quel punto che, all'Ammiragliato di Berlino, qualcuno si ricordò che esisteva, nella marina imperiale germanica, un uomo con tali caratteristiche: il conte Felix von Luckner, la cui vita avventurosa era trascorsa in buona parte a bordo di navi a vela, prima di diventare comandante della cannoniera Panther, adibita alla polizia costiera del Camerun negli anni precedenti lo scoppio della prima guerra mondiale.
Luckner venne chiamato a Berlino e gli fu chiesto con franchezza se se la sentiva di organizzare e condurre una impresa del genere; egli accettò con estremo entusiasmo e si mise subito all'opera. Venne individuato allo scopo il grosso veliero a tre alberi
Pass of Balmaha (costruito in Scozia nel 1878), già battente bandiera americana, che era stato sequestrato nel 1915 sulla rotta di Arcangelo e condotto ad Amburgo, perché trasportava un carico di carbone per conto della Gran Bretagna e aveva a bordo degli uomini della marina militare inglese. Messo in bacino nel massimo segreto, gli venne applicato un motore Diesel; cannoni e munizioni furono nascosti accuratamente nella stiva; e vennero caricati a bordo viveri per due anni.
Si decise di farlo passare per un veliero norvegese che trasportava legname e, a tal fine, vennero collocati un ritratto del re e della regina di Norvegia nella stanza del comandante, libri e giornali in lingua norvegese sparsi dappertutto; e vennero arruolati alcuni marinai tedeschi che conoscevano la lingua norvegese. Un giovane marinaio venne perfino istruito a travestirsi da donna in caso di ispezione, allo scopo di farlo passare per la moglie del comandante (altra abitudine allora diffusa nelle marine mercantili scandinave).
Infine ci si procurò le false carte che identificavano quel veliero come il norvegese
Irma, adibito al trasporto del legname da Oslo a Melbourne, in Australia. Insomma, non venne trascurato il benché minimo particolare per trarre in inganno il nemico. In realtà, si trattava dell'incrociatore ausiliario
Seeadler (= aquila di mare), adibito alla guerra di corsa, armato con un equipaggio di 64 uomini (20 dei quali parlavano discretamente il norvegese).
Il veliero lasciò la Germania il 21 dicembre 1916, risalì lungo la costa norvegese e poi, nel tentativo di sgusciare fuori del Mare del Nord, venne fermato dall'incrociatore ausiliario
Avenger, che volle fare un'ispezione a bordo. Ma l'ufficiale inglese cadde in pieno nella trappola: non si accorse di nulla e non ebbe alcun sospetto; o, se lo ebbe, rinunciò a far entrare in porto l'
Irma per ispezionare la stiva, davanti allo spettacolo di una giovane donna indisposta. Senza contare che era il giorno di Natale
Tuttavia, mentre già gli Inglesi stavano allontanandosi, soddisfatti della loro ispezione, accadde un inconveniente che per poco non tradì la nave corsara. Infatti, avendo attraccato al veliero sottovento, la lancia britannica stentava a staccarsi, a causa della deriva della nave; e, lentamente ma inesorabilmente, scadeva verso poppa. Ancora un istante, e i marinai inglesi non avrebbero potuto non notare l'elica: che non avrebbe dovuto esserci, perché - stando ai documenti di bordo - l'
Irma non era dotata di un motore ausiliario.
Come in un tipico romanzo d'avventure, la sorte dei Tedeschi - per la maggior parte, nascosti sotto coperta - era appesa a un filo. Allora von Luckner, che aveva conservato il massimo sangue freddo, mostrò una presenza di spirito all'altezza della situazione: gettò una cima verso la scialuppa, fingendo di voler aiutare quegli uomini, rimasti in panna, a districarsi dalla loro incresciosa posizione.
Ecco come lo stesso comandante tedesco ha rievocato l'episodio nel suo libro di memorie
Il pirata della guerra mondiale (traduzione di Eugenio Modena; Adriano Salani Editore, Firenze, 1929, pp. 183-84):
Saliamo in coperta, gl'Inglesi si imbarcano, io scaravento la cicca furibondo e da questo lato mi sento alleggerito. Ma il più serio sta per arrivare. «Voi dovete aspettare un'ora e mezzo!». Mentre conducevo gli ufficiali al barcarizzo, un pessimista, avendo udito queste parole, brontolò:
- Ma allora tutto è perduto. -
La mia gente nascosta, al comando del guardiamarina Kircheiss, era in grande emozione sulla sorte della visita e faceva molta attenzione a tutto quanto avveniva di sopra. Udirono le parole: «Tutto perduto», che presto corsero da poppa a prora di bocca in bocca. La miccia, della durata di sette minuti, venne accesa, per far saltare la nave. In coperta non si aveva idea di quanto succedeva di sotto. Invece si era sollevati per la buona riuscita. Con una stretta di mano l'ufficiale nemico si licenziò ripetendo:
- Siamo intesi, attendete fino al segnale. -
Il mio primo ufficiale Kling, con la sua faccia quadrata polare e con le sue diciotto parole di norvegese, dava gli ordini per restare in panna. Quando gli ufficiali furono imbarcati, si presentò una nuova situazione penosa: un veliero in panna non può esser tenuto fermo sul posto come un vapore, esso ha sempre un lieve e movimento. La lancia degl'Inglesi non riusciva a liberarsi subito di sotto al bordo e derivava verso poppa. A qual pericolo imprevisto s'andò incontro! Sotto la poppa si sarebbero accorti della nostra elica. Un veliero con l'elica doveva dar sospetto, tanto più che in nessuna delle nostre carte era nominato il nostro motore da mille cavalli.
Respingo ogni lode del mio lettore per la mia presenza di spirito: fu la disperazione. Corsi a poppa, presi la prima cima che mi capitò fra mano e la scaraventai sulla testa degl'Inglesi, come per aiutarli a liberarsi:
- Take that rope, mister officer!
(Prendete questa cima) -
Il risultato fu ottimo: gl'Inglesi guardarono tutti verso l'alto per non prender la cima sulla testa e i loro sguardi furono distratti dall'eventuale direzione da me tanto temuta. La lancia si liberò finalmente. L'ufficiale mi ringraziò ancora del mio aiuto e furibondo contro il suo armamento incapace di liberarsi rapidamente dal nostro bordo, gridò:
- I only got fools in my boat.
(Ho un armamento di scemi). -
Io pensai:
«Sì, hai ragione e tu sei degno di loro!».
Ma il pover'uomo aveva fatto il suo dovere, e io pure, forse, al suo posto sarei caduto in trappola.
Il blocco era stato forzato: ormai libero di spingersi nell'aperto Oceano Atlantico, il
Seeadler si trasformò rapidamente in una nave da guerra. I due cannoni, da 105 mm., che erano stati nascosti nella stiva, vennero portati in coperta e montati; ed ebbe inizio la sua carriera di corsaro. Finché non ebbe oltrepassato il parallelo di Gibilterra, il comandante von Luckner si astenne dal fare catture, per non tradire anzitempo la sua presenza: poi fece la sua prima preda, il vapore
Gladys Royal, che andava a Buenos Aires con un carico di carbone; e la seconda, il trasporto britannico
Horngarth. Entrambi furono fermati e colati a picco mediante uno stratagemma: l'uno, col pretesto di domandargli l'ora cronometrica; l'altro simulando lo scoppio di un incendio a bordo (con tanto di finta moglie del capitano che gridava e invocava aiuto).
Giunto nell'Atlantico meridionale, il
Seeadler incrociò per tre mesi nelle acque a sud di Rio de Janeiro, catturando e affondando tre vapori e diversi velieri: alcuni brigantini a palo, allora numerosi soprattutto nella marina francese, e una goletta canadese. Fra l'altro, von Luckner ebbe la ventura di affondare il veliero britannico
Pidmore sul quale, nella sua avventurosa giovinezza, era stato imbarcato come semplice marinaio. Ormai sovraffollato per la presenza di così tanti prigionieri, il
Seeadler si servì del bastimento francese
Cambronne, a sua volta catturato, per spedire a terra almeno una parte di quegli uomini; non senza prima avergli accorciato drasticamente l'alberatura, in modo tale da ridurne al massimo la velocità e ritardarne quanto più possibile lo sbarco e, quindi, l'inevitabile allarme che sarebbe stato dato alle navi nemiche.
Le due navi si separarono il 21 marzo 1917, al largo di Buenos Aires; il
Cambronne diresse verso Rio de Janeiro, più lontana ma più facile da raggiungere a causa della direzione dei venti, e vi giunse il 30 marzo. Subito l'Ammiragliato di Londra fu messo in allarme, anche perché le mine deposte dal
Wolf davanti a Città del Capo e a Capo Agulhas, all'estremità meridionale dell'Africa, avevano cominciato a fare delle vittime; pertanto, tutto l'Atlantico meridionale venne fatto oggetto di una intensa perlustrazione da parte della flotta britannica.
Non solo. Studiando attentamente la situazione, l'Ammiragliato inglese giunse alla giusta conclusione che il veliero corsaro avrebbe lasciato quelle acque, divenute ormai malsicure, tentando quanto prima di passare nell'Oceano Pacifico; e, disponendo di doviziosi mezzi navali, predispose una vera e propria trappola.
Ai primi di aprile, tre incrociatori ausiliari -
Otranto (veterano della battaglia di Coronel del 1° novembre 1914, nella quale la squadra di von Spee aveva colato a picco quella dell'ammiraglio Cradock),
Orbita e
Lancaster - lasciarono, su ordine di Londra, alcuni porti della costa peruviana per dirigersi alla volta di Capo Horn, con l'ordine di intercettare il
Seeadler. Erano accompagnati dalla nave carboniera
Finisterre che aveva il compito di rifornirli di combustibile senza bisogno che entrassero in porto, in modo da poter esercitare una sorveglianza attenta e continua, ventiquattr'ore su ventiquattro.
Qualcosa, però, non funzionò in questo piano così ben congegnato. Ancora una volta la fortuna, fattore imponderabile e imprevedibile (come aveva insegnato già Machiavelli ne
Il Principe) protesse l'audace nave corsara e la sottrasse a una distruzione quasi certa; o, piuttosto, alla cattura: perché, avendo ancora a bordo parecchi prigionieri, non avrebbe potuto affrontare un combattimento contro navi a vapore e sarebbe stato costretto ad arrendersi.
Le istruzioni dell'Ammiragliato londinese erano che il
Lancaster pattugliasse il limite più meridionale delle rotte che passano a mezzogiorno del Capo Horn, mentre l'
Otranto e l'
Orbita avrebbero bordeggiato ininterrottamente fra il Capo e lo stesso
Lancaster. Si sarebbe formato così un «pettine», cui il
Seeadler, navigando da est a ovest per entrare nel Pacifico, non avrebbe avuto alcun modo di sfuggire.
Invece, accadde che l'
Orbita, su iniziativa di qualche comandante inferiore, venne distaccato al largo di Capo Virgenes, per sorvegliare l'imboccatura orientale dello Stretto di Magellano, l'altra via d'acqua che mette in comunicazione le acque del Sud Atlantico con quelle del Pacifico. Iniziativa improvvida e cervellotica, perché - alla luce del puro buon senso - era impensabile che un veliero, con le sue limitate possibilità di manovra, tentasse di percorrere quella rotta, resa difficilissima dai venti prevalenti dell'Ovest; senza contare la cattiva stagione (nell'emisfero sud era già autunno inoltrato), per cui sono giustamente temute quelle latitudini dalle navi a vela.
Ha scritto Roy Alexander, un australiano che ebbe la ventura di essere prigioniero a bordo della nave corsara Wolf, nel suo libro
La crociera del corsaro «Wolf» (titolo originale dell'opera,
The Cruise of the Raider «Wolf», Yale University Press, 1939, traduzione italiana di Tito Diambra, Casa Editrice E. Corticelli, Milano, 1940, pp. 350):
E' difficile immaginare un marinaio che ritenga possibile che un bastimento a vela - che per giunta è un corsaro - vada a passare lo Stretto di Magellano da est a ovest. Eppure fu così: l'Orbita
ebbe ordine di tenersi presso l'entrata est. L'Orbita
tolta dal servizio di pattuglia prima assegnatole significava per il Seeadler
la possibilità di passare invece della quasi certezza di essere catturato. Approfittando del tempo coperto von Luckner poté scivolare fra il Lancaster
e l'Otranto
senza essere scorto. In seguito si calcolò che il corsaro dovette passare il meridiano del capo Horn il 17 aprile, ma 120 miglia a sud del capo stesso; mentre l'Otranto
si trovava sullo stesso meridiano ad una quarantina di miglia dal capo. Salvo per il momento, il Seeadler il 21 aprile faceva rotta per Tahiti.
Una volta guadagnate le acque aperte del Pacifico meridionale, la nave corsara risalì verso nord e incrociò per tre mesi sulla rotta dei velieri che facevano la spola fra l'Australia e la costa occidentale del Sud America. Ebbe però, questa volta, poca fortuna: non riuscì a catturare che tre piccoli bastimenti americani (gli Stati Uniti avevano dichiarato guerra alla Germania il 6 aprile di quell'anno).
Alla fine di luglio, dopo sette mesi di crociera solitaria e senza mai fare uno scalo, la situazione dell'equipaggio e della nave cominciava ad essere critica. Non scarseggiavano i viveri, poiché - come si è visto - ne erano stati imbarcati per due anni; ma l'equipaggio risentiva fortemente la mancanza di quelli freschi, specialmente la frutta e la verdura, nonché dell'acqua fresca; per non parlare del bisogno di fare del moto sulla terraferma.
Fu per tali ragioni che il comandante von Luckner decise di concedere alla nave e agli uomini una parentesi di riposo, e scelse all'uopo l'isola corallina di Mopeha, che fa parte delle Isole della Società, nella Polinesia francese (e non delle Isole Cook, come scrive, erroneamente, il sopra citato Alexander). La sosta a Mopeha fu un vero paradiso per l'equipaggio tedesco e per i prigionieri americani, con i quali si erano stabilite - compatibilmente con le circostanze - relazioni quasi cordiali; nessuno avrebbe immaginato che lì, su quel banco di corallo, sarebbe giunta, rapida e improvvisa, la fine del
Seeadler.
Essa fu dovuta, infatti, a un evento assolutamente imprevedibile; come se la fortuna, che aveva incredibilmente favorito il corsaro nel passaggio del Capo Horn, gli avesse poi voltato bruscamente le spalle. Si trattò di una ondata anomala di marea, originata - probabilmente - da una eruzione di qualche vulcano sottomarino; evento non eccezionale in quella zona del mondo, ma decisamente raro. Il veliero non venne affondato, ma scaraventato sul banco corallino, ove rimase incastrato in maniera tale, da non poter più essere recuperato.
Così il capitano von Luckner ha rievocato l'ultimo approdo del veliero
Seeadler e il suo improvviso naufragio sui banchi di corallo dell'isola Mopeha, nell'arcipelago della Società, nel suoi libro di memorie (
Op. cit., pp. 219-222):
Al mattino del 29 luglio giungemmo in vista dell'isola e ci avvicinammo. Fu come se vedessimo una terra incantata. L'isola ci salutò con i suoi alti palmizi e gli alberi da gomma, come un vero paradiso. I banchi di corallo sembravano come gradinate sul mare e si riflettevano nell'acqua splendente al sole con colori diversi a seconda della trasparenza dei coralli bianchi. V'erano cento intonazioni dal bianco al verdognolo ed all'azzurro nell'acqua. Il banco disposto a cerchio formava quattro isolette e un'isola principale a forma di nastro, intorno a una laguna circolare. Questo pezzetto d'oceano simigliante a una caldaia e altrettanto profondo quanto il mare che lo circondava, era completamente tranquillo; la superficie dell'acqua era uno specchio immobile: si aveva l'impressione della più completa sicurezza. Un piccolo canale immetteva nella laguna, ma non abbastanza largo perché vi potesse passare il Seadler. Di più v'era una forte corrente all'entrata. Noi portammo un'ancora sul banco e con una buona lunghezza di cavo d'acciaio restammo presentati alla corrente e ben liberi dall'isola.
Mettemmo in mare le imbarcazioni. Ci sentivamo come novelli Colombo dopo essere stati tanto tempo lontani da terra. Il marinaro, dopo nove mesi di arrampicate sugli alberi, manovre di vele, guardia al timone e vedette, con le braccia allungare dall'alare le cime, si beò della fauna e della flora tropicale. Noi, pescicani del mare, inseguiti da bestie più forti di noi, dopo una lunga tensione nervosa, godevamo alfine un istante di pace, ospiti dei Francesi, che mettevano a nostra disposizione Mopelia. Quale grata sorpresa quando scendemmo a terra! Trovammo di tutto. Milioni di uccelli marini avevano fatto qui il loro nido. Le tartarughe avevano qui la loro casa. V'eran pesci d'ogni sorta, e anche maiali lasciati nell'isola in tempi passati e tornati allo stato selvaggio, che si cibavano di noci di cocco cadute dagli alberi. Non potevamo attenderci provviste fresche in tal quantità.. Trovammo pure tre nativi, impiegati da una casa francese a raccogliere tartarughe. Questi Canachi [errore del testo; in realtà, Polinesiani]
, dapprima molto spaventati dall'arrivo dei Tedeschi, furon presto vinti dalla nostra cordialità, e ci furono preziosi.
La mia gente si divise subito in gruppi: alcuni pescavano nei crepacci dei coralli, altri raccoglievano uova nei nidi; altri portavan bracciate di noci di cocco; il cuoco era alla caccia di un porco selvatico; là si vedevan gruppi di cinque o sei uomini trascinare sulla sabbia, mediante una cima, un'enorme testuggine, rovesciata sul dorso. Altri ancora prendevano aragoste; insomma ognuno trovava il modo di occupare il suo tempo a preparare un buon pranzetto. La lancia tornò a bordo piena di ogni delizia. La cena fu un pranzo luculliano: costolette di porco, zuppa di tartaruga con uova, aragoste, uova di gabbiano; l'uomo più ricco del mondo non avrebbe potuto procurarsi di più e di meglio. Noi ci rimettemmo presto con questo regime e riprendemmo lena per la nuova crociera. Fu installata una fabbrica per affumicare il pesce, si mistero in salamoia tartarughe e carne di porco, e si raccolsero uova a migliaia.
Il nostro ancoraggio ci dava da principio molta preoccupazione, e si era pensato se non sarebbe stato più conveniente tenere la nave libera in mare largo e avvicinarci a terra una volta alla mattina ed una alla sera. Ma ciò sarebbe costato troppo al nostro motore, che, tra l'altro, aveva anche bisogno di una ripassata. Avevamo cercato invece di ancorarci nel modo più sicuro. Ma presto ci accorgemmo che l'ancora scivolava sul banco; ciò rafforzò la nostra fiducia, perché se la corrente fosse stata tanto forte da far arare l'ancora, sarebbe stato impossibile che un salto di vento gettasse il bastimento sul banco di corallo.
Il 2 agosto verso le nove e mezzo del mattino, proprio mentre si stava mandando a terra l'imbarcazione dei franchi, vedemmo il mare gonfiarsi all'orizzonte. Che sarà? Si credette dapprima una Fata Morgana; dopo qualche tempo il rigonfiamento s'avvicinò, sempre più alto via via che s'approssimava. Si trattava di un'onda prodotta da un movimento tellurico. Questo spettacolo ci era completamente sconosciuto, ma sentii il pericolo e gridai:
- Taglia il cavo dell'ancora, pronto il motore, tutta la gente in coperta. -
L'onda s'avvicinava sempre più e grido più forte:
- Pronto il motore!
Si pompò aria compressa, ma il motore non partiva. Con ansia febbrile s'attendeva la messa in moto, si pompava a tutto spiano, si faceva ogni sforzo per ottenere l'accensione
e la furia arriva. Ancora pochi secondi e siam perduti. Tutta la nostra vita dipende dal motore. Troppo tardi! L'onda è enorme, solleva la nave come un fuscello e la getta sul banco. Gli alberi, il coronamento vanno in pezzi; il cozzo contro il corallo ha staccato dei blocchi di qualche tonnellata che ricadono a bordo come proiettili; quando l'onda è passata, il nostro superbo Seeadler giace massacrato sul banco di corallo. Le poche tavole, quell'atomo di Germania che in questo emisfero era la nostra patria, il nostro tetto, il nostro tutto, era finito.
Nello sconquasso generale, mentre i blocchi di corallo entravano nel corpo della nave e gli alberi e i pennoni tempestavano sul ponte in mezzo ad un groviglio di cordame e di tela, ognuno cercava un riparo. Scatenata la rovina, mi guardo dattorno: nessuno! Credo di essere l'unico salvo e maledico la mia sorte. Grido verso prora:
- Ragazzi, dove siete?
Dalla prua una voce potente mi dà questa indimenticabile risposta:
- Signor conte, la quercia resiste ancora!
La crociera del
Seeadler ebbe una coda. Il comandante von Luckner armò una scialuppa del suo veliero con cinque marinai e si addentrò fra le isole della Polinesia, alla ricerca di un mezzo che gli permettesse di trasbordare la sua gente in un Paese neutrale; ma, di nuovo, non ebbe fortuna. Dopo varie peregrinazioni, venne catturato da alcuni funzionari di polizia britannici nell'isola di Wakaya, nell'arcipelago delle Figi; e, di lì, trasportato come prigioniero in Nuova Zelanda. Più tardi tentò di evadere con una lancia, ma venne ripreso presso le Isole Kermadec. L'equipaggio del
Seeadler, frattanto, aveva appreso dalla radio la notizia della sua cattura e, subito dopo, si era impadronito della goletta francese
Lutèce, con la quale aveva lasciato l'isola di Mopeha poco prima che vi arrivasse un incrociatore giapponese per farlo prigioniero.
I marinai tedeschi diressero alla volta del Cile, Paese neutrale che ospitava una forte colonia di loro connazionali; ma fecero naufragio presso l'isola di Pasqua. Solo in un secondo momento vennero trasportati in Cile, ove giunsero felicemente e ove rimasero sino alla fine della guerra.
La stessa sorte era già toccato all'equipaggio dell'incrociatore leggero
Dresden, che - unico sopravvissuto alla battaglia delle Isole Falkland - era stato poi intercettato e costretto ad autoaffondarsi da alcuni incrociatori britannici davanti all'isola di Mas a Tierra, il 15 marzo del 1915.
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