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L'artiglieria italiana negli Anni Venti
© Emilio Bonaiti
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Ultima ratio regum
- La prima guerra mondiale
- I materiali
- L'affusto a deformazione
- La regolamentazione tattica
- L'industria bellica
- La Commissione speciale per il riordinamento dell'artiglieria
- La dottrina
- Il dopoguerra
- Ordinamento Mussolini
- I nuovi progetti

Il generale George Smith Patton Jr., uno dei capi più prestigiosi dell'esercito americano della seconda guerra mondiale, sosteneva che: "Più un esercito è incapace di combattere, più ha bisogno di artiglieria". Il Regio Esercito avrebbe dovuto essere il più capace del mondo perché l'insufficienza qualitativa e quantitativa delle bocche da fuoco fu una costante della sua storia.

Se alla vigilia della seconda guerra mondiale l'obsolescenza del materiale faceva dire a Mussolini in una delle sue ricorrenti, contrastanti esternazioni: "E' un problema che non mi fa dormire", se negli ultimi anni dell'Ottocento, travagliati da una delle ricorrenti crisi di bilancio, si preferì rinunciare al rinnovamento dei materiali per non ridurre gli organici, alla vigilia della Guerra delle Nazioni, come venne definita con una espressione caduta in disuso il primo conflitto mondiale, la situazione non era migliore.

La prima guerra mondiale

Il 24 maggio 1915 le bocche da fuoco più moderne del parco di artiglieria erano i cannoni 75/27 mod. 1906 Krupp e 75/27 mod. 1911 Déport.

Il secondo era la copia dello straordinario 75 francese. L'arma era stata concepita nel 1893-1894 dal tenente colonnello Joseph Albert Déport, ufficiale del ruolo tecnico dell'artiglieria, successivamente tecnico presso lo stabilimento Compagnie de Forges de Chatillon, Commentry e Neuves Maison. Il cannone Déport 75/27, classificato "Matériel de 75 Modèle 1897", pezzo campale a tiro rapido, a code divaricate e freno idropneumatico, caratterizzato da grande mobilità e velocità di tiro, era il migliore al mondo nella sua categoria, per la precisione del tiro e per la potenza delle munizioni. Con sei serventi, sparava un proiettile da kg. 7,300 con una gittata massima di 8500 metri e una cadenza di 25 colpi al minuto senza spostamento dell'affusto per le capacità del freno idraulico. Costruito in 17.000 esemplari, nel 1907 furono rinforzate le ruote e nel 1910 si adottò uno scudo di maggiori dimensioni. Con l'applicazione di ruote gommate rimase in servizio sino al 1945 e dimostrò di essere un ottimo cannone anticarro. All'inizio della guerra l'Armée ne aveva in dotazione 3840 con un munizionamento di 1300 granate per pezzo. Si affermava in un documento ufficiale: "Il cannone da 75 è in grado di far fronte a tutte le missioni che possono essere affidate all'artiglieria nella guerra di campagna". Di questo pezzo, chiamato dai soldati "gros noir", il generale Weygand scriveva che nelle scuole militari si sosteneva che era: "Dio padre, Dio figlio e Dio Spirito Santo", de Gaulle lo definiva: "Incomparable pour l'époque" (1), Liddell Hart: "un cannone campale unico per mobilità e rapidità di tiro". Era un articolo di fede per l'uomo della strada: "Les Allemands sont fort […] nous avons notre 75". Aggiungeva l'economista statunitense David S. Landes nel suo La ricchezza e la povertà delle nazioni: " […] 75 mm., il pezzo forte della loro artiglieria, il fiore all'occhiello del loro arsenale, una macchina disegnata in modo così sopraffino che lo si faceva sparare con un bicchiere pieno d'acqua poggiato sul carrello e non se ne versava neanche una goccia" (2).

A questo materiale, esistente in numero estremamente limitato nell'esercito italiano, andavano aggiunti i cannoni da campagna mod. 70 ad affusto rigido in servizio dal 1902 e il 65/17 in produzione dal 1914 e che resterà in servizio fino al 1943, il 75/27 mod. 1912 per l'artiglieria a cavallo, in pratica il 75/27 mod. 1906 con qualche modifica, il 105 della società francese Schneider costruito in Italia dall'Ansaldo, il 120, i 149 A e G, il primo ancora in servizio nell'ultimo conflitto mondiale, gli obici da 149 e 210 e i mortai da 240 e 260. Va precisato che il metallo usato nella produzione era catalogato con la lettera A se in acciaio, B se in bronzo e C se in ghisa.

I materiali

All'inizio della guerra, secondo una pubblicazione ufficiale (3), i 2121 pezzi a disposizione erano così divisi:
- Artiglieria da campagna 1452
- Artiglieria a cavallo 32
- Artiglieria da montagna 200
- Artiglieria someggiata 108
- Artiglieria contraerei 5
- Artiglieria pesante campale 192
Parco d'assedio:
- Mortai da 240 48
- Obici da 210 8
- Cannoni da 149 A 48
- Cannoni da 149 G 28

La proporzione tra l'artiglieria di medio e piccolo calibro e i 930.000 fucili mod. 91 in dotazione all'esercito era di 2,30 cannoni per mille fucili. Il materiale si dimostrò di gran lunga inferiore a quello messo in campo dall'esercito austroungarico per qualità e quantità.

L'affusto a deformazione

I vertici militari attribuirono tale insufficienza alla politica di lesina attuata dai governi che si erano succeduti fino ai primi anni del secolo, ma tale giustificazione, pur avendo un fondo di verità, non era completa in quanto ad essa andavano aggiunti i limiti e le carenze concettuali dello stato maggiore e dei vertici dell'Arma, posti in emblematica evidenza dalla mancata adozione del materiale a deformazione ossia degli affusti a deformazione, così descritto dall'Enciclopedia Militare: "La cui caratteristica è quella di rimanere immobili durante il tiro, mentre alcune sole parti seguono il cannone nel rinculo e ritornano poi automaticamente nella posizione primitiva […] sia reso in tal modo possibile di tirare più colpi di seguito senza ripuntare la bocca da fuoco e senza perdere in precisione di tiro".

In Italia invece nel 1902 si adottò il 75A ret modello 1900 della Krupp ad affusto rigido già superato da altri modelli della stessa casa e nel 1910 il cannone 75A modello 1906 di progettazione italiana ad affusto a deformazione. Fu solo nel 1913, dopo la produzione di 120 batterie, che i vertici dell'Arma si convinsero della sua inadeguatezza e si tentò di correre ai ripari interessando la Krupp perché adottasse al pezzo un affusto a deformazione per migliorarne le prestazioni. Riusciti infruttuosi i tentativi di modificare il 75 A ret Krupp 1900, nel 1906 la scelta cadde sul 75/27 mod. 1906 a deformazione della stessa casa. Il cannone però aveva una deficiente ampiezza del settore di tiro sia in senso verticale che orizzontale con l'impossibilità di battere più vaste zone di terreno e di aumentare l'angolazione verticale. Fu così che venne preso in esame il Déport 75/27 che, esperimentato nel 1910 presso il poligono di Cirié, l'anno successivo fu adottato con la denominazione di 75/27 mod. 1911. La produzione fu affidata alla Vickers Terni, ma il ritardo nell'invio dei disegni dalla casa francese, le difficoltà per la formazione della mano d'opera in un paese il cui il tasso d'analfabetismo era alto, le immancabili modifiche che tutti gli ufficio tecnici militari appportano ai prodotti stranieri che non sono riusciti a concepire, ritardarono le consegne che slittarono dall'ottobre 1913 alla fine del 1914.

Si legge ne L'Esercito Italiano nella grande guerra (1915-1918): "La produzione delle batterie […] procedette molto lentamente. Avuti finalmente nel 1912, e cioè dopo quasi un anno dall'adozione del nuovo materiale, i disegni completi di costruzione delle singole parti, alla prova dei fatti le case costruttrici avevano dovuto riconoscere di essersi ingannate nello stabilire i termini di consegna. Non fornite di maestranze esperte nella lavorazione degli affusti, insufficientemente attrezzate, sprovviste di gran parte delle materie prime indispensabili, costrette a ritardare la produzione di taluni elementi per i quali nel frattempo si era riconosciuta l'opportunità di modificazioni ai progetti iniziali […] le ditte […] nel marzo 1913 avevano denunciato l'impossibilità di mantenere i patti contrattuali e rinviata la consegna delle 92 batterie dapprima al marzo 1914, e successivamente alla fine di detto anno".

Negli anni 1902-1906 i contrasti e le polemiche tra i fautori del pezzo ad affusto rigido e quelli a deformazione furono acri. Ugo Allason, professore presso la Scuola di applicazione d'artiglieria e autore di Impiego dell'artiglieria in guerra edito nel 1899, sostenitore dell'affusto rigido riteneva che il fuoco doveva essere eseguito con una cadenza lenta e costante allo scopo di poterne valutare gli effetti. Gli oppositori opponevano che il pezzo era troppo lento nell'elargire il fuoco, anche per la necessità di rimetterlo in posizione dopo ogni colpo, con un servizio complicato e faticoso. Inoltre alla luce delle esperienze maturate nella guerra angloboera ipotizzavano che la mancanza dello scudo causasse forti perdite tra i serventi.

A distanza di 21 anni la citata pubblicazione dell'Ufficio storico non riesce a dare una plausibile giustificazione a tale scelta operativa frutto dell'isteresi mentale e del conservatorismo delle gerarchie militari. "Effettivamente solo nel novembre 1906, e cioè con grande ritardo rispetto a quanto si era praticato dagli altri eserciti europei, anche da noi, dopo lunghe esitazioni, era stata finalmente decisa l'adozione di materiale di artiglieria Krupp a deformazione […] Per cause non ben note, forse imputabili a una inesatta intuizione della grande importanza che avrebbe acquistato il nuovo materiale di artiglieria, non si erano neppure presi in esame i materiali a deformazione sebbene proprio in quell'anno (1897) fossero stati adottati dalla Francia". Sulla stessa linea l'ufficiale Storia dell'Artiglieria Italiana, sempre tesa alla esaltazione più smaccata dell'italico genio artiglieresco, osservava: "[…] è innegabile che fu grave e non giustificabile errore quello da noi commesso con lo interdire persino la possibilità dello studio di un'artiglieria del genere […]" (4). Anche per il cannone 65/17 da montagna la gestazione fu lunghissima. Gli studi iniziati nel 1907 dalla Direzione superiore delle esperienze dell'Arma portarono alla messa in produzione del pezzo solo nel 1914.

Fu un allora sconosciuto, coraggioso ufficiale di artiglieria il capitano Pietro Badoglio che, in un articolo pubblicato dalla rivista dell'Arma nel 1909, si schierò decisamente a favore dell'affusto a deformazione: "Ogni organismo che per lungo tempo sia vissuto nelle medesime determinate condizioni, tende a cristallizzarsi e offre resistenza tanto più forti a ogni rinnovazione quanto più lungo ed intenso è stato il periodo di sosta. Questo fatto sembra che si possa in parte riscontrare nell'arma nostra. Essa ha vissuto per mezzo secolo quasi colle stesse formule epperciò ha subito alquanto il fenomeno della cristallizzazione, ed oppone di conseguenza resistenza ad ogni cambiamento. Tutti ricordano l'ostilità alla compensazione, la guerra sorda al cerchio di direzione, e la guerra aperta e quasi generale a deformazioni, scudi, a forti celerità di tiro […]. Questo fenomeno si ripete oggi e con forme più violente, perché ben più importante, ben più decisivo è il cambiamento. Ed è a questo fenomeno che noi siamo portati ad attribuire in gran parte l'antipatia per il nuovo materiale e la glorificazione del passato. E' nella mancanza di energia di sottoporsi ad uno sforzo intellettuale, è nella resistenza passiva, ad evolvere rapidamente che si deve ricercare una causa precipua della sfiducia contro i nuovi sistemi.

In Francia una mente poderosa, precedendo tutti, preparò una lenta evoluzione con un assiduo lavoro che riguardava il problema nella sua complessità: tattica, materiale, ordinamento, tutto coordinato a un determinato fine. Da noi l'evoluzione graduale non si ebbe: si restò incerti tra il vecchio e il nuovo, cosicchè il nuovo non ebbe la voluta preparazione tecnica e tanto meno quella tattica. Ma pur tuttavia bisogna evolvere, e tanto più rapidamente per quanto ci siamo indugiati, se vogliamo conservare la nostra reputazione tradizionale. Il tempo di discutere è cessato, anzi dovrebbe essere cessato da un pezzo. Il materiale è adottato ed è quello che è, cioè un materiale ottimo per se, ma che si mostra tale soltanto in ottime mani. Le cognizioni attinte alle scuole, e man mano modificate dalla pratica della vita giornaliera, non sono più sufficienti: bisogna rifare la nostra istruzione. La base non manca, perché poche artiglierie possono vantare una così valida preparazione intellettuale, ma bisogna che non ci arrestiamo nemmeno per un momento: o adottare i nuovi sistemi con perfetta coscienza e conoscenza, o diventare un'artiglieria di secondo ordine. Il grido potrà parere lugubre, ma non per questo meno sincero" (5).

La guerra mise in luce la scarsità e la mediocrità del materiale a disposizione e in particolare la mancanza di bocche da fuoco campali leggere a tiro curvo. Lamentava Cadorna: "Le operazioni [...] paralizzate dalla grande penuria […] di potenti artiglierie […] procedettero con estrema lentezza" (6) e Mario Caracciolo aggiungeva: "[…] la scarsezza di artiglierie significò (come sempre bisogna ricordarsi!) la perdita di migliaia di vite umane, cadute di fronte a reticolati intatti […]" (7). A questo bisogna aggiungere la mancanza di munizioni che portò addirittura alla sospensione dell'offensiva nell'agosto 1915 a meno di tre mesi dall'inizio delle ostilità. Va però aggiunto che la mancata previsione dello straordinario consumo di munizioni fu una caratteristica di tutti gli eserciti contrapposti. Sulla pochezza dei mezzi a disposizione occorre però ricordare de Gaulle: "Al capo militare le armi che dovrà maneggiare non sembrano mai né troppo affilate né troppo solide".

La regolamentazione tattica

La regolamentazione tattica dell'Arma era inadeguata allo sviluppo delle operazioni belliche, alla rapidissima trasformazione della prevista guerra di movimento in guerra ossidionale. Essa si basava su principi astratti ai quali non corrispondevano i mezzi necessari per la loro applicazione anche per i tentennamenti, le perplessità, gli errori nella scelta delle artiglierie verificatisi all'inizio del secolo. Va aggiunto che per le artiglierie non fu tratto nessun insegnamento dalle esperienze belliche maturate nei primi dieci mesi di guerra sul fronte occidentale. Fu elevato il prezzo pagato per la carenza delle esercitazioni di tiro nell'anteguerra che non superavano quelle di gruppo e per la mancanza di addestramento e cooperazione con le altre armi.

Tra le forme di azione previste dalle Norme generali per l'impiego delle grandi unità di guerra del 1910-1913 e dalle Norme di combattimento (1911-1913) non vi era la preparazione dell'attacco né la contropreparazione nella difesa in quanto venivano privilegiate le norme relative alla guerra di movimento.

L'artiglieria fu l'unica tra le armi combattenti ad iniziare il conflitto con una carenza di ufficiali subalterni alla quale si fece fronte con ufficiali di cavalleria destinati ad incarichi non tecnici. Con l'aumento delle batterie e la necessità di nuovi quadri i criteri di selezione furono resi meno rigorosi e gli standard qualitativi necessariamente abbassati. Il peso dell'Arma nel corso delle operazioni aumentò a dismisura e si calcolò che alla fine del conflitto un soldato su tre vi appartenesse. Il generale francese Herr, esperto artigliere, sosteneva che per ogni cannone al fronte occorrevano 80 uomini per i relativi servizi dalla prima linea alle retrovie.

Se l'ultimo regolamento di fanteria dell'anteguerra, quello austroungarico, sosteneva la superiorità della fanteria: " […] è l'arma principale, egualmente atta alla lotta vicina come alla lotta lontana, perché, in ogni circostanza, essa può fare ottimo uso delle armi da fuoco. La fanteria infatti decide la battaglia ed è in grado, anche se non sostenuta dalle altre armi, anche contro nemico superiore per numero, di coronarsi dell'alloro della vittoria", il primo del dopoguerra, il francese Reglement provisoire de maneuvre d'infanterie I parte del 1920 stabiliva il concetto, rimasto indiscusso per i successivi venti anni: "l'artiglieria conquista il terreno e la fanteria lo mantiene". Fu così che la lezione della guerra fece nascere il binomio fanteria-artiglieria, base della soluzione di qualsiasi problema tattico.

Nel periodo iniziale della guerra di posizione l'artiglieria procedeva alla preparazione dell'attacco con bombardamenti sulle linee nemiche che man mano andavano prolungandosi ed intensificandosi nel tempo e nello spazio. Malgrado questa preparazione la fanteria non riusciva nemmeno a raggiungere i sistemi fortificati e si arenava davanti alle barriere di reticolati.

Vi fu allora una revisione dei procedimenti tattici e la necessità di una migliore protezione dei reparti attaccanti portò alla creazione di una cortina di fuoco, il "barrage roulant" francese, il "walzenfeuser" tedesco, il britannico "creeping barrage", che precedeva la linea attaccante muovendosi alla stessa velocità o a sbalzi successivi su obiettivi prefissati. Il procedimento dimostrò ben presto i suoi limiti. La meccanica erogazione del fuoco, a volte eccessiva per mancanza di obiettivi, a volte insufficiente per lo "spessore" delle opere fortificate, il suo automatismo che portava a non tenere conto di fatti nuovi o sopravvenuti, l'impossibilità da parte dei comandi della fanteria di richiederne immediati interventi per mancanza o insufficienza dei mezzi di comunicazione, rendeva la cooperazione fra le due armi estremamente lacunosa, precaria e incerta. In una circolare del giugno 1918, poco prima dell'ultima offensiva lo stato maggiore germanico riconosceva che: "Oltre 3-4 chilometri lo sbarramento mobile, regolato soltanto in base a un orario o può precedere di molto la fanteria o ritardarne il movimento. Esso perde quindi il suo principale valore". Inoltre il bombardamento preliminare e la cortina di fuoco avevano una gittata massima determinata dal calibro dell'artiglieria, nei rari casi di sfondamento la penetrazione in profondità si interrompeva davanti a una linea posta al di fuori della gittata e alle difficoltà di far avanzare rapidamente i pezzi. Il problema era aggravato dalla crisi dei collegamenti tra il comando dell'unità attaccante e l'artiglieria di appoggio per il rudimentale funzionamento dei collegamenti radiotelegrafici, per le frequenti interruzioni telefoniche, per l'impossibilità di avvistamenti di segnali ottici nel fumo della battaglia con la conseguente impossibilità di segnalare le armi automatiche che ostacolavano il proseguimento dell'attacco.

Osservava il generale tedesco von Bernhardi: "Altra difficoltà essenziale è quella di poter seguire col fuoco d'artiglieria la fanteria al di là della massima gittata dei pezzi, si da continuarne ad appoggiare l'avanzata. L'azione della fanteria, tanto in caso di riuscita sorpresa quanto in caso contrario diventerà sempre più difficile man mano che essa procede: poiché gli scaglioni difensivi retrostanti e le riserve fatte accorrere da lontano, non battute finora dall'artiglieria dell'attacco, entreranno in azione, opponendosi a una fanteria attaccante probabilmente già esausta. Tanto più necessario è perciò, per quest'ultima, l'appoggio della artiglieria; epperò questa deve fare ogni sforzo per seguire la fanteria ed aprire il fuoco da nuove posizioni, evitando quanto possibile di indebolirlo o di sospenderlo. E ciò è difficilissimo da ottenersi. Si è già visto nell'esaminare la tattica della fanteria quale parte abbiano in ciò le batterie di accompagnamento e le batterie di pezzi di fanteria".

Dalle sanguinose esperienze belliche nacque la necessità dell'artiglieria di accompagnamento che fu recepita in quella summa dell'esperienza bellica che furono le Direttive per l'impiego delle grandi unità nell'attacco (D.A.) del 1918: "L'azione del tiro di accompagnamento dovrà essere integrata dall'intervento di batterie leggere destinate ad accompagnare materialmente la fanteria nell'avanzata".

Quest'ultimo compito, la cui capitale importanza era venuta alla luce nel corso del conflitto non poteva essere risolto con i mezzi a disposizione e, anche nell'ottica dell'artiglieria, il problema tattico della prima guerra mondiale, il superamento di un complesso fortificato potenziato dalle barriere spinate e difeso dalle armi automatiche, rimase insoluto. La situazione fu così compendiata dal maresciallo Ludendorff nelle sue Memorie: "Non si trovò nessun mezzo tecnico per risolvere il problema".

L'industria bellica

Nel corso del conflitto lo sviluppo dell'industria bellica in Italia fu imponente. L'artiglieria cominciò le operazioni con 2121 bocche da fuoco, malgrado le enormi perdite patite nella rotta di Caporetto aveva a disposizione 9391 pezzi alla data dell'armistizio. A questi andavano aggiunti 5000 cannoni di preda bellica come annunciava il Bollettino della Vittoria. Per l'industria bellica l'accrescimento della produzione, lavoravano direttamente o indirettamente 2179 stabilimenti e 396.616 operai di cui 72.324 donne, provocò un enorme consumo di materie prime, quasi tutte importate per via mare e la necessità di addestrare un altissimo numero di operai e tecnici in un paese che produceva prima della guerra un centesimo della ghisa prodotta in Germania.

Nessuna bocca da fuoco di nuovo modello prodotta nel conflitto o riprodotta da modelli stranieri, riproduzioni quasi tutte di qualità scadenti, rimase in servizio dopo la guerra. Alla standardizzazione del materiale fu preferita la maggiore produzione possibile, restò in produzione materiale tecnologicamente superato e materiale sostituito da pezzi più moderni, per far fronte alle impellenti necessità del fronte.

La Sezione di artiglieria dell'Intendenza generale del Comando supremo accertò al termine di una lunga inchiesta che la produzione dell'Ansaldo, uno dei maggiori produttori di materiale bellico, presentava un'incredibile quantità di difetti e inconvenienti. Il cannone da 105 pativa un fenomeno di erosione della rigatura e della camera polveri, dell'obice 105 campale mod. 1916 si scriveva che presentava "inconvenienti tali da renderlo poco idoneo ai compiti cui era stato destinato". D'altronde la regolamentazione per il collaudo del materiale bellico, anche a seguito delle urgenti, impellenti richieste avanzate dai comandi al fronte, era estremamente tollerante. Esperti francesi ritenevano che i collaudi erano tali da: "Faciliter la fabrication de l'industrie national italienne au détriment de la bonne qualité des projectiles". L'elevata quantità di materiale temporaneamente inutilizzabile e il numero di incidenti per lo scoppio delle canne fu il naturale prezzo di questa politica.

La Commissione speciale per il riordinamento dell'artiglieria

Fu la Commissione speciale per il riordinamento dell'artiglieria, composta dal capo di stato maggiore dell'esercito Pietro Badoglio, dai generali Alfredo Dallolio ispettore generale dell'Arma di artiglieria, Grazioli, Clavarino, Cortese e Garrone a provvedere negli anni 1919-1920 al riordinamento delle enormi quantità di munizionamento esistente e delle bocche da fuoco, 8000 pezzi nella sola zona delle operazioni, alle quali andavano aggiunte quelle di preda bellica ammontanti dopo un accurato inventario a circa 4000.

Il materiale austriaco, quasi sempre superiore a quello italiano, fu in massima parte incorporato nel nostro esercito. Ottimi risultarono il cannone 75/13 Skoda a deformazione per la guerra di montagna, il 100/17 Skoda nei modelli 14 e 16, gli obici da 100, 149 e 152 e il mortaio da 305.

La Commissione provvide alla radiazione dei modelli italiani più antiquati quali i cannoni 57 A e B, 120 A, B e G, 149 G, 240, 321; gli obici e i mortai 87 B, 149 A e 210 G, 280 A, C e K, e degli autocannoni mod. 102 e 105. In una riunione dello stato maggiore generale del luglio 1925 si prospettò la sostituzione dell'obice da 149 Mod. 14 con l'obice da 149 di preda bellica, ma a fronte della spesa necessaria anche per il munizionamento si rinunciò. L'astronomica cifra di 1281 milioni era prevista per "il ripristino dei materiali e munizioni".

La Commissione dispose che l'Ispettorato delle costruzioni d'artiglieria iniziasse gli studi per i seguenti prototipi.
- Un cannone da 149 a deformazione (tipo Krupp).
- Un cannone da 152 a deformazione (tipo Skoda).
alleggeriti per sostituire il cannone da 149/35 rigido.
- Un obice da 210 con 16 km. di gittata e in grado di utilizzare il munizionamento residuo di guerra esistente in grande quantità.
- Un cannone contraerei di potenza superiore al 75/27 C.K, le cui batterie, delle quali si rilevava il logoramento, venivano portate a 40.
Infine si iniziò la valutazione dei proiettili esistenti allo scopo di ridurne i tipi a tre:
- Una granata ordinaria con carica interna del 10-20%.
- Una granata a grande capacità con carica interna del 25-30%.
- Uno shrapnel più efficace.
Secondo uno studio del generale francese Herr il nocciolo dell'Arma nel dopoguerra era composto da cannoni da 65 da montagna, 75 da campagna, obici da 100, 155 C.S., 203 (di produzione inglese) e 240.

La dottrina

Nel 1921 lo stato maggiore pubblicò le Norme per l'impiego dell'artiglieria (NIA) redatte dal capo di stato maggiore Badoglio che trattavano criteri e procedimenti tattici, seguite nel 1924 dall'Istruzione sul tiro per l'artiglieria dedicata alla preparazione e esecuzione del tiro.

Le Norme sono divise in quattro capitoli: Generalità, Schieramento, Impiego dell'artiglieria in combattimento in offensiva e in difensiva, Norme per l'organizzazione dell'artiglieria in combattimento e fanno seguito alla pubblicazione dell'agosto 1918 Ricordi tattici per l'ufficiale di artiglieria nella quale venne codificata l'esperienza bellica maturata. Anche le Norme tenevano conto, e non poteva essere diversamente, di questa esperienza e hanno a fondamento il principio che si era imposto nel corso delle operazioni: "Coadiuvare l'azione della fanteria, aprendole la via nell'attacco e agevolandone la resistenza nella difesa".

Tra le varie missioni alle quali l'Arma era chiamata: distruggere l'artiglieria nemica, infliggere il massimo delle perdite alla fanteria, sconvolgere le strutture difensive, i comandi e le comunicazioni, ostacolare la ricognizione e l'offensiva aerea, restava principale quello dell'accompagnamento della fanteria nell'attacco. Tutta la normativa tendeva ad incrementare la potenza di fuoco e la mobilità dell'Arma.

Il Dopoguerra

Nel dopoguerra l'azione di accompagnamento della fanteria nell'attacco fu al centro di grandi dibattiti e acre contese che vertevano sui modelli di cannone da fanteria da adottare e sui procedimenti tattici più efficaci. I cannoni da 37 mm. erano in dotazione durante la guerra alle fanterie italiane, francesi e austriache, quelle alleate erano potenziate da lanciabombe Stokes, mentre i tedeschi avevano adottato le minenwerfer, bombarde leggere, ma si trattava di materiale inadatto che man mano fu eliminato nel dopoguerra.

La necessità dell'accompagnamento nasceva dall'incapacità della fanteria di fronteggiare improvvise fonti di fuoco che, sopravvissute al fuoco di accompagnamento dell'artiglieria, impedivano la prosecuzione dell'attacco. Nel promemoria del comandante del 13° corpo d'armata germanico dell'aprile 1918 si dava per certo che durante gli attacchi si sarebbero sicuramente incontrati nidi di mitragliatrici da ridurre al silenzio pur muovendo le formazioni tedesche sotto l'ombrello di fuoco di una artiglieria che si esprimeva ai massimi livelli.

Nel dopoguerra von Bernhardi, premesso che il problema in guerra non era stato risolto, proponeva un complicato sistema poggiato sull'uso di razzi variamente colorati che dovevano segnalare per ogni reparto lo stato dell'avanzamento alle retrostanti batterie. Già nelle Direttive del 1918 si riteneva che: "L'azione del tiro di accompagnamento dovrà essere integrata dall'intervento di batterie leggere destinate ad accompagnare materialmente la fanteria nell'avanzata verso l'obiettivo".

Nelle Norme per l'impiego dell'artiglieria (NIA) del 1921 si aggiungeva che occorrevano batterie leggere addestrate alla collaborazione con la fanteria e che: "Gli spostamenti di fuoco d'artiglieria vengono eseguiti […] in relazione agli spostamenti della fanteria osservati e segnalati".

Il problema era estremamente complesso perché non era in dotazione un pezzo dotato di tiro diretto, rapido e preciso, con una scorta di munizioni al seguito, spinto a mano da artiglieri sotto il fuoco, in grado di seguire passo passo le unità attaccanti in un terreno rotto da trincee, dai crateri delle esplosioni, da viluppi di filo spinato. In una conferenza tenuta ai corsi ufficiali presso la Scuola centrale di fanteria di Oriolo Romano nel 1920 si delinearono quelle che avrebbero dovuto essere le caratteristiche del pezzo: peso in batteria non superiore ai 95 kg., scomponibile in parti dal peso non superiore ai 15 kg., celerità di tiro massimo da 12 a 16 colpi al minuto. L'arma non fu realizzata per insuperabili difficoltà tecniche.

Va rilevato che in Francia il generale Herr nel 1923 aveva scartato l'ipotesi del cannone di accompagnamento e prospettato, come soluzione del problema, un mezzo meccanico, cingolato e blindato da quattro tonnellate, armato di un obice da 65 mm. a tiro rapido.

Ordinamento Mussolini

Con l'ordinamento Mussolini del 1926 l'Arma fu divisa tra il Ruolo combattenti con 53 reggimenti e 12 Centri controaerei e il Servizio Tecnico di Artiglieria adibito allo studio e alla costruzione di materiale bellico.

Alla divisione di fanteria che aveva assunto una struttura ternaria, ossia su tre reggimenti, venne assegnato un reggimento di artiglieria da campagna con un gruppo someggiato su sei batterie di obici da 73/13, ancora in servizio dopo la seconda guerra mondiale, un gruppo ippotrainato su tre batterie con cannoni da 75/27, un gruppo ippotrainato su tre batterie di obici da 100/17 mod. 1914. Per l'accompagnamento vicino a ogni reggimento di fanteria fu assegnata una sezione di cannoni da 65/17 su tre pezzi, poi portati a quattro. Gli obici, già in dotazione all'esercito austroungarico erano degli ottimi pezzi di gran lunga superiori a quelli italiani.

L'obice 75/13 modello 1915 definito "materiale di artiglieria leggera someggiabile e trainabile" lungo metri 3,750 con un peso in batteria di kg. 613 e una gittata massima di metri 6750, era in grado di sparare 5/6 colpi al minuto, con una celerità massima di 12. Il pezzo poteva essere trainato da due quadrupedi o da sei uomini, il munizionamento era trasportato a soma, ogni mulo portava quattro cassette per un totale di 12 colpi. Il 75/27 modello 1911, trainato a cavallo, adattabile al treno meccanico, lungo metri 2,132 pesante in batteria kg. 1076, con una gittata massima di 8350 metri, sparava 5/6 colpi al minuto, con una celerità massima di 15.

Per le sue caratteristiche fu il miglior pezzo controcarri dell'esercito nella seconda guerra mondiale di gran lunga superiore al 47/32, detto l'elefantino, creato appositamente per la lotta ai carri nel successivo decennio. L'obice 100/17 modello 1914 e 1916, affusto a deformazione, lungo metri 5,350, pesante in batteria kg. 1417, con una gittata massima di metri 8180, sparava 4/5 colpi al minuto, con una celerità massima di 10. Rimase in servizio fino al secondo dopoguerra. Il cannone 65/17 di costruzione italiana, con affusto a deformazione, assegnato alla fanteria per l'accompagnamento vicino e per l'arresto, pesava in batteria kg. 570, la gittata massima era di 6500 metri, sparava sei colpi al minuto con una celerità massima di 12. Pesante e ingombrante poteva essere someggiato o trainato a forza di braccia per piccoli tratti. Si rilevò, guerra durante, un buon pezzo anticarro.

Al Servizio tecnico di artiglieria sovrintendeva l'Ispettorato di artiglieria. La Direzione generale di artiglieria, organo centrale del Servizio, provvedeva tra l'altro alla gestione dei 14 stabilimenti militari di artiglieria.

La professionalità dell'Arma era tenuta in alta considerazione all'estero tanto che il generale francese Herr, ispettore dell'Arma di artiglieria dell'Armée, scriveva nel 1923 a proposito della Rivista di artiglieria e genio: "Haute valeur tecnique [...] Articles très remarquès" (8).

Furono gli ufficiali dell'Arma a accedere in gran numero al Corpo di stato maggiore e a raggiungere i massimi gradi dell'esercito: Pollio, Cadorna, Diaz, Badoglio, Baistrocchi, Beraldi, Caviglia, Pecori Giraldi, Dallolio, Grazioli, Breganze, Marras, Bonzani, Gàzzera, Marras, Liuzzi e Infante ne furono l'espressione. Il fenomeno non era nuovo. Nel periodo risorgimentale gli ufficiali delle "armi dotte" La Marmora, Ricotti Magnani, Fanti, Dabormida costituirono la leadership dell'esercito.

Al prestigio degli ufficiali delle "armi dotte" si accompagnava la disistima per quelli della fanteria. Scriveva De Bono: "Qualunque colonnello, a qualsiasi Arma appartenesse, era ritenuto idoneo a comandare una Brigata di fanteria. […] Le signore del bon ton a Torino, […] se occorreva casualmente loro di parlare di uno di fanteria, dicevano invariabilmente ‘A l'è un brav' fieul, ma a l'è mac'd fanteria" (9).

Il fenomeno non era solo italiano. Nella seconda metà del XIX secolo dall'esercito il servizio segreto britannico arruolava solo ufficiali di artiglieria. Churchill nel suo scintillante Gli anni della giovinezza parla di un colonnello di cavalleria che, dopo aver lasciato il reggimento dei Grenadier Guards troppo oneroso per le sue sostanze, passò a un reggimento di fanteria che con la sua incapacità di pronunciare la "r" così descriveva: "[…] so che ha le mostvine vevdi e che pev andavci pvendo il tveno a Watevloo".

Va notato come l'Arma fu la prima a sottrarsi alla predominanza della nobiltà. Osserva lo storico statunitense Samuel Huntingdon: "Nel 1789 fuorchè nell'artiglieria e nel genio gli aristocratici detenevano il monopolio virtuale dei ruoli degli ufficiali degli eserciti europei".

Le Norme per l'impiego dell'artiglieria e l'Istruzione sul tiro per l'artiglieria, entrambe permeate della filosofia della guerra di posizione, furono sussidiate nel 1926 da una circolare di Badoglio avente ad oggetto la classificazione del tiro di artiglieria.

Col la sua limpida prosa il capo di stato maggiore: "Premesso che sull'impiego dell'artiglieria e sulle classificazioni dei tiri esiste una grande confusione" classificava i tiri secondo gli effetti che si volevano raggiungere e secondo lo scopo tattico. Si ebbe così la creazione di una comune metodologia di approccio con l'esatta delimitazione e determinazione dei termini. Questo complesso normativo rimase in vigore sino al 1937 quando fu sostituito da una nuova regolamentazione.

Nel 1933 in una pubblicazione ufficiale (10) venivano elencate 54 bocche da fuoco sotto il titolo Denominazione delle artiglierie in servizio di cui 26 cannoni, 17 obici e 11 mortai, divise secondo le specialità in 14 dell'artiglieria leggera, sei dell'artiglieria di corpo d'armata, 18 di artiglieria di armata, 16 di artiglieria in istallazioni fisse o da costa e cinque contraerei, ma in massima parte si trattava di materiale obsoleto.

In pratica erano in dotazione all'artiglieria leggera il cannone 75/27 mod. 1911 e l'obice da 100/17 mod. 1914, per l'artiglieria da montagna il 75/13 in sostituzione del 65/17, l'artiglieria a cavallo conservava il 75/27 mod. 1912. Al tiro contraereo era destinato il cannone da 75 K "di scarsa gittata", le artiglierie pesanti campali avevano in dotazione il cannone da 105 e l'obice da 149/12, per l'artiglieria pesante vi era una vasta panoplia di tipi e calibri diversi che andavano dall'obice da 305, dal cannone da 381 su affusto ferroviario sino all'austriaco obice da costa modello 420.

L'obsolescenza del materiale andava aggravandosi col passar del tempo. Gli uffici tecnici delle industrie erano stati sguarniti per mancanza di commesse nazionali ed estere e gli impianti erano soggetti a un lento decadimento. L'Ansaldo ancora nel 1936 lamentava che su 3461 macchine installate il 47% risaliva addirittura agli anni precedenti il 1910 e il 45% al periodo 1910-1920. L'unica attività, ma svolta quasi tutta negli arsenali e stabilimenti militari, era quella del perfezionamento del materiale e delle munizioni esistenti.

La mancanza di risorse finanziarie fu alla base dell'immobilismo degli anni 1919-1928; con i magri fondi a disposizione non era possibile provvedere allo studio e alla produzione di nuovi modelli. L'unica eccezione fu la progettazione di un cannone antiaereo per la sostituzione dell'antiquato 75 K, si trattava del Déport mod. 1911 su apposito affusto, ma il progetto non andò a buon fine e si ripiegò sullo stesso modello riprodotto in 14 batterie sistemato su un autotelaio Ceraino 50 CMA che dal 1927 gradualmente sostituì l'Itala 10. Nel 1937 con 168 pezzi formava l'ossatura della difesa contraerea.

Nel 1928 il problema fu messo finalmente sul tappeto. Scriveva la Commissione suprema di difesa al sottosegretariato di Stato alla Guerra: "Tutti i buoni materiali adottati dalla nostra artiglieria sono stati studiati e molti anche fabbricati all'estero (Krupp, Armstrong, Schneider, Déport) […] I materiali nuovi studiati e costruiti dalle nostre officine sono stati tutti radiati durante la guerra e subito dopo […] I materiali semplicemente riprodotti sono stati quasi sempre di qualità scadente e di breve durata […] Nel dopoguerra i molti studi ancora indetti per vari materiali nuovi, o per modifiche a materiali esistenti, non hanno ancora dato dopo più anni di prove nulla di concreto".

Nel precedente 1927 la Commissione aveva già evidenziato il problema in una nota al Comitato di mobilitazione civile: "La costruzione di artiglieria si è arrestata in Italia dopo il 1918 e molte industrie […] hanno dovuto in seguito abbandonare tale ramo di produzione per assoluta mancanza di commesse […] le tendenze moderne […] verso cui si orientano quasi tutti gli Stati esteri fanno ritenere ormai già sorpassato o sulla via di esserlo, quasi tutto il materiale di artiglierie in dotazione al nostri esercito". La Commissione propose anche la costituzione di una scuola di artiglieria per: "mantenere in vita l'arte del costruire", scuola che avrebbe dovuto avere la sua sede in Terni città sede di impianti industriali che si riteneva sufficientemente lontana dalle offese aeree, ma la proposta rimase sulla carta. Aggiungeva la Commissione che occorreva: "Porre la nostra industria in grado di avere, all'atto della mobilitazione o quando se ne sentisse la necessità, la possibilità reale di far fronte ai bisogni del momento con la costruzione di nuove bocche da fuoco definite ed esperimentate sin dal tempo di pace". Del problema si era discusso anche nella riunione dello stato maggiore generale del 22 gennaio 1928, arrivando alle stesse conclusioni: "Istituire presso qualche grande stabilimento industriale una sezione tecnica […] opportunamente sussidiata e controllata dal ministero della Guerra".

Il Comitato di mobilitazione civile valutò che le bocche da fuoco necessarie all'atto dell'inizio di un conflitto dovevano essere: 2200 pezzi da 75, 2200 da 100-105, 1200 da 149-152, 500 da 210, 100 da 305 per un totale di 6200. Nel clima di trionfo nazionalismo che andava maturando e senza tenere conto del deplorevole stato dell'industria bellica nazionale la stessa Commissione sosteneva la tesi che: "per il prestigio stesso di grande potenza occorre provvedere integralmente con i nostri mezzi".

La Gran Bretagna e la Germania, potenze di prima grandezza nel campo dell'industria degli armamenti, acquistarono senza nessuna remora il cannone controaerei 40/56 della svedese Bofors, uno dei migliori della seconda guerra mondiale.

Anche nel campo del materiale di artiglieria la sconoscenza di quanto andava progettandosi all'estero contribuì alla futura catastrofe militare.

I nuovi progetti

Alla fine del 1929 fu posto allo studio il primo progetto per nuove costruzioni ad opera dei generali Giura ispettore dell'Arma, Bonzani capo di stato maggiore dell'esercito e Gàzzera ministro della Guerra.

La produzione doveva essere concentrata su una bocca da fuoco da 75/46 per l'artiglieria contraerea, da una bocca da fuoco dello stesso calibro per l'artiglieria divisionale e per la guerra di montagna oltre, se possibile, una bocca da fuoco sempre da 75 mm. ma a grande gittata e un obice leggero da 105; per l'artiglieria di corpo d'armata era all'esame un obice da 149 e un cannone da 105 e per quella di armata un cannone da 140 e un obice da 210. Per questo progetto l'assegnazione fu di otto miliardi di cui al 1934 erano stati erogati solo 1.600.000. Alla stessa data furono definiti due prototipi il 75/18 mod. 1934 e il 75/46 contraerei di cui furono prodotti alcuni pezzi.

Alla fine degli anni venti il processo di rinnovamento dell'Arma era solo all'inizio, esso ebbe un mediocre impulso negli anni trenta ma ancora una volta l'Arma entrò in guerra in condizioni di netta inferiorità e in tali condizioni lottò. "Gli artiglieri nemici continuarono a manovrare i loro pezzi anche dopo che la fanteria si era ritirata. Gli Italiani usavano vecchi cannoni, alcuni che risalivano alla prima guerra mondiale: molte granate non esplodevano e tutti gli strumenti di precisione erano tutt'altro che precisi. Ma, soprattutto quando sparavano su bersaglio fisso, questi artiglieri dimostravano una abilità e una resistenza superiori al livello del rimanente esercito italiano" scriveva Alan Morehead (11).

Altissimo fu il prezzo di dolore e di sangue.

Il napoletano Odorisio Piscicelli Taeggi, capitano e poi maggiore di artiglieria, il quale dirigeva il tiro del suo gruppo nel deserto marmarico dall'alto di una scala a pioli fissata a un trattore, racconta: "Allora mi accorsi che i miei cannoni, costruiti 35 anni prima, non erano più pezzi di artiglieria. Colpi sparati con gli stessi dati dallo stesso cannone avevano scarti di distanza paurosi. Se poi si passava agli altri, succedeva l'inverosimile. Non ce ne erano due che sparassero nello stesso modo. Con ognuno si doveva cominciare daccapo. Impossibile fare un aggiustamento. Impossibile un tiro preciso, artiglieresco. Era quasi uno sparare a casaccio. […] La superiorità dell'artiglieria inglese era schiacciante e non era in nostro potere contrastarla […] Gli inglesi avevano più cannoni di noi e li avevano di modelli e costruzioni recentissimi, di gittata e celerità di tiro maggiori, con proiettili più potenti […] essi disponevano di mezzi di osservazione e collegamenti più abbondanti e molte volte più perfetti dei nostri. Gli artiglieri italiani si sacrificarono in una lotta impari […] che richiedeva l'eroismo costante di atti umili, muti, quello che è più difficile perché non visto" (12). Ufficiale valoroso venne citato nel Bollettino di guerra del comando supremo del 24 aprile 1943: "Ai reparti citati dai precedenti bollettini merita di essere aggiunto per il suo valoroso comportamento, il gruppo corazzato comandato dal maggiore Oderisio Piscicelli Taeggi da Napoli".

Enrico Serra, ufficiale carrista, così lo descrive: "Abbiamo è vero in appoggio un gruppo d'artiglieria al comando del capitano in SPE Odorisio Piscicelli, un nobile napoletano tutto pepe e verve. Ma egli dispone dei pezzi da 75 mm. della prima guerra mondiale, anzi dell'anno 1906, che ben poco possono fare contro gli 88 inglesi che hanno una gittata quasi doppia. Il guaio è che Piscicelli non si arrende. Caracolla il deserto a bordo di un trattore di artiglieria, su cui ha sistemato una scala, sulla quale si arrampica per fare dell'osservazione. L'abbiamo battezzato 'il principe della Scala' con riferimento alla sua origine nobiliare. Lui scruta il nemico e io, con il binocolo inglese che mi hanno regalato i motociclisti, scruto lui. Poi porta i cannoni di una batteria ad una cinquantina di metri più avanti dei carri, per guadagnare gittata e nello stesso tempo rimanere sotto la nostra protezione. Sistemati i cannoni con apposite buche per dare il maggiore alzo possibile, cominciò il tiro con tripla carica. Al momento dello sparo, i cannoni facevano un vero e proprio balzo in alto per ricadere pesantemente. […] Purtroppo mentre il loro tiro era, in questi casi, del tutto inefficace, serviva in compenso a tirarci addosso quello d'interdizione del nemico. Dopo qualche minuto, cannoni ed artiglieri sparivano in un nugolo di sabbia sollevato dalle cannonate inglesi. Dissipata la nebbia, vedevamo gli artiglieri alzarsi in piedi ed affrettarsi a ricaricare e a sparare i loro vetusti 75/27. Non potevo non ammirare il coraggio e l'abnegazione di questi magnifici artiglieri" (13).

L'artiglieria fu definita l'ultima ratio regum ma per quella italiana l'ultima ratio era spuntata.

Note

1. De Gaulle, Charles. La France et son armée. Paris 1938. [torna su]

2. Landes, David S. La ricchezza e la povertà delle nazioni. Garanti 2001. [torna su]

3. Ufficio storico S.M.E. L'Esercito Italiano nella Grande Guerra (1915-1918). Volume I, Le forze belligeranti. Roma 1927. [torna su]

4. Storia dell'artiglieria italiana. Parte III, volume VII. Roma 1940. [torna su]

5. Badoglio, Pietro. Sempre avanti. Rivista di artiglieria e genio. Agosto 1909. [torna su]

6. Cadorna, Luigi. La guerra alla fronte italiana. Milano 1923. [torna su]

7. Caracciolo, Mario. L'Italia nella guerra mondiale. Roma 1935. [torna su]

8. Herr, général. L'artillerie. Paris 1923. [torna su]

9. De Bono, Emilio. Nell'esercito nostro prima della guerra. Milano 1931. [torna su]

10. Grandi, Italo. Dati sommari sull'artiglieria in servizio. Torino 1934. [torna su]

11. Morehead, Alan. La guerra del deserto. La campagna nell'Africa Settentrionale 1940-1943. Milano 1971. [torna su]

12. Piscicelli Taeggi, Odorisio. Diario di un combattente nell'Africa Settentrionale. Bari 1946. [torna su]

13. Serra Enrico. Carristi dell'Ariete (Fogli di diario: 1941-1942). Roma 1979. [torna su]
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