La saggia e coraggiosa regina che a capo di un piccolo regno sardo seppe tenere testa ai sovrani dell'impero spagnolo
Presentazione
Spesso leggendo il nome riportato sulla targa di una via, ci chiediamo, come Don Abbondio di manzoniana memoria: "Carneade! Chi era costui?". Molti personaggi vantano una via o una strada a loro intitolata, più sovente d'altri nell'ambito di una regione, come, anche nella sarda. I testi scolastici nazionali li ignorano e quelli del luogo li hanno dimenticati; io non ho, certamente la pretesa di colmare queste lacune. Desidero soltanto ricordarne alcuni, con la narrazione delle loro vicende; le quali oltre ad essere d'esempio, sono interessanti e avvincenti, forse più della trama del romanzo di un famoso autore. Fra tutti i personaggi considerati, ritengo che uno di loro si collochi non in una posizione di preminenza, ma in una del tutto sua, particolare.
Questa, è Eleonora d'Arborea che l'illustre storico sassarese, Cav. Pasquale Tola bene afferma che se lei fosse vissuta in un'epoca non barbara, in più fiorito regno e in più vasto campo con le sue meravigliose azioni, avrebbe superato la fama e la gloria d'altra regina, quale Cristina di Svezia, Caterina II di Russia e Maria Teresa d'Austria. Nella sua "Carta de Logu", si riprendono i princìpi dell'antico diritto romano, non certo compreso nelle barbare leggi imposte al settentrione dai vandali invasori, dopo la scissione dell'impero romanico. Le disposizioni in questa contenute sono un capolavoro di concisione e chiarezza, tali da ben capirsi da tutti i suoi vassalli. Mai queste sono state rettificate, ma, soltanto ampliate. Tante si comprendono tuttora nella vigente legislazione italiana.
1.
Non è ancora l'alba e l'oscurità della notte è rotta, di tanto in tanto, dal bagliore dei fulmini, che squarciano il cielo denso di nuvoloni minacciosi; che non lasciano trasparire il tremolio delle stelle. Il brontolio dei tuoni copre il rumore del calpestio d'uomini a cavallo; le raffiche del forte vento che sospingono la pioggia battente in un'unica direzione, sferzano volti e musi. Un drappello armato di tutto punto, avanza deciso fra gli elementi scatenati; nessuno s'aspetterebbe d'incontrarsi con questo, con tanto avverse condizioni meteorologiche. Le fiaccole resinose, che reggono e che ardono ugualmente, a stento riescono a rischiarare il cammino da percorrere.
Davanti a tutti, avanza decisa e intrepida su di un possente e magnifico cavallo bianco, una giovane con i lunghi capelli corvini; che scarmigliati dalla forte brezza, le sfuggono da sotto l'elmo, sciolti sulle spalle. I profondi occhi neri che s'intravedono dalla fessura della celata calata, paiono rilucere d'ardente fuoco interiore che brucia la sua anima. Il suo corpo sinuoso e aitante al tempo stesso, è racchiuso in una leggera e lucente corazza; gli uomini che la seguono, sono i più valorosi e i più coraggiosi del Giudicato d'Arborea, del qual è regina. Quei cavalieri, non soltanto l'ubbidiscono ciecamente, ma l'adorano e se lei lo chiedesse, si getterebbero in un rogo ardente.
Ancora prima dell'alba, Eleonora e i suoi fidi entrano in un villaggio; gli abitanti del quale, ignari, dormono profondamente. In una casa, posta nella piazza principale del paese, trova ad attenderla, seduti davanti ad un camino; nel quale arde un gran fuoco, un folto gruppo di villici armati di falci, forconi e altri attrezzi agricoli: sono uomini a lei fedeli. Altri si sono ribellati: non riconoscono la sua potestà e imitando i sassaresi, vogliono eleggersi in libero comune. I paesani fedeli conducono Eleonora e i suoi guerrieri davanti alle case abitate dai capi della rivolta, nelle quali irrompono e arrestano gli occupanti; questi, che neppure lontanamente s'aspettavano da lei in persona una mossa del genere, restano enormemente sorpresi e s'arrendono senza opporre resistenza.
I ribelli sono trascinati nella piazza citata innanzi; dopo di che, la regina ordina di suonare le campane a distesa, come s'usava per chiamare tutti gli abitanti a raccolta davanti alla chiesa che sorgeva sulla stessa piazza, in caso di pericolo grave e imminente. Dopo che il vasto spazio è gremito di gente, Eleonora monta su di un grande e robusto tavolo, si rivolge ai presenti e asserisce: "Dopo la morte di mio fratello e della sua figlia, Benedetta, barbaramente trucidati in Oristano, ho le prove che dopo tanti secoli di pacifica convivenza fra voi e la corona d'Arborea, ad eccezione di un po' di tirannia da parte d'Ugone, ora volete ribellarvi ad essa ed eleggervi in libero comune come hanno operato i sassaresi. Questi, però, n'avevano ben ragione, perché sottoposti a dominazioni straniere che ad altro non badavano che a sfruttarli e ricattarli in cambio della loro protezione; inoltre, voi non possedete le risorse economiche di Sassari. Chi vi ha governato sino ad oggi e vi governerà, sono sardi come voi; i quali, meglio di chiunque altro, conoscono i vostri problemi ed esigenze. Le vostre richieste ragionevoli sono state sempre accolte; vi garantisco, io, Eleonora d'Arborea, che m'impegnerò a studiare e ad applicare leggi eque e giuste, per una sempre migliore esistenza, nella quale, per volontà di Dio, regnerò dopo l'uccisione di mio fratello Ugone. Non capisco, perciò l'atteggiamento sconsiderato di coloro tra voi che vogliono rendersi più indipendenti, si, ma anche più deboli, pronti ad essere tiranneggiati e sfruttati da quelle potenze straniere, che tramite i loro agenti segreti cercano di sobillarvi alla rivolta; forse convinti di poter avere ragione di una donna regina e perché di tal sesso, debole. Vi posso garantire che non è così e se continueranno nei tentativi disgregatori si accorgeranno dell'errore e con loro chi li sorregge: la mia giustizia sarà inesorabile! Mi rivolgo per prima a voi che da stolti vi siete lasciati convincere dai nemici della nostra patria e vi siete resi rei di cospirazione contro la vostra regina: se riconoscerete, perciò, qui, pubblicamente, lo sbaglio e giurerete per il futuro, fedeltà a me al mio minore figlio, Federico, il re che rappresento, voi sarete condonati, altrimenti ... vi sarà mozzato il capo".
Furono interpellati i ribelli arrestati; tutti i presenti, meno uno, si dichiararono pentiti, giurarono fedeltà e furono lasciati andare liberi. Per colui che non lo fece, fu trovato un grosso ceppo. Questo fu issato sul grande e robusto tavolo, sul quale stava anche Eleonora in piedi; il non pentito fu issato sull'estemporaneo patibolo. Gli furono legate le mani dietro la schiena e bendati gli occhi; infine, costretto a reclinare il capo sul grosso ceppo. La regina, allora rivolse un cenno ad un alto e robusto cavaliere che stava col suo seguito e, che mai s'era levato l'elmo con la celata calata sugli occhi; questo, sguainò uno spadone, s'avvicinò al legno, sollevò alta l'arma e calò sul collo del reo un tremendo fendente, recidendoli la testa di netto che rotolò dentro un cesto all'uopo predisposto. Quel capo senza corpo, fu issato, infine in cima ad un'alabarda ed esposto alla vista dei presenti, che furono scossi da un brivido d'orrore e di paura.
Tolto il ceppo insanguinato, ripulito alla meglio il tavolo, Eleonora vi risalì sopra e anche se visibilmente turbata riprese a parlare: "Avete appena visto quel che accade ai traditori; ora io esigo che tutti gli abitanti adulti di questo villaggio, sfilino qui davanti a me, uno per volta e giurino su Dio che saranno sempre fedeli ai sovrani d'Arborea".
Sembrerebbe che ciò che era richiesto fosse un'azione poco impegnativa, ma se si considera la religiosità di quei tempi, al contrario aveva più efficacia di qualsiasi contratto sottoscritto.
2
Eleonora lasciò quei vassalli sotto lo scrosciare degli applausi, grida d'incitamento e d'approvazione al suo comportamento e altre, che rinnovavano le profferte di fedeltà. Ci si chiederà, perché quella donna splendida che doveva essere esempio di grazia e di leggiadria, si comportava da sì virile e severo condottiero?
Per scoprirlo è necessario riandare indietro nel tempo, rispetto a quello durante il qual è accaduto l'episodio appena narrato.
Eleonora, nacque secondogenita, a metà circa del secolo XIV da Mariano IV re d'Arborea e da Timbora di Dalmazio, dei visconti Roccaberti e sposò Brancaleone Doria; dalla loro unione nacquero due figli, Federico e Mariano. A Mariano IV succedette il suo figlio primogenito, Ugone, malvisto dai sudditi, che come già accennato prima, egli tiranneggiava; si creò molti nemici in patria, istigati da quelli fuori di questa, contro i quali egli era in guerra. Si narra che a far precipitare gli eventi del suo assassinio, sia stato la decisione di far uccidere i maestri, Andrea da Palaia, fisico e Pace, chirurgo; giunti da Pisa ad Oristano per guarirlo da un'infermità e, che non riuscirono nell'intento.
Ad Ugone che non lasciò prole maschia, successe il primo figlio d'Eleonora, Federico; in vece del quale, perché minorenne, governava sua madre. A seguito di questi avvenimenti, il futuro del nuovo giudice o regolo, si presentava non fausto; il codardo suo padre, Brancaleone Doria, dapprima ebbe una vivace discussione con la moglie, Eleonora, iniziando e proseguendo con le seguenti parole: "Mia cara sposa e regina, vedo davanti a noi tempi critici; la scintilla della ribellione, fra poco accenderà grandi tumulti in tutto il regno e, se non andremo via al più presto, la nostra famiglia rischia di finire come Ugone. Dobbiamo sottometterci, chiedere asilo e aiuto al re d'Aragona per debellare la ribellione; per ottenere ciò è necessario che tu prenda contatto col viceré spagnolo in Cagliari".
Rispose, sdegnata Eleonora: "Ho sempre saputo che non hai mai brillato per coraggio, ma mai avrei immaginato che tu fossi anche vigliacco; dopo tutte le battaglie combattute da mio padre, per rendere questo regno rispettato e indipendente dalle potenze che sì affacciano sul nostro mare. Vuoi, tu che io l'abbandono senza lottare contro di coloro, che vogliono condurlo alla disgregazione e alla rovina; preda di potenze straniere, in capo alle quali, c'è proprio quella alla quale vuoi sottometterti? Sinché mi scorrerà una goccia di sangue nelle vene, io combatterò affinché non sia tolto ai miei figli ciò che a loro appartiene! Tu vuoi andartene? Procedi pure! Non so che farmene di un uomo imbelle come te".
Dopo di che, il "coraggioso" Doria s'imbarcò alla volta della Corte Spagnola, dove si ritroverà. Fu così, che Eleonora smise gli abiti femminili e indossò quelli virili; fortificò il suo corpo con estenuanti e pesanti esercizi fisici, s'impratichì e diventò esperta e brava nell'uso delle armi, imparò l'arte della guerra e della guerriglia, assimilò la diplomazia delle potenze militari e .. non cessò di studiare le leggi per migliorare la vita dei suoi sudditi. Ecco perché s'è vista all'inizio di quest'opera, in un'azione di ripristino delle sue prerogative; quella fu una delle più facili e meno cruente, perché la prima ad essere compiuta. Le altre, in seguito alla migliore organizzazione dei rivoltosi, diventarono delle vere e proprie battaglie, senza esclusione di numerosi morti e feriti, sempre in numero maggiore fra le schiere dei suoi nemici.
La bonifica della regina fu capillare, di paese in villaggio, di castello in rocca, sempre magnanima con i pentiti e con coloro che le giurarono fedeltà; inflessibile con gli altri: le teste, perciò, continuarono a ruzzolare. Non vi fu rocca, castello o altra fortificazione che non cadde sotto l'impeto deciso delle sue truppe. Eleonora non si limitò a ripristinare il predominio sulle terre che in quel periodo appartenevano al regno del figlio, ma riconquistò tutte quelle che in passato erano appartenute alla sua famiglia e che il padre aveva conquistato.
3.
Brancaleone Doria, alla Corte di Don Pietro d'Aragona, pronunciò atto di sottomissione a quel re, con l'intento d'ottenere uomini e armi per ridurre alla ragione i ribelli d'Arborea. All'inizio fu accolto molto bene: gli si conferì, addirittura il titolo di conte di Monteleone con la baronia della Marmilla. Ebbe anche la formale promessa d'avere il soccorso richiesto.
In quel periodo Eleonora scrisse, ugualmente una lettera che ancora oggi si conserva nel Regio Archivio di Cagliari, alla Regina d'Aragona, alla quale si rivolse più come madre che come regina. In questa, Eleonora raccontò tutto ciò che era successo in Arborea. In particolare paventò il timore di non poter difendere e garantire i diritti sovrani del figlio; pregò, perciò quella sovrana d'intercedere presso il re suo marito, affinché questo intervenisse a mantenere la pace nel regno del figliolo. Una curiosità storica: Eleonora sottoscrisse quella lettera così. Eleonora Judicessa Arborae cum devota et umili raccomandatione.
A detta lettera, da più parti seguirono i racconti delle sue gesta. Tutta la corte aragonese si meravigliò nell'udire che: "Tanta altezza di sensi e tanto valore s'annidasse nel petto della giovane principessa".
Così scrisse il barone Manno nella Sua Storia di Sardegna - tomo II - libro nono, pag. 209. Lo stesso suo marito non s'attendeva un tale comportamento e, soprattutto una così rapida soluzione di quei gravi problemi, davanti ai quali era fuggito e, si pentì della troppo precipitosa sottomissione al re d'Aragona; sentì un gran rimorso per aver lasciato sola Eleonora a lottare e decise di riscattarsi, schierandosi dalla sua parte. Resosi più audace, chiese d'essere ricevuto dal suddetto re: gli fu concesso. Eccolo, perciò nella stupenda sala del trono, dalle pareti ricoperte di splendidi arazzi, di pregevoli dipinti, di teche ricche d'arme, di preziose specchiere; dal pavimento nascosto sotto ad artistici tappeti. Fra i quali, uno lungo di damasco rosso che dall'ingresso arrivava sino al trono, posto in fondo alla sala. Il soglio reale era a tre posti e quello al centro si levava più alto rispetto agli altri: uno per la regina e l'altro per il delfino. Il trono era costruito di legni delle più pregiate essenze, artisticamente inciso e scolpito. Gli schienali, i sedili e braccioli erano ricoperti di finissimo raso, imbottito sofficemente. Sovrastava il tutto un ammirevole baldacchino con le strutture di legno, magistralmente lavorato e ricoperto da ricche e ricercate stoffe. Ai lati della sala, erano ubicate ammirevoli mensole di lucido ottone e di brillanti cristalli, che reggevano degli stupendi candelabri. Davanti alle aperture delle finestre, calavano drappeggiando delle tende di seta e damasco.
Il cerimoniere, s'affaccio all'uscio della sala e, battendo l'estremità inferiore della mazza annunciò:
"Il Cavaliere, Conte di Monteleone, Barone della Marmilla, Nobile, Don Brancaleone Doria!". Costui, vestito dei suoi abiti di gala con appuntate le insegne nobiliari entrò e percorse tutta la lunghezza della sala sulla guida rossa, s'avvicinò a Sua Maestà il re Don Pietro d'Aragona, si tolse il gran cappello dalla lunga piuma mentre badava a fare compiere a questo un ampio volteggio dall'alto della testa al basso del fianco destro; infine, si piegò in avanti in un profondo inchino, affermando: "Voglia Vostra Maestà gradire il mio umile e devoto omaggio; ciò che mi spinge, ancora una volta ad importunare la Vostra graziosa persona, già l'avrà, certamente immaginato, perché non v'è per me altro desiderio, oltre a quello di rientrare in patria, presso i miei adorati figli e l'amatissima sposa. Non v'è più ragione che io rimanga ancora presso la vostra onorata Corte, attendendo la realizzazione delle Vostre promesse di un aiuto militare, al fine di soffocare i moti rivoluzionari scoppiati nel Regno d'Arborea; certamente, come sapete, la Regina Eleonora, con virile coraggio, sorprendendo tutti per le sensate azioni guerresche e con gran valore, ha allontanato i pericoli che incombevano su suo figlio Federico e sulla nostra famiglia. Vi prego, fervidamente perciò di permettermi di congedarmi da Voi e dalla Vostra Corte; vi ringrazio sentitamente per l'ospitalità accordatami della quale Vi sarò sempre grato".
Replicò il Re: "No! Troppo comodo sarebbe per Voi; forse dimenticate che avete pronunciato formale atto di sottomissione ai sovrani d'Aragona. Non solo, ma avete promesso che al Vostro, sarebbe seguito, quel di Vostra moglie, Eleonora; non per niente vi ho armato cavaliere e nominato conte e barone, e poi, io Vi confesso, che i troppi successi della Regina d'Arborea ... mi preoccupano molto. Non vorrei che fra le terre riconquistate avesse in animo di comprendere anche quelle, in possesso, attualmente d'Aragona; sto allestendo un esercito con a capo Ponzio di Senesterra, per rinforzare i miei presidi militari in Sardegna. Voi andrete con lui a Cagliari; qui aspetterete che Eleonora, Vostra moglie consegni ai generali spagnoli, come pegno e ostaggio della Vostra giurata fedeltà, Vostro figlio Federico che sarà cresciuto a Corte come uno della mia famiglia. Dopo di che ... non avrete più alcun obbligo; queste sono le condizioni, se desiderate ritornare in Arborea.
4.
Da Cagliari, Brancaleone supplicò più volte Eleonora d'aderire alle richieste del re d'Aragona. Eleonora, profondamente offesa, anche per le insistenze del generale Ponzio di Senesterra, non esitò a voltare, contro gli aragonesi, le proprie armi, al fine d'ottenere la libertà, nonostante questo, la avesse abbandonata quando maggiormente aveva bisogno di lui, la liberazione del marito. Quegli stessi armati, che lei aveva usato contro i vassalli e per la riconquista dei feudi già appartenuti alla sua famiglia, ella, inoltre contava d'ottenere migliori risultati, rispetto alle guerre combattute dagli ultimi due giudici d'Arborea, Mariano IV, il padre e Ugone IV, il fratello, proprio contro i re d'Aragona, esattamente come il Re Don Pietro d'Aragona temeva. Con la prospettiva, inoltre di giungere ad accordi di pace a lei più favorevoli.
Ben due anni durò questa guerra, anche se gli storici, ad eccezione del barone Manno, non ne scrissero niente, durante la quale, Brancaleone Doria fu custodito nel castello di Cagliari. Molto favorevole al giudice Eleonora, dovette essere questo conflitto; ciò si deduce dagli accordi che lo seguirono. Purtroppo questa pace non ebbe pratica attuazione per la morte di Don Pietro suddetto, avvenuta nel gennaio del 1387. Eleonora si rivelò grande e valorosa guerriera in tempo di guerra e donna di molto senno nei periodi di pace, per la quale s'adoperò affinché essa s'estendesse alla Sardegna tutta.
Si ritiene interessante rammentare alcune clausole che Eleonora, riuscì a strappare al re d'Aragona:
- "... nei castelli occupati dalle truppe aragonesi, si potessero mettere le guarnigioni che si voleva, ad eccezione di quello di Sassari che dovevano essere formate da uomini del luogo: questo perché a causa delle guerre sostenute più volte contro gli aragonesi, che avevano esasperato gli animi, i sassaresi malvolentieri avrebbero sopportato d'averli ancora vicini e per di più in posizione sovrastante le loro teste e, se ciò non andasse a genio al re che si demolisse piuttosto la rocca."
- "... i forestieri proprietari di feudi, non risiedessero più in Sardegna, perché fomentatori di ripetute discordie; questo, inoltre era il sistema migliore, non vedendoli, d'essere meno odiati dai loro vassalli."
_ "... un solo governatore reggesse l'isola, fosse egli catalano o aragonese e di tale nazionalità dovevano essere, anche gli amministratori delle rendite del tesoro. Gli altri ufficiali, invece, di nomina regia, fossero di nazionalità sarda, esclusi quelli d'Alghero e Cagliari.
- "... che i sudditi del re e i vassalli d'Eleonora, fossero liberi di mutare domicilio quando lo volevano".
Con quanto sopra, la regina, riteneva che questi fossero i mezzi per gli aragonesi di superare le difficoltà giornaliere del loro governo o almeno per ovviare al fatto di essere maggiormente odiati e ottenere d'essere più rispettati.
Alla stesura di tali patti intervenne per il re d'Aragona, Bernardo di Senesterra, governatore di Cagliari e Giasberto di Campolongo. Per parte d'Eleonora, il vescovo di Santa Giusta e Comita Pancia. Subito dopo essere succeduto al trono d'Aragona, il nuovo re, Don Giovanni, si premurò di nominare governatore del regno, Ximene Perez de Arenoso, al quale affidò l'incarico di continuare con Eleonora le trattative di pace interrotte per la morte del padre, Don Pietro. Sua intenzione era però quella di allargare le concessioni pro corona spagnola. Alle minuziose spiegazioni che si dovettero fornire per l'introduzione delle variazioni introdotte, si deve la causa che il trattato di pace fu approvato, soltanto dopo un anno.
A rendere più solenne la cerimonia d'approvazione, intervenne per una parte i sindaci dei comuni soggetti ad Eleonora e al suo minore figlio, Mariano, succeduto nel frattempo per morte, al fratello Federico. Per l'altra i rappresentanti dei paesi e delle città sottoposte al re spagnolo. Le condizioni sottoscritte, contenevano le più ampie garanzie per lo scambio o la restituzione dei castelli e dei luoghi che passavano da una mano all'altra; fra queste le città di Sassari e di Villa Iglesias. Le rocche d'Osilo, di Longosardo (Castelsardo) e Sanluri, che dovevano ripassare in mano degli aragonesi. A causa della sovrabbondanza di cautele prese, però e, fra rottura di patti e loro rinnovo parecchio tempo trascorse, prima che la pace giungesse ad effetto sulle martoriate terre di Sardegna.
In ogni caso, è da notare, come indizio di buon governo civile dell'isola, il provvedimento preso di sottoporre ad un solenne giudizio di sindacato, ciascun anno, l'operato di tutti gli ufficiali del re, affinché si frenasse il loro arbitrio e si punissero gli abusi. Frattanto, il re d'Aragona desideroso di rinforzare, fortemente i castelli da trasferire sotto la sua potestà, alla presenza dell'ambasciatore d'Arborea, ratificò il suddetto trattato, portando ad effetto la rinuncia delle rocche cedute o scambiate e, finalmente ... la liberazione di Brancaleone Doria.
5.
Ritroviamo Brancaleone Doria, riassaporare la ritrovata libertà, in uno dei feudi attraversati dal Fiume Tirso, sdraiato supino in una delle sponde, nella compatta ombra formata dalla folta chioma di un albero: egli è solo con i suoi pensieri. E' estate e una leggera brezza che spira dal non lontano mare, rinfresca l'aria, sfiorando la superficie del lungo e largo serpente d'acqua e reca refrigerio alla calura; il lieve vento gli avvolge, piacevolmente la persona, scompigliandoli un po' i lunghi e ondulati capelli. Tutt'intorno, una bionda e sterminata piana e in lontananza le svettanti cime dei Monti Gennargentu da un lato e quelle dei Monti dei Sette Fratelli dall'altro. Senz'altro un'atmosfera rilassante, idonea alla meditazione; gli viene voglia perciò di scorrere in rassegna i fatti salienti della sua vita, cercando di capire in quale di questi si è comportato bene e in quali no, ma soprattutto d'individuare gli errori commessi per non ripeterli più.
Subito, irruppe alla coscienza, il rimorso di non aver avuto fiducia nella sua sposa, Eleonora e d'averla abbandonata con i figli, proprio nel momento che aveva più bisogno del suo sostegno; capì quanto era stato codardo e vigliacco nel concedersi agli spagnoli e cercato di vendere anche la famiglia e la patria. Decise, fermamente di redimersi, dedicandosi anima e corpo alla causa d'Eleonora, la quale, nonostante i dissidi, amava, ancora profondamente. Lo ritroviamo inginocchiato ai piedi della sua regina a chiederle perdono, proferirle parole d'amore e di fedeltà. Eleonora, sentì che era profondamente cambiato e sincero e con la gran magnanimità che la distingueva, le porse la sua mano e l'aiutò a risollevarsi asserendo: "Bentornato a casa!".
La loro alcova, dopo tanto tempo li accolse nuovamente insieme. La meditazione di Brancaleone non si limitò, però, soltanto a quanto sopra; si rivolse, anche al trattamento riservatogli dai reali d'Aragona. Alle blandizie usate per tenerlo buono e alle false promesse; alla prigionia con sorveglianza a vista, alla quale era stato sottoposto, quale infame ricatto per ottenere la sottomissione d'Eleonora. Gli bruciò l'animo la preferenza accordata dal re Don Giovanni a Donna Violante Carroz nella successione al feudo di Chirra, al quale lui aspirava molto e che gli era stato promesso. Tutto ciò considerato, unitamente al fatto che numerose navi genovesi solcavano i mari d'Arborea, le quali, certamente in caso di necessità, sarebbero accorse in favore di un loro conterraneo. Brancaleone, d'accordo con Eleonora, la quale riteneva la sua libertà e quella dei vassalli ancora incerta, ruppe, ancora una volta gli indugi e, improvvisamente mosse guerra ad Aragona.
Non s'era mai verificato il fatto di così tanta rapidità, con la quale si sviluppò il terrore e il successo delle armi d'Arborea: in breve tempo, Eleonora riconquistò tutto il Logudoro; nel frattempo, Brancaleone, rinvigorito dall'esempio di questa, si presentò a Sassari e ricondusse la città e il castello sotto il suo dominio e, riconquistò, anche la rocca d'Osilo. Cinse d'assedio altri castelli e convinse a ribellarsi contro il re d'Aragona gli abitanti della Gallura. Ottenne dei segreti accordi, per corrompere la fedeltà degli algheresi e intimorire gli abitanti di Chirra.
Preoccupato, il re spagnolo dalla repentina svolta dei fatti; conscio che dopo le tante stragi commesse, non c'era più nessun disposto a combattere per la causa aragonese, nominò nuovo governatore generale del regno, Raimondo di Montbuì. Ordinò a tutti coloro che possedevano feudi in Sardegna di trasferirvisi per assistere il nuovo governatore; furono rinforzate le guarnigioni di Cagliari, d'Alghero e d'altri castelli, spedendovi duecento balestrieri ed altrettanti lancieri, al comando d'Antonio di Podioalto e d'Arnaldo Porta, seguiti da Giordano da Tolono con nuove truppe e, da quattrocento soldati mercenari. Alcune galee furono trasferite dai mari di Sicilia in quelli di Sardegna, al fine d'assistere eventualmente i difensori delle fortificazioni costiere.
6.
Lo stesso re, si riprometteva di passare in Sardegna a capo di un poderoso esercito, ma ne fu distolto dalla guerra scoppiata col sovrano di Granata, perciò fu costretto a rinforzare soltanto le truppe di Cagliari, Acquafredda, Castelsardo e Alghero, nel quale fu spedito Rodrigo Ruiz con molte bande di cavalieri e fanti. Don Giovanni d'Aragona, con la mediazione di Giuliano di Garrius, suo tesoriere e consigliere, tentò un accordo con Brancaleone Doria, il quale, invece d'ascoltare le profferte di pace, assistito da alcune galee di Bonifacio in Corsica, pose l'assedio alla rocca di Castelsardo.
Questo fatto spinse Don Giovanni ad accelerare la sua venuta in Sardegna e già aveva scelto gli accompagnatori, quando ne fu, nuovamente distolto dalla ribellione dei siciliani; era inoltre assente la regina di Spagna, la quale di solito soggiornava nell'isola e, con i consigli della quale, egli governava. Il re, altro non poté badare che a nominare luogotenente per la Sardegna e la Corsica, il conte Arrigo della Rocca, gran suo partigiano fra i corsi. Questo, però ben poco concluse, all'infuori di portare un po' di soccorso alle truppe d'Alghero. Dove, Brancaleone Doria, non contento di gettare lo scompiglio nei dintorni della città, cinse d'assedio la rocca.
Al suddetto sovrano, allora, altro non rimase a compiere che nominare comandante generale dell'isola, Don Ruggero di Moncada; questo inviò alcune compagnie d'arme, le quali, dopo feroci combattimenti con numerose vittime, data la viva resistenza incontrata, riuscirono a far togliere l'assedio alla rocca di Castelsardo da parte delle truppe doriane.
Erano appena migliorate le cose per gli aragonesi con l'occupazione di detta rocca, quando il re Don Giovanni colto da improvviso malore decedeva. Gli successe suo fratello, Don Martino, ma non è, che con questo la situazione degli aragonesi migliorò. Le truppe di Brancaleone Doria, imperversarono in tutta la Sardegna, portando con loro, scompiglio e sconquasso, morte e terrore fra i nemici.
7.
Eleonora, costatato che le azioni di guerra procedevano così bene in mano a suo marito, volse il pensiero alla realizzazione di un sogno agognato a lungo e iniziato a realizzare dal padre: quello di formulare stabili norme giuridiche sui reati penali, sulle consuetudini, sul diritto civile e leggi a tutela dell'agricoltura. Riuscì a coronare questo suo sogno e a questo insieme di norme impose il nome di "Carta de Logu"; in altre parole, del Giudicato d'Arborea.
Questa carta fu persino estesa nel 1421 a tutto il Regno d'Aragona, dal parlamento del re, Don Alfonso. Ora è doveroso trarre alcune considerazioni, come quella che essa fu concepita in tempi di barbarie, quando popoli del settentrione d'Italia erano sotto la dominazione dei vandali invasori, sottoposti a leggi inumane e ingiuste.
Si lamenta che alcune pene previste da Eleonora furono eccessive, ma ciò non è d'addebitarsi alla legislatrice, ma ai tempi che non le permisero di stabilire diversamente. Ella, soltanto per queste dovette applicare una specie di "legge del taglione" che allora si riteneva la più idonea a soffocare certi delitti.
In detta carta, si rintracciano dei princìpi che ancora oggi si ritengono validi e si applicano nella società moderna.
Dette norme costituiscono un monumento di saggezza e di buon senno. Se ne citano alcune: La comminazione delle pene più gravi, per le quali si stabiliva " ... e per qualunque somma di denaro il reo non "iscampi". In altre parole, metteva sullo stesso piano gli abbienti e i poveri, rispetto al reato. Maggiore rispetto umano, riservando la pena capitale soltanto ai delitti di lesa maestà, all'omicidio premeditato, alle rapine pubbliche, al furto con scasso, incendi dolosi a case abitate, insulto e ferimento d'ufficiale della giustizia. Gli altri reati di qualsiasi natura erano puniti con pene pecuniarie e amputazioni d'arti, ragguagliati al detto "
occhio per lo stesso, dente per uguale organo". La legge relativa alle ingiurie, per le quali l'offeso doveva fornire la prova degli insulti o sottostava ad una multa: legge assai notevole, perché di freno ai mendaci. Concedeva, inoltre, nuove motivazioni d'inquisire all'autorità e di scoprire altri reati occulti. Il divieto di portare armi in tutti i luoghi pubblici o ritrovi. L'obbligo imposto ai possessori d'animali di marchiare il cuoio di questi con distinta impronta. L'obbligo di far conoscere in caso di vendita d'animali la loro provenienza. L'istituzione in ogni luogo abitato di un "giudicato", composto di un insieme di persone responsabili per la quiete e il bene pubblico, alle quali, sotto giuramento, con la minaccia di una multa, in caso d'inadempienza, era demandata la facoltà d'appurare i misfatti avvenuti nei luoghi sotto la loro giurisdizione e di fermare gli autori. Tale obbligo, in seguito s'estese a tutti gli abitanti d'ogni comune, perché, mancando la forza pubblica, le prerogative di questa furono demandate agli stessi cittadini, che ne godevano i benefici e come tali i più interessati a mantenere l'ordine e la giustizia e ad eliminare i malfattori.
Notevoli furono le norme che sancirono le formalità dei giudizi che si tenterà di tradurre. Trascritti ordinatamente gli atti del processo presentati dalle parti, gli scrivani pubblici dovranno leggerli alla presenza delle stesse e dei giudici. Questi, saranno quindi sollecitati dall'ufficiale regio, presidente del tribunale a pronunziarsi "
secondo che è usato e a rendere la ragione dovuta". I giudici dovevano giudicare, inoltre "
nella coscienza delle loro anime". I processi furono denominati "
Corona de Logu". Sovrastava a questa, quella che fu chiamata "di settimana", che si teneva, appunto, ogni sette giorni nella capitale e alla quale partecipavano i giudici delle diverse curie e altre persone a ciò destinate. C'era, infine, la maggiore che fu appellata "
Corona di Corte", composta dai consiglieri del sovrano chiamati "
savi di corte" o "
uditori dell'udienza suprema". Detta corte, oltre alle ordinarie incombenze, ebbe anche quella d'adunare tre volte l'anno tutti gli ufficiali del giudicato, affinché rendessero conto dei reati commessi in ogni luogo e sull'andamento dei processi.
Sono da ricordare: i provvedimenti inerenti alla comunione dei beni nei matrimoni celebrati senza istituzione di dote, perciò la moglie impalmata sotto i soli auspici dell'amore e della mutua fiducia fu considerata la socia delle cure e delle fortune domestiche. Tutti i figli, perciò, senza distinzione di sesso, furono ugualmente amati dai genitori.
I provvedimenti che stabilirono la perfetta uguaglianza tra fratelli e sorelle. Le ordinanze agrarie, indirizzate in particolare alla custodia delle vigne e dei poderi chiusi. L'obbligo ai notai di "passare" a repertori tutti gli atti pubblici e d'indicare gli emolumenti percepiti. Così si stabiliva, anche per gli ufficiali giudiziari, per le sentenze e i diritti percepiti. Tutto ciò per evitare eventuali abusi e poter effettuare le ricerche degli atti emanati, civili e giudiziari.
Le norme che regolarono il servizio nelle milizie del giudicato, il nerbo del quale era costituito, principalmente, dai cosiddetti "uomini liberi di cavalleria" e che dimostrarono, che Eleonora evitò di arruolare avventurieri e non convocò soltanto nei momenti di bisogno, "una turba d'individui senza ordinamento e disciplina". Ella badò alla cernita degli uomini migliori. Si preoccupò di addestrare i suoi cavalieri, che controllò con periodiche rassegne. L'obbligo imposto ai feudatari di segnalare per la nomina, i giurati delle loro ville, in modo che non ci fossero eccezioni al controllo degli uomini e delle cose appartenenti all'amministrazione della giustizia, la trascuratezza dei quali, privarono in altri paesi del migliore diritto della sovranità che è quello di proteggere, ugualmente tutti i suoi sudditi.
I costumi morali, ai tempi d'Eleonora dovevano essere alquanto corrotti (il concubinato era tollerato), perché pene severe furono comminate agli insidianti dei talami coniugali e del pudore delle vergini. Le stesse concubine che asportavano qualche oggetto senza consenso dalla casa del compagno, erano punite come se avessero commesso un furto. Eleonora, secondo l'opinione d'alcuni morì nel 1403, ma molto più probabilmente nel 1404, compianta universalmente e ammirata dai suoi sudditi. Purtroppo, i nostri avi, non hanno lasciato scritto ove sono sepolte le sue spoglie. Non, soltanto per recitare una prece o deporre un fiore in quel luogo, ma per erigerle un monumento nazionale che ben s'è meritato.
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