PROCURA GENERALE MILITARE PRESSO LA CORTE MILITARE D'APPELLO Ricorso immediato per cassazione avverso la sentenza di condanna del Tribunale militare di Roma, in data 22 luglio 1997, nel procedimento contro HASS Karl e PRIEBKE Erich, imputati del reato di concorso in violenza con omicidio aggravato e continuato in danno di cittadini italiani (artt. 13 e 185 c.p.m.g., in relazione agli artt. 81, 110, 575 e 577 nn. 3 e 4, e 61 n.4 c.p.).
1. Nella parte in cui concede attenuanti generiche (art. 62 bis c.p.) ad entrambi gli imputati, per erronea applicazione della legge penale (art. 606, I comma, lett. b, c.p.p.). Al fine di una corretta interpretazione delle disposizioni degli artt. 2 e 23 c.p.m.g., in tema di successiome di leggi penali, si sarebbe dovuto negare l'applicabilità al fatto del marzo 1944 della disposizione dell'art. 62 bis c.p., in quanto entrata in vigore successivamente (art. 2 d. lgs. lgt. 14 settembre 1944 n.28). La sentenza non manca, in verità, di dare corrette soluzioni a problemi di successione di leggi penali, di modo che ai fatti del marzo 1944 vengono applicati: l'art. 40 c.p.m.p. (adempimento di un dovere), nonostante l'abrogazione intervenuta nel 1978; l'originario art. 69 c.p. (concorso di circostanze aggravanti e attenuanti, senza tenere conto delle modifiche del 1974; l'originario art. 118 c.p. (valutazione delle circostanze aggravanti e attenuanti), senza considerare la riforma del 1990. Del tutto condivisibile è, del reato, la cadenza argomentativa che sul punto si coglie in sentenza: la legge penale militare di guerra è legge eccezionale, nel significato di cui al IV comma dell'art. 2 c.p.; per legge eccezionale non si intende soltanto quel nucleo essenziale di norme speciali (le incriminatrici e qualche altra) che fanno esplicito riferimento alla situazione eccezionale e contingente, quanto piuttosto l'insieme della normativa, anche di carattere generale, che nei vari profili concorre alla disciplina del fatto preso in considerazione dalla norma speciale; pertanto, il carattere di "ultrattività" (nel senso improprio di cui alla rubrica dell'art. 23 c.p.m.g.), di impermeabilità, per così dire, nei confronti della normativa successiva, sia meno favorevole (nell'art. 185 c.p.m.g. è pur sempre previsto l'omicidio non punibile perché commesso per "necessità" bellica o per "giustificato motivo"), sia più favorevole, senza dubbio compete alle specialissime disposizioni del codice penale militare di guerra; ma altrettanto alle disposizioni del codice di pace, che ai fatti previsti dalla legislazione di guerra si applicano in forza del richiamo dell'art. 19 c.p.m.p., ed anche alle disposizioni del codice penale, che si applicano per il richiamo dell'art. 16 c.p.. Giustamente la sentenza respinge ogni interpretazione che spezzi questa complessa unità dell'insieme normativo disciplinante il reato configurato dalla legge di guerra. Si potrebbe aggiungere che una diversa concezione, secondo cui "ultrattive" risulterebbero esclusivamente le norme incriminatrici, sarebbe da condividere soltanto qualora, piuttosto che tout court di "leggi eccezionali o temporanee" (art. 2 citato), si parlasse di "disposizioni penali...e (di) quelle che prevedono ogni altra violazione di legge", come per l'"ultrattività" in materia penale finanziaria dispone l'art. 1 L. 7 gennaio 1929 n.4. Si viola, dunque, la legge penale con la concessionedelle attenuanti (artt. 62 bis) introdotte nel codice penale in epoca successiva al fatto; soluzione, del resto, dissonante anche rispetto ai corretti principi affermati in sentenza. La soluzione particolare per le attenuanti generiche, diversa da quella adottata per le altre modifiche della legislazione penale, viene peraltro giustificata dal fatto che l'art. 62 bis è stato sì introdotto dopo il fatto del marzo 1944, ma ancora durante la vigenza della legge penale militare di guerra, la cui applicazione è cessata soltanto il 15 aprile 1946. Si tratterebbe, dunque, di successione di leggi eccezionali, nel senso che il sopravveniente art. 62 bis, per i richiami degli artt. 19 c.p.m.p. e 16 c.p., viene a far parte del complesso insieme normativo, che per la situazione di eccezione detta una disciplina in parte diversa da quella vigente al momento del fatto; successione in cui -così si ritiene in sentenza - dovrebbe avere piena applicazione il principio della retroattività della legge più favorevole, a norma del III comma dell'art. 2 c.p.. Ritiene, tuttavia, questo ricorrente che né la lettera, né la ratio del citato IV comma dell'art. 2, con cui si vuole salvaguardare l'efficacia intimidatrice della legge eccezionale, consentano distinzioni di sorta nell'ambito della jus superveniens, che in ogni caso deve considerarsi non applicabile al fatto in precedenza commesso. Del resto, tra le rare pronunce giurisprudenziali che si conoscono in materia, si coglie proprio un'incondizionata negazione della retroattività della sopravveniente legge eccezionale più favorevole (Cass. 19 dicembre 1941, in Giust. pen. 1942, III, 132 s.). Ma, anche a voler ammettere deroghe a quest'orientamento, va comunque considerata la dottrina secondo cui l'"ultrattività" viene meno solamente a condizioni particolari, individuate nella sopravvenienza non già di qualsiasi norma penale, bensì di altra "legge intesa a regolare la medesima materia sempre in aderenza allo stato di eccezione e con stretto riferimento ad esso". In questo ambito, altrettanto esplicita è la pronuncia, secondo cui, sempre in caso di successione di leggi eccezionali, il principio della retroattività della legge più favorevole si applica "se la legge posteriore ha carattere soltanto di maggiore organicità rispetto alla prima, allo scopo di rendere la norma aderente alle stesse esigenze di prima" (Cass. 1° marzo 1943, in Giust. pen. 1943, III, 269 c.). E quindi, anche se si dovesse accogliere in materia un orientamento possibilista, non ne potrebbe derivare l'applicabilità retroattiva dell'art. 62 bis c.p., in quanto disposizione che, sia pur introdotta in tempo di guerra, e per ciò compresa nel novero delle "leggi eccezionali" nel significato di cui all'art. 2 c.p., di certo non era precipuamente intesa a regolare la situazione di eccezione.
2. Nella parte in cui concede l'attenuante prevista dall'art. 59, I comma n.1, c.p.m.p. ad entrambi gli imputati, per erronea applicazione della legge penale (art. 606, I comma, lett. b, c.p.p.). La sentenza in fatto accerta che, a seguito dell'attentato di via Rasella, il ten. col. KAPPLER ha riunito il 24 marzo 1944 gli ufficiali suoi dipendenti, e nell'occasione stabilito, essendo senza dubbio già noto l'ordine del FUEHRER secondo cui doveva procedersi all'uccisione di dieci italiani ogni tedesco, che il ten. PRIEBKE partecipasse all'azione criminosa sin dalla preparazione, mentre il magg. HASS vi concorresse nelleoperazioni finali, per essere di esempio alla truppa in un compito tanto gravoso e disumano. Accerta inoltre che nessuna benché minima obiezione v'è stata in quel momento, né successivamente, né da parte di PRIEBKE, né di HASS, e che per ciò il comandante KAPPLER non ha svolto nei loro confronti, a differenza che nella fase finale all'indirizzo del cap. WETJEN, alcuna attività di persuasione all'esecuzione dell'ordine, né di semplice conferma del medesimo; tanto meno li ha minacciati di fucilazione immediata in caso di disobbedienza, né di deferimento al giudizio del Tribunale militare. E la ricostruzione del giudice di primo grado, del reato, è perfettamente congrua ad altre risultanze, pure acquisite in sentenza: PRIEBKE ed HASS erano zelanti ufficiali SS, fedeli ai principi del nazismo, e ben partecipi del Fuehrerprinzip, per cui la disposizione di HITLER non era semplicemente un ordine, bensì assumeva dignità di atto normativo, anzi del vertice delle fonti del diritto. Per questi passaggi della tragica vicenda, appare evidente che la concessione dell'attenuante della determinazione al reato da parte del superiore denuncia un'erronea applicazione dell'art. 59, I comma n.1, c.p.m.p. Nella legge penale militare non si è affatto inteso attenuare la responsabilità dell'inferiore per il solo fatto che sia concorso nel reato con il superiore. Il semplice dato del concorso tra superiore e inferiore viene, invece, ad aggravare la responsabilità del superiore (art. 58, I comma, c.p.m.p.). Nemmeno si è voluto attenuare la responsabilità dell'inferiore per il solo fatto che abbia commesso il reato su ordine del superiore. In tal caso, trattandosi di ordinamento che già conosce singolari fenomeni quali la legittima difesa come attenuante (art. 42, IV comma, c.p.m.p.) e un'attenuante di eccesso doloso (art. 58, I comma, c.p.m.p.), si sarebbe senza difficoltà delineata l'attenuante per l'inferiore che abbia commesso "un fatto costituente reato per ordine del superiore o di altra autorità (art. ex art. 40 c.p.m.p., ora abrogato). Per aversi la determinazione al reato da parte del superiore non basta, dunque, il mero concorso con lo stesso; ma nemmeno, come dimostra di ritenere la sentenza, che il superiore abbia semplicemente notificato un ordine proprio o altrui a subordinati incondizionatamente partecipi e disposti ad un certo tipo di obbedienza. Occorre, invece, qualcosa di più di una normale espressione dell'organizzazione gerarchica, che porta all'esecuzione senza difficoltà degli ordini legittimi e spesso anche degli ordini costituenti reato. E dunque, per la sussistenza della determinazione che dà vita all'attenuante, è necessario che il superiore si sia trovato di fronte ad un iniziale rifiuto di obbedienza, o anche a qualche obiezione del subordinato, e che per ciò si sia egli indotto, nell'esercizio della sua autorità, ad un'attività di convincimento nei confronti del medesimo. Solo a queste condizioni può dirsi che il superiore abbia determinato l'inferiore, abbia creato in lui l'intenzione di commettere il reato. Del resto, nella fattispecie per molti aspetti analoga dell'aggravante dell'art. 112, I comma n.3, c.p., non si dubita che "...non è sufficiente che sia posta in essere qualsiasi forma di determinazione, ma è necessario che la persona che gode di poteri di autorità, direzione o vigilanza abbia fatto leva proprio su tali poteri per esercitare una vera e propria coazione psicologica sul dipendente, determinandolo così al reato" (Cass., 25 gennaio 1962, Cass. pen., Mass. 62, 1064).
3. Nella parte in cui concede ad HASS l'attenuante prevista dall'art. 59, I comma n.2, c.p.m.p., per inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità o decadenza (art. 606, I comma, lett. c, c.p.p.), e per erronea applicazione della legge penale (art. 606, I comma, lett. b, c.p.p.). Si concede ad ha HASS l'attenuante della minima partecipazione al reato (art. 59, I comma n,1, c.p.m.p.), nonostante, come nella stessa sentenza si riconosce, ricorrano talune delle condizioni ostative indicate nell'art. 58 c.p.m.p., e più particolarmente le circostanze aggravanti del concorso con inferiore (art. 58, I comma), e del concorso di cinque o più persone (art. 112, I comma n.1, c.p.). Singolare decisione, adottata nella considerazione che le dette due aggravanti non sarebbero enunciate nel decreto che dispone il giudizio. In verità, nella pur succinta imputazione, che non indica sul punto le disposizioni violate, le due aggravanti risultano ugualmente contestate: la prima in quanto vi è indicato che il magg. HASS è concorso nel reato con l'inferiore ten. PRIEBKE; la seconda perché il reato è descritto come posto in essere in concorso da non meno di cinque persone: KAPPLER, HASS, PRIEBKE e "altri militari tedeschi", e quindi due o più. Ma, anche volendo prescindere da questi ultimi rilievi, non v'è dubbio che la concessione dell'attenuante sia frutto di un'indebita estensione del principio di garanzia degli artt. 417, 429, 517, 520, 521 e 522, c.p.p., e di inosservanza della basilare disposizione dell'art. 2 c.p.p., secondo cui la cognizione del giudice riguarda ogni questione da cui la decisione viene a dipendere. Ora, pur essendo vero in caso di mancata contestazione dell'aggravante non se ne può tenere conto per aumentare la pena, la cognizione del giudice, ad ogni altro fine, e quindi anche per la decisione sulla sussistenza di un'attenuante, comunque deve riguardare ogni elemento di fatto influente sulla decisione, compresi quelli corrispondenti ad aggravanti non considerate nel decreto di rinvio a giudizio. Ne sarebbe ugualmente derivata, come nella stessa sentenza si riconosce, la non applicabilità dell'attenuante dell'art. 59, I comma n.2, c.p.m.p.
4. Nella parte in cui non si pronuncia sulle aggravanti previste dagli artt. 58, I comma, c.p.m.p., e 112, I comma n.1, c.p., per inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza (art, 606, I comma, lett. c, c.p.p.), e per inosservanza della legge penale (art. 606, I comma, lett. b, c.p.p.). Come già detto nel n.3, risultavano contestate, sia pur con l'irregolarità dell'omessa indicazione delle corrispondenti disposizioni di legge, ad HASS l'aggravante del concorso con inferiore (art. 58, I comma, c.p.m.p.), e ad entrambi quella del concorso nel reato di cinque o più persone (art. 112, I comma n.1, c.p.). La sentenza non si pronuncia al riguardo, in violazione delle norme degli artt. 1, I comma, e 533, I comma, c.p.p., e con la conseguenza inoltre dell'inosservanza delle legge penale. Non può, invece, considerarsi contestata a PRIEBKE l'aggravante dell'art. 58, I comma, c.p.m.p., in quanto dall'imputazione non risulta che tra i militari con cui egli è concorso nel reato vi fossero degli inferiori in grado.
5. Nella parte in cui concede ad entrambi il condono nella misura di anni dieci, per inosservanza della legge penale (art. 606, I comma, lett. c, c.p.p.). La sentenza dichiara condonata la pena inflitta agli imputati nella misura di anni dieci, in applicazione di sei decreti indulgenziali (d.P.R. 4 giugno 1966, n.432; d.P.R. 22 maggio 1970, n.283; d.P.R. 4 agosto 1978, n.513; d.P.R. 18 dicembre 1981, n.744; d.P.R. 16 dicembre 1986, n.865; d.P.R. 22 dicembre 1990, n.934), senza tuttavia fornire una benché scheletrica indicazione sulle modalità di raggiungimento di quel risultato. Totale, del resto, che non è conseguenza automatica di sei provvedimenti di clemenza, dal momento che la maggior parte tra questi prevede la possibilità del condono di un anno, invece che nella misura di anni due. Il ricorrente, sull'applicabilità dei citati decreti di indulto, e sulla quantità della corrispondente riduzione di pena, ritiene di dover rilevare le seguenti violazioni di legge. Quanto al decreto del 1966, che è il primo dei provvedimenti indulgenziali che non esclude il condono per ogni reato militare compreso nella categoria "contro le leggi e gli usi della guerra", appare evidente come la concessione del condono per il reato de quo si ponga in violazione dell'art. 2, lett. c, nel quale si escludono i reati previsti dagli artt. 575, 576 e 577 c.p. Non è infatti dato di dubitare, anche a voler prescindere da un minimo di razionalità, che nella previsione rientri anche il plurimo omicidio delle Fosse Ardeatine, in quanto gli articoli citati nel codice comune non forniscono al reato militare dell'art. 185 c.p.m.g. solamente il trattamento sanzionatorio, come vorrebbe il giudice di primo grado, bensì il precetto intero e le aggravanti specifiche, secondo una tecnica ben nota ed adottata anche per altre figure di reato nei codici militari (ad es. artt. 186, 195 224, ecc. c.p.m.p.). Il che si coglie, naturalmente, nel testo stesso dell'art. 185, II comma, che si riferisce all'omicidio e alla lesione grave e gravissima, senza tuttavia delineare, e quindi con richiamo integrativo alle corrispondenti disposizioni comuni, tra cui quelle citate, la cui violazione esclude il condono. Quanto al decreto del 1970, valgono le medesime considerazioni, che tuttavia conducono al risultato del condono nella misura di un solo anno, anziché due, come disposto dall'art. 6, V comma. Pertanto, la concessione del condono viola quest'ultima disposizione, nella parte in cui viene disposto, eventualmente, nella misura di anni due. Deve notarsi, inoltre, che un'altra violazione può profilarsi in via subordinata: a norma dell'articolo medesimo, II comma, il condono va ugualmente contenuto in un anno, se per il reato viene applicato il precedente indulto del 1966. Quanto al decreto del 1978, valgono ancora le medesime considerazioni, che però in questo caso approdano, come per il decreto del 1966, alla totale esclusione dal condono. Il combinato disposto degli artt. 6, II comma, e 7, I comma, i quali dunque vengono violati dalla concessione del condono, prevede infatti la esclusione dei reati di omicidio, salvo il caso di sussistenza di taluna delle attenuanti di cui all'art. 62 nn.1 e 2 c.p. Anche in questo caso, si profila poi in via subordinata l'ulteriore inosservanza della legge a norma del medesimo art. 6, III comma: il condono deve essere contenuto in un anno, se per il reato viene concesso un precedente decreto di indulto. Quanto al decreto del 1981, si tratta negli aspetti qui rilevanti della copia del precedente. Le disposizioni violate con la concessione del condono sono quelle degli artt. 6, II comma, e 7, I comma. Nel III comma del medesimo art. 6 si riproduce inoltre la regola sopra citata, la cui violazione viene proposta in via subordinata, del condono nella misura di un solo anno. Quanto al provvedimento del 1986, ancora una volta ne risulta l'esclusione del reato de quo, perché compreso nella categoria dell'omicidio. Sul punto, nel decreto compare persino un'interpretazione autentica: nell'art. 8 si esclude l'"art. 575 (omicidio), salvo quanto disposto nel comma 2 dell'art. 6...", e in quest'ultimo si dispone il condono ridotto ad un anno a determinate condizioni "per i reati di omicidio volontario previsti dal secondo comma dell'art. 186 e dal secondo comma dell'art. 195 del codice penale militare di pace". E dunque dallo stesso legislatore sono qualificati di omicidio questi ultimi reati, strutturati rispetto agli artt. 575 e segg. c.p. con la stessa tecnica dell'art. 185 c.p.m.g.; inoltre, la disposizione che li riguarda opera, per lo stesso tenore letterale, in deroga al principio dell'art. 8 in tema di "omicidio". Ne risulta autenticamente stabilita la sussunzione del reato de quo, come di ogni altro configurato con l'integrazione degli artt. 575 e segg. c.p., nel novero dell'omicidio, e quindi nell'ambito della totale esclusione dal condono. La sentenza viola per ciò le citate disposizioni degli artt. 8 e 6, II comma. Per quanto infine concerne il decreto del 1990, si ritiene di non dover formulare alcuna valutazione critica. P. Q. M. Letti gli artt. 569, 570, 606, 623 e 624 c.p.p.; C H I E D E
che la Corte di Cassazione pronunci l'annullamento, nelle parti impugnate, della sentenza del Tribunale militare di Roma, in data 22 luglio 1997, nel procedimento contro HASS Karl e PRIEBKE Erich, con rinvio del giudizio ad altra sezione del medesimo Tribunale. Roma, 2 ottobre 1997 IL PROCURATORE GENERALE MILITARE f.f. - Giuseppe ROSIN -
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