Fornovo 6 Luglio (1495)
by Gianfranco Cimino - 05/07/03
Introduzione
Accolgo un po' a malincuore l'invito di Lorenzo e LB a scrivere qualcosa
della battaglia di Fornovo (1495) perché essa, prima di una lunga serie
di sconfitte inflitteci da forze straniere, segna l'inizio della fine
dell'indipendenza degli Stati italiani: nel giro di poco più di 50
anni, l'unico stato italiano di una certa rilevanza internazionale
rimasto indipendente, ma a costo dell'abbandono della sua politica di
espansione in Italia, sarebbe stata la gloriosa Repubblica di Venezia.
Stranamente però questa battaglia è ignorata dai più, tanto è vero che
essa è comunemente considerata, a torto, un "pareggio", mi si perdoni il
paragone calcistico, o addirittura una vittoria italiana.
C'è un altro motivo, che ai più parrà buffo, per cui "sento"
particolarmente questa battaglia: il comandante in capo delle forze
italiane aveva il mio stesso nome di battesimo: Gian Francesco (io più
modernamente mi chiamo Gianfranco), e mai un Gianfranco ebbe una tale
importanza nella storia del nostro Paese, e così palesemente fallì.
Così, se mi fosse dato di poter partecipare ad una battaglia del
passato, vorrei ritornare indietro a quel fatidico giorno di Luglio del
1495 (ma alla testa della Legione Nera di Abbadon il Massacratore – i
fan di Warhammer 40.000 di questo NG mi capiranno ?).
Nel post non mi soffermerò però tanto sulla battaglia, quanto
sull'analisi delle cause profonde di una tale sconfitta e più in
generale del "malessere militare" italiano di quegli anni.
Dovrò anche tralasciare, per motivi di tempo e di spazio, sui vari tipi
di truppa coinvolti nello scontro, discorso peraltro complicato ma
interessantissimo.
In particolare l'ordine di battaglia varia a seconda delle fonti da me
consultate, ma, nell'ambito dell'economia generale della battaglia,
queste discrepanze possono essere considerate secondarie.
La campagna
La velocità e la facilità con cui l'esercito di Carlo VIII aveva
compiuto la sua impresa italiana, conclusa con la conquista di Napoli
nel febbraio 1495 (ricordiamo la frase del Macchiavelli, «pigliare
l'Italia col gesso») spaventò e costrinse alla fine all'azione Venezia
ed il Ducato di Milano, timorosi di una completa egemonia francese
sull'Italia, se non si fosse trovato il modo di fermare Carlo VIII.
Il 31 Marzo dello stesso anno nacque a Venezia la "Lega di Venezia" di
cui facevano parte Venezia, Ludovico Sforza duca di Milano detto "Il
Moro", il Papato ed altri Stati italiani minori, nonché,
significativamente, Ferdinando "Il Cattolico" re di Castiglia e
Massimiliano I d'Asburgo Imperatore.
Il comando degli eserciti della Lega, in gran parte assoldati da
Venezia, fu affidato a Gian Francesco III Gonzaga marchese di Mantova,
con l'obiettivo di espellere i Francesi dall'Italia.
Oramai le forze della Lega minacciavano le isolate guarnigioni francesi
che difendevano le comunicazioni con la Francia, e Carlo VIII non ebbe
altra scelta che quella di abbandonare Napoli (20 Maggio 1495), e
risalire la penisola verso il suo Regno, proclamando che non cercava
nuove conquiste, ma solo un rapido rientro in patria.
Forse la Lega di Venezia si sarebbe accontentata di una rapida ritirata
francese dall'Italia, ma l'eventualità di una possibile penetrazione in
Italia di un secondo esercito francese, e l'appoggio dato da Carlo VIII
ai Pisani in lotta con Firenze, spronò le forze militari della Lega
all'azione.
Gian Francesco Gonzaga radunò (Giugno 1495) le proprie forze per
sbarrare il passo al francese, mentre le forze navali della Lega
precludevano una possibile ritirata di Carlo VIII via mare, attraverso
Genova.
Carlo VIII intraprese quindi una ritirata via terra, resa più difficile
dal suo treno d'artiglieria e dal numeroso bottino raccolto nella sua
campagna italiana, prese Pontremoli, superò il passo della Cisa, scese
nella valle del Taro ed il 5 Luglio le sue forze raggiunsero il
villaggio di Fornovo sul Taro, dove trovarono l'esercito della Lega a
sbarrare loro la strada.
I Francesi occuparono Fornovo ed il mattino dopo (la notte aveva piovuto
abbondantemente) levarono il campo, attraversarono il Taro, guadagnando
la riva occidentale occidentale, e si diressero verso nord lungo una
strada secondaria.
L'esercito della Lega era accampato a cavallo della strada principale,
sul banco orientale del fiume, e Gian Francesco Gonzaga colse
l'occasione per attaccare l'esercito nemico, rallentato dall'ingombrante
treno logistico e dall'azione della cavalleria leggera della Lega,
attaccando attraverso il fiume.
Era il pomeriggio del 6 Luglio 1495 quando la battaglia di Fornovo
cominciò.
La battaglia
La situazione, al pomeriggio del 6 Luglio 1495 era dunque la seguente:
L'esercito francese, che avanzava verso nord sul banco ovest del Taro,
era diviso in avanguardia (al comando del maresciallo Pierre de Rohan
sire di Giè), centro (al comando di Carlo VIII in persona) e
retroguardia (comandata da Louis II de la Trémoille detto "Le Chavalier
Sans Reproche").
L'avanguardia comprendeva 400 – 500 cavalieri pesanti (cavalleria
destinata all'urto ed armata di lancia pesante, dotata di corazza a
piastre e bardatura metallica) tra i quali anche gli Italiani del
Trivulzio e gendarmi d'ordinanza francesi , supportati da circa 500
arcieri (arcieri montati, più simili a cavalieri pesanti che tiratori,
in questo periodo) e circa 3.000 Svizzeri, per la maggior parte
picchieri, ma anche alabardieri e fanteria leggera.
Lungo il Taro era inoltre disposta la moderna artiglieria francese,
circa una sessantina di pezzi ed un migliaio di addetti.
Il centro comprendeva la guardia reale, formata dai cavalieri pesanti
della Guardia (gli Arcieri Scozzesi) e dai gentiluomini del seguito
personale del Re e gendarmi d'ordinanza (in tutto circa 300 – 400
cavalieri pesanti) nonché da balestrieri a cavallo francesi (300 – 400
in tutto).
La retroguardia comprendeva circa 300 gendarmi d'ordinanza, supportati
dai soliti arcieri montati (circa 600); inoltre, alla sinistra di essa,
lungo i monti, avanzavano le salmerie, con il ricco bottino della
campagna.
A seconda delle fonti è segnalata la presenza di fanteria
(principalmente tiratori, specie balestrieri mercenari francesi ma anche
picchieri appartenenti alle "vecchie bande", tratte dal corpo dei Francs
– archers) nel centro e nella retroguardia francese, in tutto comunque
l'esercito francese non superava i 9.000 – 10.000 uomini.
Da notare che tra i Francesi combattevano anche numerosi italiani, quali
Ferrante d'Este (figlio di Ercole I d'Este duca di Ferrara, e fratello
di Isabella d'Este, moglie di Gian Francesco Gonzaga – vatti a fidare
dei cognati !!) Paolo Vitelli, Francesco Secco, Battista Fregoso e
Camillo Secco, una situazione questa che si verificherà molto, troppo
spesso durante le cosiddette guerre italiane del XVI sec.
Tra gli Italiani notevole la presenza di Pico della Mirandola.
Lo schieramento italiano era più articolato, avendo Gian Francesco
Gonzaga scelto un piano di battaglia abbastanza complesso.
L'esercito, forte di circa 20.000 uomini (25.000 secondo altre fonti)
era diviso in ala destra, comandata da Gianfrancesco (un altro !!)
Sanseverino conte di Caiazzo, assoldato dal Ducato di Milano, schierato
nei pressi del guado di Gairola; centro, comandato da Gian Francesco
Gonzaga schierato nei pressi del guado di Oppiano ed ala sinistra,
schierato nei pressi dei guadi di Gualatico e Ozzano guidata da
Bernardino Fortebraccio, comandante in capo delle forze veneziane;
quest'ultima "battaglia" era appoggiata da una forza autonoma di
cavalleria leggera.
Inoltre ciascuna di queste tre "battaglie" aveva una riserva (ala
destra, comandante Annibale Bentivoglio; centro, comandante Antonio da
Montefeltro ed ala sinistra).
Infine a guardare il campo della Lega rimanevano circa 1.000 fanti
scelti veneziani e 600 cavalieri pesanti.
Non arrivarono invece in tempo per prendere parte alla battaglia
l'artiglieria pesante veneziana, 3.000 cernite Veneziane e 1.000 cernite
Friulane (le cernite erano una milizia veneziana non molto addestrata).
Come dicevo, il piano di Gian Francesco Gonzaga era piuttosto elaborato.
L'ala destra (circa 800 cavalieri pesanti, 1.700 fanti ducali Milanesi,
300 picchieri tedeschi e l'artiglieria) aveva il compito di bloccare la
colonna francese, tenendo impegnati i temibili svizzeri.
Nel frattempo doveva avere luogo lo scontro principale, tra gli uomini
di Gian Francesco Gonzaga (500-600 cavalieri pesanti, 500-600
balestrieri montati e circa 5.000 fanti veneziani), ed il centro
francese, che doveva essere scompaginato e spinto contro le alture
retrostanti.
A completamento di questa manovra, le forze di Bernardino Fortebraccio
(circa 500 cavalieri pesanti) avrebbero dovuto attaccare la retroguardia
francese, che, contemporaneamente avrebbe dovuto essere attaccata sul
fianco opposto dalla cavalleria leggera della lega (circa 1.500 tra
stradioti e balestrieri a cavallo agli ordini di Pietro Duodo).
In appoggio alle varie "battaglie" la riserva di cavalleria (circa 1.000
– 1.500 cavalieri pesanti divisi tra ala destra, centro ed ala
sinistra), sarebbe dovuta intervenire, ma solo su ordine esplicito di
Rodolfo Gonzaga, zio di Gian Francesco e veterano delle guerre svizzero
- borgognone, nel momento e nel posto più adatto.
L'attacco della Lega cominciò a metà pomeriggio, con l'avanzata dell'ala
destra del Caiazzo contro l'avanguardia nemica; il tiro
dell'artiglieria francese non sortì molto effetto, forse a causa del
terreno bagnato che impediva il rimbalzo dei proiettili.
Ma gli Svizzeri erano un nemico temibile, e prima respinsero gli
attacchi degli Italiani contro l'artiglieria, poi misero in fuga
l'intera "battaglia" del Caiazzo. Il compito dell'avanguardia francese fu facilitato dal fatto che il centro italiano, a causa del livello del Taro, insolitamente alto per
le piogge recenti, aveva dovuto guadare più a monte, vicino alle
posizioni dell'ala sinistra del Fortebraccio, in ritardo sui tempi
previsti, e lasciando esposto il proprio fianco destro.
Quivi si svolse la parte principale della battaglia, principalmente uno
scontro tra cavallerie pesanti: dopo poco più di un'ora di
combattimenti, anche le truppe di Gian Francesco Gonzaga furono respinte
oltre il fiume.
Non andarono meglio le cose all'ala sinistra italiana: la cavalleria
leggera compì la propria manovra avvolgente, portandosi sul retro del
dispositivo francese, ma, dopo una schermaglia coi Francesi, si
gettarono sulle salmerie del nemico, assieme alla cavalleria leggera ed
a parte dei fanti del comando di Gian Francesco Gonzaga Fortebraccio,
rimasto isolato, dovette ritirarsi.
Gli ultimi vani attacchi Italiani furono condotti dal Conte di
Pittigliano; le riserve invece, non intervennero mai: Rodolfo Gonzaga
era morto all'inizio della battaglia.
I Francesi, forse paghi del successo, forse consci della propria
inferiorità numerica, preferirono non inseguire gli Italiani e si
sganciarono con il favore della notte: Carlo VIII era riuscito, ed anche
abbastanza facilmente, nel suo intento principale: riportare il nucleo
del proprio esercito, artiglieria compresa, intatto, oltralpe.
Nello scontro persero la vita un migliaio di Francesi ed un numero
pressoché doppio di Italiani. Ambedue le parti rivendicarono la vittoria, e tale fu (ed è ancora) considerata da molti Italiani; Macchiavelli, lucidamente, la considerò
una vittoria francese, mentre l'Ariosto, più prosaicamente, considerò
Gian Francesco, se non vincitore, almeno non vinto.
Tecnicamente parlando Fornovo fu una cocente sconfitta per la Lega, e ne
segnò la fine politica: lo scopo principale degli Italiani era impedire
a Carlo VIII di tornare sano e salvo col suo esercito in Francia, e non
fu raggiunto; inoltre la debolezza ed inadeguatezza della reazione
italiana, e dal punto di vista militare, e da quello politico, fu un
incoraggiamento per ulteriori aggressioni, che puntualmente avvennero:
già nel 1499, solo quattro anni dopo, Luigi XII, succeduto a Carlo VIII,
prendeva il Ducato di Milano.
Analisi della battaglia
A prima vista la battaglia di Fornovo sembra una delle tante sconfitte
subite dalle armi italiane cui applicare il detto "mancò la fortuna, non
il valore": il Taro in piena (a Luglio !!) che ostacola la manovra e
l'impeto delle truppe della Lega, Rodolfo Gonzaga che muore prima di
poter dare ordine alle riserve di muovere, quando la mischia al centro è
ancora in bilico, gli Stradioti che invece di completare una micidiale
manovra di avvolgimento si danno al saccheggio, in ultimo l'episodio in
cui alcuni cavalieri italiani giungono nelle vicinanze di Carlo VIII,
senza tuttavia poterlo catturare o uccidere (cosa che avrebbe
automaticamente reso Fornovo un grosso successo italiano, una Pavia ante
litteram), a causa della reazione della sua Guardia.
Ma fu davvero così?
Si potrebbe d'altronde dire che il piano di Gian Francesco è forse fin
troppo articolato per poter essere eseguito con successo da un esercito
composito come quello della Lega (l'attrito della manovra
), e che
avrebbe dovuto essere cambiato, visto lo stato del terreno, che
l'affidare ad uno dei comandanti direttamente (e fin da principio)
coinvolto in prima persona nello scontro la manovra delle riserve è
azzardato, che gli Stradioti non erano mai stati fino ad allora famosi
per affidabilità e disciplina, che Gian Francesco Gonzaga (il quale,
come abbiamo capito, non era né un Ezio né uno Scipione l'Africano)
riuscì a far arrivare al combattimento solo una parte del suo esercito
(e quella parte tra l'altro, combattendo valorosamente, subì perdite
abbastanza alte), vanificando la superiorità numerica della Lega. Ma se scendiamo ancora più in profondità con la nostra analisi, vediamo che ci sono altre cause che spiegano la giornata di Fornovo, senza tirare in ballo la fortuna.
Se paragoniamo i due eserciti, quello della Lega e quello Francese, ci
rendiamo conto che essi sono molto differenti; non che voglia asserire
che ci troviamo davanti ad un esercito prettamente medievale (quello di
Gian Francesco Gonzaga) ed a un esercito già pienamente rinascimentale
(quello di Carlo VIII), come a torto asserito da alcuni, ma certo i due
eserciti sono impostati molto differentemente.
Quello Francese è caratterizzato da avere la prima artiglieria veramente
"moderna", ippotrainata, con bocche da fuoco tecnicamente
all'avanguardia, standardizzate, che tirano palle in ferro; è vero che
nella battaglia di Fornovo, a differenza che, ad es. a Ravenna, essa non
è affatto decisiva, ma è pur vero che senza di essa la campagna di Carlo
VIII non sarebbe stata così veloce e decisiva (basta riandare ai
commenti formulati da Guicciardini e Macchiavelli sullo shock provocato
dall'artiglieria francese).
Da questo punto di vista la Lega è ancora indietro.
Poi, ugualmente importante, l'esercito francese schiera una fanteria
d'urto, quella Svizzera, che non solo è la migliore allora disponibile
in Europa, ma contro la quale l'esercito della Lega non può opporre
nulla (ed è per questo forse, che Gian Francesco è costretto ad una
manovra così articolata).
Resta quindi il dubbio che se anche il piano di Gian Francesco Gonzaga
avesse avuto successo, difficilmente gli Svizzeri sarebbero stati
sgominati, più probabilmente si sarebbero ritirati combattendo, magari
proteggendo Carlo VIII tra i loro ranghi.
Forse la risposta migliore sarebbe stata smontare la cavalleria pesante
per attaccare a piedi le picche svizzere, come già aveva fatto il
Carmagnola ad Albedo molti anni prima.
E' vero che anche l'esercito della Lega contiene molta fanteria, ma
questa fanteria è principalmente leggera oppure una fanteria da tiro
(soprattutto balestrieri) inadatta a sostenere una mischia prolungata,
con una fanteria o una cavalleria d'urto, solo qualche centinaio tra i
soldati della Lega sono infatti armati di picche, alabarde o targa e
spada.
Oltre l'avvento dell'artiglieria, anche il sorgere di una nuova potente
fanteria è segno dei tempi che cambiano, anzi, l'ascesa della fanteria è
un fenomeno più "vecchio" rispetto al rinnovamento dell'artiglieria, ma
neanche essa è stata recepita in Italia, nonostante la lezione delle
guerre Svizzero – Borgognone. Quindi potremo dire che mentre l'esercito della Lega, se non antiquato, era ancora un esercito legato in qualche misura al passato, anche se
presentava elementi di novità (ad es. l'uso della cavalleria leggera)
l'esercito francese era già proiettato nel futuro.
Né la carenza nelle due armi di cui ho detto poteva essere bilanciata da
una decisa superiorità nella cavalleria.
La cavalleria pesante italiana non era, uomo contro uomo, affatto
inferiore a quella francese (Barletta docet), ma, in campo, soffriva la
carica in massa, su un singolo rango, della cavalleria d'oltralpe, che
per il suo superiore elan era considerata allora la migliore al mondo.
Infatti la cavalleria italiana, sotto i condottieri, aveva sviluppata
una sua particolare tattica, che consisteva nel caricare con pochi
squadroni alla volta, che venivano ritirati e sostituiti con altri
freschi, tattica ragionevole questa, ma che a Fornovo non funzionò per
il mancato intervento delle riserve.
Inoltre la cavalleria pesante italiana fu ostacolata dal dover
attraversare a guado un corso d'acqua non facile prima di arrivare a
contatto della cavalleria nemica.
In quanto alla cavalleria leggera italiana, Stradioti soprattutto, essa
era chiaramente superiore a quella francese, ma forse, in
quest'occasione, fu chiesto loro troppo, dopo tutto si trattava ancora
di un corpo indisciplinato, più adatto alle schermaglie della guerra di
frontiera che alla battaglia campale.
Certo essa era uno degli elementi di maggior novità presente
nell'esercito della Lega, ed infatti fu ampiamente copiata da tutti i
contendenti nel corso delle Guerre Italiane.
La crisi militare italiana nel Rinascimento
Una vecchia visione dell'arte della guerra italiana nel XV sec., non so
quanto ancora diffusa, attribuisce la crisi militare italiana nel
Rinascimento alla massiccia introduzione del mercenariato negli apparati
militari degli Stati italiani di allora.
Il sistema delle "condotte" avrebbe portato ad un tipo di guerra
estremamente falsato dalla necessità di conservare risorse (le truppe
mercenarie appunto) costose e difficilmente sostituibili; un tipo di
guerra simile ad un raffinato, ma incruento gioco di scacchi, fondata
molto sulla manovra e sulla cattura delle piazzeforti nemiche, per sua
stessa natura obsoleta.
Inoltre il mercenariato avrebbe fatto sparire le antiche virtù militari
italiche, cosicché lo shock rappresentato dalla guerra "moderna",
importata in Italia dai Francesi nel 1494, avrebbe letteralmente
distrutto gli ordinamenti militari italiani; il fallimento militare
italiano avrebbe poi condotto alla perdita dell'indipendenza dei vari
stati italiani in pochi anni.
Anche se questa visione è corroborata dalla lettura, ad esempio, del
Macchiavelli, essa è troppo estremista, e molti studiosi (ad es. M.
Mallet) hanno cercato di moderarla e riformularla.
Bisogna anche tener conto che gli osservatori di allora, in primis
Macchiavelli, vivevano in prima persona situazioni difficili, e le loro
pagine spesso non riescono a dare descrizioni imparziali ed analisi
serene degli avvenimenti.
Così ad esempio non è vero che gli Stati italiani dipendessero
esclusivamente dal sistema delle "condotte", o avessero totalmente
abbandonato il sistema dei cittadini – soldato o negletto interamente la
fanteria.
E se è vero che la Francia aveva fatto i primi passi verso un esercito
regolare nazionale, con l'introduzione delle compagnie d'ordinanza,
anche diversi Stati italiani, primi tra tutti Venezia e Milano, erano
sul punto di introdurre nei loro ordinamenti truppe regolari,
trasformando i contratti del sistema delle condotte in servizio
permanente in favore dello stato.
In effetti il sistema delle condotte si stava evolvendo in qualcosa di
diverso, tramite l'istaurarsi di rapporti, economici e personali, sempre
più stretti tra i condottieri ed i loro utilizzatori.
Che gli ordinamenti militari italiani avessero ancora una certa vitalità
e spazi per un'ulteriore evoluzione è dimostrato anche dalla rapidità
con cui i diversi Stati italiani cercarono di porre rimedio alle due
cause principali della loro debolezza militare, evidenziatesi proprio
negli anni 1494 -1495: la mancanza di artiglieria moderna (e delle
fortificazioni atte a resisterle) e la mancanza di una fanteria d'urto.
In effetti in pochi anni i principali Stati italiani si dotarono di
un'artiglieria all'avanguardia e di fortificazioni, scientificamente
progettate da architetti di prim'ordine, adatte a resistere ad essa.
Vi furono inoltre interessanti esperimenti per l'introduzione di una
fanteria da urto autoctona, ad es. i picchieri di Vitellozzo Vitelli, i
picchieri romagnoli usati da Venezia ad Agnadello, le milizie fiorentine
volute da Macchiavelli.
Inoltre almeno su un punto gli Stati italiani, in primis Venezia e
Firenze, anticiparono addirittura i tempi: l'introduzione in maniera
massiccia, già ai primi del '500 delle armi da fuoco portatili.
Senza considerare che i comandanti italiani rimasero, anche dopo la fine
dell'indipendenza italiana, molto competenti, basti pensare al
Trivulzio, al Farnese, o, in pieno XVII sec. al Montecuccoli o al grande
principe Eugenio, e che truppe italiane, in gran numero, combatterono
durante le Guerre Italiane, e successivamente, anche se al servizio di
potenze straniere.
Vero che gli esperimenti e le tendenze di cui sopra non furono portate
avanti, ma ciò non fu tanto per ragioni prettamente militari, quanto per
ragioni politiche e sociali; ad es. l'esercito di milizia reclutato nel
1506 da Macchiavelli, è basato su uno schema, quello della leva degli
eserciti romani, anacronistico e totalmente improponibile nella
situazione sociale della Firenze dell'inizio del XVI sec., ed infatti si
sbandò completamente nel 1512 davanti agli Spagnoli.
E comunque anche la Francia, la cui struttura politico sociale rendeva
difficile l'arruolamento di fanterie autoctone, basti vedere il
fallimento dei Francs – Archers, riuscì a arruolare fanterie pesanti
mercenarie straniere fino a quando, nella seconda metà del XVII sec.,
con l'accentrarsi dello stato, fu possibile creare una efficiente
fanteria francese.
In realtà, nonostante le parole di fuoco di Macchiavelli contro i
mercenari, il sistema del mercenariato continuò ben dentro il XVII sec.,
basti pensare che verso la fine della guerra dei 30 anni il pur forte
esercito svedese era formato più da mercenari stranieri che da Svedesi.
Da tutto ciò si può dedurre che il fallimento militare italiano nel
Rinascimento non fu tanto dovuto alla inadeguatezza delle sue armi o dei
suoi ordinamenti militari, o alla mancanza di competenza o di valore
degli uomini, quanto alle divisioni politiche, interne ed esterne ai
vari Stati indipendenti che allora formavano l'Italia.
Ma l'analisi della entità e delle cause di tali divisioni, che coinvolge
anche le strutture sociali di allora, apre un discorso affatto nuovo ed
esula dagli scopi di questo post.
Bibliografia
P. Pieri - Il rinascimento e la crisi militare italiana, Torino 1952
G. Parker – La rivoluzione militare, Bologna 1999
M. Mallett – Signori e mercenari. La guerra nell'età del Rinascimento,
Bologna 1974
G. Gush – Renaissance armies, 1480 – 1650, Cambridge 1980 (un'utile
introduzione ai tipi di truppa del periodo)
Esiste inoltre un libro della Osprey dedicato alla battaglia di Fornovo.
In questo giorno, vigilia del 508º anniversario della battaglia di
Fornovo, vorrei dedicare questo mio post a tutti coloro, Italiani,
Francesi o Svizzeri, che caddero in quell'occasione, ma il mio pensiero
va soprattutto ai condottieri italiani Rodolfo Gonzaga, Ranuccio
Farnese, Giovanni Piccinino, Galeazzo da Correggio, Roberto Strozzi,
Alessandro Beroaldi e Bernandino da Montone, ed ai loro uomini che,
cadendo sul campo, dimostrarono che non è vero che "gli Italiani non si
battono".
Ciao
Gianfranco