La spedizione di Marco Licinio Crasso contro i Parti
by Antonio - 20/04/02
Salve a tutti, ritorno dopo una settimana, o poco più, riprendedo un discorso solo accennato con Lorenzo che avrebbe dovuto avere come oggetto la disfatta delle legioni romane presso Carre. Riparto dagli avvenimenti che l'hanno
preceduta.
"Dicono che il nostro amico Crasso ha lasciato Roma in paludamento, con assai minore pompa che un giorno il suo coetaneo Lucio Paolo, anche lui console per la seconda volta! Che mascalzone" (Cicerone)
La partenza di M. Licinio Crasso per la Siria, della quale la sorte gli aveva attribuito il governo, non iniziò sotto i migliori auspici. Sebbene la legge votata sulle province non lo prevedesse, Crasso partiva per muovere guerra al regno dei Parti. E molti, in special modo tra gli optimates, erano contrari ad una iniziativa che avrebbe rafforzato ancor più i triumviri e quindi, indirettamente, Cesare. Non per niente Cesare, dopo lo stesso Crasso, era il più convinto fautore della guerra. L'opposizione aveva la sua voce nella persona del tribuno della plebe Caio Ateio Capitone, e si faceva forte del fatto che, non solo i parti non avevano arrecato alcuna offesa ai romani, ma, anzi, erano legati a Roma dai patti sottoscritti, una dozzina di anni prima, da Lucullo prima e da Pompeo dopo. Il giorno stesso della partenza il tribuno ordinò a Crasso di recedere, perché gli auspici presi si erano mostrati sfavorevoli all'impresa. Ma Crasso era un uomo estremamente pratico e, forte dell'intervento personale di Pompeo a suo favore, non se ne diede per inteso.
Per lui la guerra contro i parti era il coronamento di tutta una vita.
Avrebbe potuto finalmente dimostrare che non era solo il migliore dei romani
nel far soldi, ma che era anche un grande generale alla pari, se non più,
del detestato Pompeo cosiddetto Magno. "Quanto grande?" ci aveva una volta
scherzato su con un amico. Eppure lui solo aveva sconfitto Spartaco. Pompeo
aveva solo completato l'opera. Ma, si sa, una vittoria su un esercito di
schiavi non dava diritto al trionfo.
Crasso, educato all'antica, doveva ben sapere che iniziare un impresa contro
gli auspici non era cosa ben fatta, ma lui, come detto, era uno che badava
al sodo e, anche se uomo prudente, non amava perder tempo. Il tempo è
denaro, anche allora.
Era anche un uomo istruito ma forse, in quei giorni di autentica euforia,
così distante dal suo carattere pacato, non ricordava l'episodio di quel
console che, impaziente di impegnare in battaglia la flotta punica, non
diede retta all'infausto segno dell'inappetenza dei polli sacri imbarcati
sulla sua quadriremi. "Se non hanno fame che almeno bevano" esclamò,
ordinando di scaraventarli fuori bordo. Ma poi perse gran parte delle sue
navi.
Ateio Capitone le provò tutte per fermare la partenza di Crasso. Ne ordinò
la prensio ma fu bloccato dal veto dei colleghi. Addirittura pronunciò,
sulla porta della città, limite estremo della sua giurisdizione,
"maledizioni terribili e spaventose in se stesse"; ". queste imprecazioni
antiche e misteriose hanno un tale potere che nessuno di coloro, a cui siano
state scagliate, può sfuggirvi, ma la mala sorte colpisce anche chi le ha
pronunciate, per cui esse non sono usate frequentemente e con leggerezza."
Crasso giunse a Brindisi gli ultimi giorni di dicembre del 55 trovando il
mare in tempesta, ma decise lo stesso di salpare per l'Illiria perdendo
alcune navi nella traversata. Sbarcato a Dyrrachium si diresse subito verso
la Galazia e quindi in Siria dove il predecessore Gabinio gli passò le
consegne.
All'alba dell'impresa più ardua Marco Licinio Crasso aveva 60anni, o poco
più, dei quali gli ultimi sedici lontano dai campi di battaglia. E per di
più i parti, ancora avvolti nel mistero, non erano gli schiavi rivoltosi di
Spartaco e, anzi, si rivelarono ancor più duri dei sanniti a Porta Collina.
Con le sue legioni attraversò l'Eufrate ed entrò in Mesopotamia. Marciò
dapprima verso est e poi verso sud lungo il corso del Belik incontrando una
debole resistenza e occupando molte città che gli si consegnarono
spontaneamente. Solo Zenodozia oppose resistenza, per la qual cosa fu
espugnata, saccheggiata e i suoi abitanti venduti come schiavi.
Dopo di ciò, e dopo aver lasciato una guarnigione in ciascuna delle città
passate dalla sua parte, ritornò in Siria, riportando le legioni nei
quartieri invernali presso Ierapoli.
Questo, probabilmente, fu il più grave errore strategico di Crasso perché,
così facendo, trascurò di occupare Babilonia e Seleucia, città
tradizionalmente ostili ai parti. Inoltre, diede modo all'esercito parto di
riorganizzarsi.
Il secondo e imperdonabile errore fu poi quello di aver trascurato quello è
il compito principale del generale nei periodi di tregua, cioè la cura della
disciplina e dell'addestramento delle proprie truppe.
Ritenne opportuno, invece, dedicarsi esclusivamente agli aspetti
amministrativi e finanziari propri della carica di governatore provinciale.
Ma il morale delle truppe era sempre più scosso dalle notizie che venivano
dalle città occupate. Queste parlavano di imprendibili cavalieri che
scagliavano nugoli di frecce dalla tremenda forza che trapassa le corazze
per poi ritirarsi, e poi ritornare alla carica, saettare e ancora ritirarsi.
E così più e più volte. Parlavano, inoltre, di cavalieri interamente
ricoperti di ferro, armati di una grossa lancia, che, lanciati alla carica,
travolgevano tutto e tutti.
Tali notizie scuotevano il coraggio dei legionari, i quali erano partiti
convinti di dover affrontare dei nemici non diversi dagli armeni o dai
cappadoci facilmente sconfitti da Lucullo.
Se i soldati fossero stati duramente impegnati in esercitazioni e
confortati dalla presenza di chi aveva il loro destino nelle sue mani,
sicuramente non avrebbero avuto tempo e motivo di abbandonarsi allo
sconforto. Ma così non fu.
Anche tra gli ufficiali si discuteva in merito alle voci che venivano da
oltre l'Eufrate. Tra quelli che ritenevano opportuno che si dovesse
riconsiderare l'impresa vi era il questore Gaio Cassio Longino.
A Ierapoli Crasso venne raggiunto dal figlio Publio, che aveva militato con
onore sotto Cesare, con un contingente di mille cavalieri galli.
Il governatore ricevette altre due visite importanti. La prima fu quella
degli ambasciatori di Orode, il re dei parti, latori di un messaggio
alquanto sprezzante nel quale si imputava l'invasione della Mesopotamia a
una iniziativa personale di Crasso e lo si invitava a ritirare le truppe.
La risposta, come ovvio, fu altrettanto sprezzante e la guerra così
inevitabile.
La seconda fu quella Artavasde, re dell' Armenia, alleato di Roma, il quale
promise a Crasso un rinforzo di diecimila cavalieri corazzati e tremila
fanti. Questi, inoltre, suggerì al romano di attaccare la Partia da basi
armene, in modo da non aver difficoltà nei rifornimenti e di mettere
contemporaneamente in difficoltà la cavalleria parta, inadatta a combattere
in una zona montuosa. Tuttavia Crasso, accettati i rinforzi, declinò l'
invito dichiarandosi invece propenso a portare l'attacco dalla Mesopotamia
dove erano dislocate parte delle sue truppe, all'incirca settemila fanti e
mille cavalieri.
Quindi, confortato dall'aiuto di Artavasde e ritornata la stagione
primaverile si predispose a riattraversare l'Eufrate. Era al comando di
sette legioni, quattromila cavalieri e altrettanti tra arcieri e
frombolieri.