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Bush in Iraq e M. Antonio in Parthia
by Gianfranco Cimino - 14/04/03
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Mentre si va spegnendo l'ennesima delle tante guerre che hanno piagato l'area mesopotamica, mi sembra opportuno rievocare una delle spedizioni romane in quest'area, che, nonostante la fama del suo protagonista, Marco Antonio, è stata un po' trascurata. La mia narrazione sarà principalmente mirata alla descrizione degli eventi militari della campagna vera e propria e delle strategie e delle tattiche usate dai contendenti, quindi la situazione politica (interna ed esterna) precedente e successiva alla campagna stessa sarà solo brevemente delineata.

Le fonti primarie principali per la spedizione di M. Antonio, che ebbe luogo nel 36 a.C., sono Plutarco (Plut., Ant. 37.6) e Dione Cassio (Epitome, Libro 49 22-33) giacchè in Livio (Livy, Perioch. 130) ed in altri (ad es. Floro) non vi sono molti particolari; la mia narrazione farà quindi quasi esclusivo riferimento a questi due autori, ma soprattutto si appoggerà a Plutarco. In effetti Dione Cassio e Plutarco contrastano su molti particolari, il più importante dei quali è l'insistenza con cui Plutarco fa riferimento alla deleteria influenza di Cleopatra su M. Antonio. Questa "propaganda" negativa di Plutarco, ripresa evidentemente dalla propaganda augustea, lo spinge a negare a M. Antonio ogni merito: anche la scelta di una via di ritorno più favorevole ai Romani viene in gran parte attribuita ai consigli di guide locali. Dione Cassio mi pare più equilibrato, e fornisce sulla ritirata alcuni particolari, quali la tattica della terra bruciata applicata dai Parti, il loro ricorrere ad ostacoli naturali ed artificiali per ostacolare la marcia dei Romani e negare loro l'accesso all' acqua ed ai viveri, il freddo. Tutto questo mette M. Antonio in una luce leggermente più favorevole. Inoltre Plutarco e Dione sono in disaccordo sul modo in cui Fraate successe al padre Irode (o Orode, come lo chiama Dione). Infine vi è discrepanza tra le fonti anche sul numero di soldati romani morti durante la spedizione, si va dai 14.000 di Plutarco ai 30.000 (cifra che mi sembra esagerata) di altre fonti, anche se vi è concordia nell'affermare che la maggior parte dei morti fu dovuto alle malattie ed agli stenti durante la marcia.

Per quanto riguarda le fonti secondarie ho tenuto conto di "La politica estera di Roma antica" di M. Canavesi, Milano, 1942, e, naturalmente di "Il guerriero, l'oplita, il legionario" di G. Brizzi, Bologna, 2002.

Già dal 40 a.C si erano riaperte le ostilità tra Romani e Parti, i quali, prevenendo le mire espansionistiche di M. Antonio nei loro confronti, avevano attaccato la Siria romana. Le armate partiche, comandate dal principe reale partico Pacoro e da Q. Labieno, già luogotenente di G. Cesare e successivamente unitosi ai cesaricidi, ottennero notevoli successi iniziali, approfittando anche della lontananza di M. Antonio e di parte delle sue truppe. In poco tempo i Parti si impadronirono della Giudea, della Siria e della Cilicia, ed in mano ai Romani rimase la sola piazzaforte di Tiro. Questo successo iniziale durò poco più di un anno, infatti il luogotenente di M. Antonio Ventidio Basso sconfisse in rapida successione, uccidendoli entrambi, prima Labieno e successivamente Pacoro (battaglie del monte Amano, 39 a.C. e del Gindaro, 38 a.C.). Il Gindaro segnò uno spartiacque nei rapporti romano - partici, costringendo definitivamente i Parti sulla difensiva strategica.

Ma M. Antonio non aveva abbandonato i progetti, già di Cesare, di espansione alle spese dello stato Partico, e quindi assunse lui stesso il comando (38 a.C.). Furono allora condotte da M. Antonio e dal suo luogotenente Sossio una serie di operazioni militari in Siria, mentre Canidio, altro generale di M. Antonio, conduceva una serie di vittoriose campagne nei paesi degli Iberi e degli Albani, in modo da creare una testa di ponte nella regione caucasica, che minacciasse da nord l'Armenia, allora stato cliente dei Parti. Queste operazioni belliche furono seguite da una serie di provvedimenti per sistemare l'ordinamento interno dell'Asia Minore e da una serie di preparativi militari in vista della offensiva contro i Parti.

Nel 36 a.C. il re partico Irode fu ucciso da suo figlio Fraate, che assunse il potere; ciò provocò una situazione di instabilità politica nel regno dei parti, di cui M. Antonio pensò bene di approfittare, appoggiando Monese, un importante nobile partico rifugiatosi presso di lui. Anche dopo che Monese si riconciliò con Fraate, e tornò in Parthia, M. Antonio continuò i suoi preparativi, pur offrendo a Fraate la pace, se avesse riconsegnato le insegne ed i superstiti della sfortunata spedizione di Crasso del 53 a.C. M. Antonio racolse dunque in Armenia un esercito formato da 60.000 fanti romani ed i 10.000 cavalieri Celti ed Iberi, cui si aggiungevano 30.000 alleati, tra cui i 6.000 cavalieri e 7.000 fanti di Artavasde, re di Armenia. L'alleanza di quest'ultima nazione era preziosissima per due motivi: assicurava una via di attacco da nord nel regno Partico, e rendeva disponibile la cavalleria armena, di cui i romani fortemente abbisognavano.

M. Antonio aveva presumibilmente concepito il piano di avanzare in Media, regno sottoposto alla Parthia, attraverso l'Armenia, occupando Fraaspa, sita nell'odierno Azerbaigian iraniano e residenza del re della Media (anche lui di nome Artavasde). Facendo base da questa città poteva marciare facilmente su Ctesiphon (sita a 20 Km a sud est dell'odierna Baghdad) o su Ectabana, odierna Hamadan, in Iran, i due centri maggiori del potere partico; tra l'altro sembrava che l'impresa fosse relativamente facile perché le forze dei Medi erano impegnate insieme con i Parti, di cui erano vassalli.

Fu forse per questo motivo che M. Antonio, invece di svernare in Armenia, ed attaccare nella primavera successiva, preferì procedere velocemente verso Fraaspa, nonostante che i suoi uomini avessero già marciato, come afferma Plutarco, per ottomila stadi (circa 1.500 Km).

Per avanzare più velocemente M. Antonio preferì lasciare indietro, al comando di Oppio Staziano i trecento carri del convoglio, che trasportavano, oltre ai viveri, anche le macchine da guerra indispensabili per gli assedi.

Questo si dimostrò un errore, perché la città si rivelò ben munita e difesa, impossibile da conquistare senza macchine da guerra, nonostante i Romani tentassero la costruzione di un terrapieno.

Nel frattempo accadde un episodio molto grave: le forze dei Parti al comando di Fraate, accorsi in difesa di Fraaspa, intercettarono e distrussero completamente la colonna di Staziano, uccidendo lui e diecimila dei suoi e prendendo numerosi prigionieri, tra cui Polemone, re del Ponto e dell'Armenia minore. In questo frangente sembra inoltre che Artavasde, re dell'Armenia maggiore, sia venuto meno all'alleanza coi romani, ritirandosi con le sue truppe. M. Antonio veniva così a trovarsi in una situazione critica, assediante, ma nel contempo esposto agli attacchi dell'esercito partico, oramai giunto in vista di Fraaspa, e privo di rifornimenti.

A questo punto M. Antonio intraprese un azione di foraggiamento in forze, prendendo con sè una forza equivalente a circa 10 legioni; l'azione aveva il duplice scopo di reperire viveri e di rincuorare i soldati, scuotendoli dall'inattività. I Parti, sulle prime, non ostacolarono il raid romano, ma quando M. Antonio fu ad un giorno di marcia dall'accampamento principale di Fraaspa, circondarono il campo del distaccamento romano. M. Antonio non si fece prendere dal panico, ma levò l'accampamento e si ritirò verso Fraaspa, facendo sfilare la colonna romana a poca distanza dai Parti, che avevano assunto uno schieramento a mezzaluna; ad un segnale di attacco, però, la cavalleria romana si lanciò all'improvviso sui nemici prendendoli di sorpresa ed impegnandoli fino a quando la carica della fanteria li mise definitivamente in fuga ancora prima del contatto; sembrando che la battaglia fosse vinta M. Antonio ordinò l'inseguimento generale, ed effettivamente la fanteria inseguì i Parti per quasi un chilometro, la cavalleria per tre volte tanto, ma la cavalleria leggera partica, più veloce, riuscì a sganciarsi. I Romani rimasero negativamente impressionati da questo scontro, perché i Parti, pur essendo stati sconfitti, persero solo un centinaio di uomini tra morti e prigionieri. Durante il ritorno all'accampamento principale i Romani furono soggetti solo ad operazioni di disturbo da parte dei Parti, nel frattempo raggruppatisi. Ma i difensori di Fraaspa non rimanevano inattivi ed effettuarono una sortita dalla città, mettendo in fuga le truppe intente alle opere d'assedio; M. Antonio, per punizione, applicò la decimazione e fece distribuire agli uomini orzo anziché grano.

A questo punto la situazione era di stallo, giacchè i Romani rischiavano la fame, vista la difficoltà di approvvigionamento causata dagli attacchi dei Parti ai foraggiatori, mentre l'esercito partico, essenzialmente un esercito irregolare, si sarebbe per la maggior parte disperso durante l'inverno che si approssimava (era già passato l'equinozio di autunno). I Parti approcciarono quindi i Romani per delle trattative di pace, e M. Antonio, in difficoltà, pur diffidando dei nemici, accettò di trattare. Si arrivò ad un accordo per il quale se i Romani avessero tolto l'assedio, sarebbero stati lasciati liberi di tornarsene in Armenia senza essere molestati.

Pochi giorni dopo l'esercito romano levò l'assedio da Fraaspa (Ottobre del 36 a.C.) e prese la strada per il ritorno. La situazione, anche politica, di M. Antonio, era difficile: non era neanche riuscito ad ottenere indietro le insegne di Crasso, ed i suoi uomini sapevano che la loro era una difficile ritirata, tanto che il generale romano non aveva avuto neanche il coraggio di tenere un discorso ai soldati, ma aveva lasciato questo compito a Domizio Enobarbo.

Il percorso scelto per la ritirata non poteva essere quello seguito durante la marcia di avvicinamento a Fraaspa, che attraversava regioni pianeggianti e prive di vegetazione, perché avrebbe troppo esposto i Romani ad attacchi a sorpresa della cavalleria partica; infatti M. Antonio non si fidava molto dei Parti, dopo le vicende occorse a Crasso. Fu quindi deciso (Plutarco asserisce che l'idea partisse da una guida di razza Mardia - i Mardii erano una popolazione che abitava sulla riva meridionale del Caspio) di seguire una via più lunga compiendo una deviazione verso est che avrebbe portato l'esercito attraverso regioni montagnose, poco adatte ad azioni di cavalleria. Questa decisione si dimostrò saggia, in quanto i Parti non avevano nessuna intenzione di rispettare gli accordi presi; il primo attacco alla colonna romana in ritirata avvenne al terzo giorno di marcia, quando essa fu rallentata dall'acqua proveniente da un fiume il cui argine era stato divelto dal nemico. M. Antonio (sempre dietro suggerimento della guida Mardia, se vogliamo dare retta a Plutarco) fece immediatamente mettere in assetto di combattimento la colonna, disponendo tra i legionari le truppe leggere armate di fionda e giavellotto; subito dopo apparve la cavalleria leggera partica, che circondò la colonna. Le truppe leggere romane effettuarono una sortita, infliggendo e subendo perdite, ma costringendo la cavalleria nemica a ritirarsi; quando i Parti, riordinatisi, si fecero di nuovo sotto, furono dispersi da una carica a ranghi serrati di cavalieri Galli, che però, prudentemente, su ordine di M. Antonio non inseguirono il nemico.

M. Antonio riprese quindi la marcia, disponendo l'esercito in formazione quadrata, con un'avanguardia di cavalleria e coprendo i fianchi e la retroguardia con armati alla leggera dotati di frombole e giavellotti, egli dette inoltre ordine alla cavalleria di attaccare e disperdere la cavalleria nemica, se questa si avvicinava, ma di non inseguire per evitare di essere successivamente isolati dai Parti.

A questo punto Plutarco racconta un episodio che ci illumina sulle tattiche adottate dai Parti. Uno dei comandanti romani, Flavio Gellio, avuto il permesso da di M. Antonio, pensò di impegnare i Parti con una forza mobile composta da cavalieri ed armati alla leggera, ma la cavalleria nemica riuscì ad isolare il distaccamento di Gellio, e lo avrebbe distrutto se il grosso dell'esercito non fosse accorso a salvarlo. A seguito di questo episodio, in cui i comandanti romani, tra i quali Canidio, commisero numerosi errori, l'esercito perse tremila uomini, con cinquemila feriti, e soprattutto il morale dei Romani ebbe un brusco tracollo, mentre i Parti si fecero più audaci, tanto che durante la notte seguente si fecero sotto l'accampamento romano con quarantamila cavalieri, pensando addirittura di poterlo saccheggiare il mattino successivo. Ma i Romani non erano già vinti, tra l'altro M. Antonio era un abile comandante in cui gli uomini ponevano grande fiducia, ed il mattino seguente non vide lo sbandamento dell'esercito, come era già successo a Crasso, ma la ripresa della marcia, adottando la formazione quadrata di cui ho già detto prima.

Due attacchi successivi dei Parti furono quindi respinti, ed il secondo attacco, portato su terreno scosceso, fu particolarmente costoso per i Parti. Infatti i Romani formarono la "testuggine", che prevede, nella sua versione "statica", che la prima fila di armati si inginocchi proteggendosi con lo scudo; nel vedere ciò i nemici pensarono erroneamente che ai Romani mancassero le forze, e fecero l'errore di serrare troppo sotto i legionari, finendo quindi colti di sorpresa dal vigoroso contrattacco romano, che provocò numerose perdite. Altri tentativi dei Parti di scompigliare e rompere la formazione romana fallirono egualmente, ed essi rinunziarono a questo tipo di iniziative, ma piuttosto cercarono di avviare ulteriori contatti diplomatici coi Romani, forse con l'intenzione di ingannarli ulteriormente, facendoli deviare di nuovo verso terreni pianeggianti, in cui sarebbe stato forse più facile foraggiare, ma l'esercito sarebbe stato più vulnerabile.

Nel frattempo il maggior nemico dell'esercito romano erano diventati la fame e la sete, ma M. Antonio, nonostante le insidie dei Parti, si attenne al piano originale di tenersi su terreni sfavorevoli all'uso della cavalleria. Anche in questo caso Plutarco fa dipendere le scelte di M. Antonio da un consigliere del luogo, in questo caso Mitridate, cugino di quel Monese di cui abbiamo detto all'inizio della narrazione. Oramai l'Armenia era vicina, ma bisognava superare altre difficoltà, tra le quali la mancanza d'acqua, visto che il corso d'acqua più vicino era ad una giornata di marcia di distanza. M. Antonio, anche per distanziare i Parti, dette l'ordine di levare il campo durante la notte, ma la veloce cavalleria nemica riuscì a prendere contatto, la mattina successiva, con la retroguardia romana, sfinita dalla sonnolenza e dalla fatica e demoralizzata dall'aggressività del nemico; lo scontro che ne seguì fu, come al solito indecisivo, ma permise ai Romani di guadagnare tempo, fino a quando M. Antonio decise di porre l'accampamento. A questo punto la mancanza d'acqua era un problema, visto che il fiume, distava ancora un'altra tappa di marcia notturna, ed i soldati, privi di adatti recipienti, avevano riempito d'acqua anche gli elmetti.

Quando non era ancora notte l'esercito romano si rimise in marcia; quest'ultima notte fu la più terribile per l'esercito romano, non tanto per i Parti, ma perché i legionari, demoralizzati e sfiniti, furono sul punto di ammutinarsi, come era già successo a Crasso, ed effettivamente scoppiarono dei tumulti che a stento M. Antonio riuscì a sedare; lo stesso comandante romano dette istruzioni ad un suo liberto di ucciderlo e di tagliargli la testa nel caso i Parti avessero potuto prenderlo vivo. Comunque l'ordine fu ristabilito, e la mattina successiva, con il fiume oramai vicino i Parti tentarono l'ultimo attacco, ancora rintuzzato dalla retroguardia, mentre oramai l'avanguardia era giunta al corso d'acqua.

I passaggio del fiume fu ben gestito da M. Antonio, che coprì le truppe che passavano il fiume con la cavalleria, mentre i Parti stavano a guardare.

Sei giorni dopo l'esercito romano passò l'Arasse, odierno Aras, fiume che separa la Media dall'Armenia, senza che il nemico, nonostante i timori di M. Antonio, tentasse di ostacolarne il guado. I Romani avevano impiegato 27 giorni per arrivare da Fraaspa all'Armenia, sostenendo 18 scontri vittoriosi, ma non decisivi, vista l'impossibilità di inseguire il nemico volto in fuga. Durante la campagna erano morti 10.000 fanti e 4.000 cavalieri, di cui però più della metà morti di malattia.

Ed ora qualche breve commento sulle strategie e le tattiche impiegate dai contendenti. Parliamo innanzi tutto di M. Antonio. La storiografia antica, per ovvi motivi, non è certo tenera nei confronti di M. Antonio, e, leggendo ad esempio Plutarco, sembra che la spedizione sia stata fin dall'inizio segnata dal disgraziato amore del condottiero per Cleopatra, e condotta quasi in maniera casuale, se non dall'urgente desiderio di M. Antonio di ricongiungersi con l'amato bene. Eppure, a ben guardare, la spedizione fu ben organizzata, pianificata e condotta. M. Antonio si preoccupò infatti di affiancare alle legioni, la fanteria pesante per eccellenza, contingenti di fanteria leggera e cavalleria, forniti da stati clienti e alleati; in questo contesto, come verrà chiarito successivamente, il contributo della cavalleria leggera e pesante armena era irrinunziabile. Il contingente così messo assieme era imponente e sufficiente alla bisogna (70.000 - 100.000 uomini), anche se, dal punto di vista logistico, era quasi irrinunciabile dividere l'esercito. Soprattutto il piano della campagna era ben congegnato. M. Antonio aveva imparato dal disastro di Crasso, e non tentò neanche di seguire la sua strada di invasione, che passava per una marcia attraverso la Mesopotamia; essendo privo anche di una flotta fluviale (ricordiamo che M. Antonio non aveva la stessa esperienza nelle operazioni anfibie che aveva Traiano), fu una scelta quasi obbligata, ma saggia, di passare attraverso l'Armenia. Dione afferma che M. Antonio avrebbe voluto scendere verso Ctesifonte costeggiando l'Eufrate, ma non lo fece perché trovò questa via sbarrata dai Parti, ma io penso che in realtà M. Antonio avesse deciso fin dal primo momento di appoggiarsi all'Armenia per penetrare in profondità nel regno dei Parti. Ricordiamo infatti che il centro del potere partico non era la Mesopotamia (Ctesifonte era una capitale di rappresentanza), ma l'altipiano iranico: dirigendosi dall'Armenia nella Media, ed impossessandosi di Fraaspa (nell'odierno Azerbaigian Iraniano) M. Antonio avrebbe acquisito una base logistica da cui poi indifferentemente colpire verso la Mesopotamia o verso Ectabana (odierna Hamadan) e la Persia vera e propria.

Ricordiamo che diversi secoli dopo Eraclio si procurò una base sicura nell'odierno Azerbaigian (ancora più a nord di Fraaspa) prima di portare i suoi attacchi al cuore dell'Impero Sassanide. Certo M. Antonio avrebbe potuto anche svolgere una campagna di conquista più graduale, come quella pianificata da Traiano, ma la sua situazione politica, interna ed esterna, era più delicata, e non avrebbe potuto pensare di condurre una campagna di più anni. Alla luce di questi fatti il tentativo di M. Antonio di condurre una specie di campagna lampo è giustificabile; in particolare il tentativo di impadronirsi di Fraaspa prima dell'inverno ha un senso, e se avesse avuto successo il regno partico si sarebbe trovato con una spada di Damocle pendente sul capo. Penso che l'unico errore di M. Antonio sia stato, a questo punto, il lasciare il proprio treno logistico troppo indietro, esponendolo agli attacchi dei Parti: la troppa fretta non gli fece proteggere le proprie linee di comunicazione; abbiamo già visto l'importanza del fattore logistico per gli eserciti che si muovono in quei territori.

In quanto ai Parti, dopo la sconfitta del Gindaro e la morte di Pacoro, il loro atteggiamento fu essenzialmente difensivo; una volta accortisi della reale strada di invasione la loro risposta, aiutata dal fatto di muoversi per linee interne e dalla maggiore mobilità del proprio esercito, fu rapida e decisa, anzi, la velocità con cui Fraate arrivò in soccorso di Fraaspa la dice lunga sull'importanza strategica che essi davano a quella città. I Parti si guardarono bene però dall'affrontare direttamente battaglia con un nemico superiore in numero; essi evitarono lo scontro diretto e si concentrarono sull'isolare l'esercito romano, prima privandolo del suo treno logistico, e poi negandogli i rifornimenti in loco. In effetti i Parti non pensarono neppure di condurre un controassedio (modello Alesia) contro i Romani, non avendone probabilmente neppure le capacità tecniche, ma si limitarono ad impedirgli il foraggiamento, sfruttando la maggiore mobilità, che permetteva loro di imporre (o molto più spesso, evitare) battaglia a piacimento. Una strategia tradizionale che, ancora una volta, grazie anche all'errore compiuto da M. Antonio, funzionò.

Concentriamoci quindi sulle tattiche operative dei Parti. Essi sono visti come una specie di cavalieri medievali ante litteram: niente di più sbagliato. La cavalleria pesante medievale europea fondava i suoi successi su una carica rapida, impetuosa e portata a fondo spesso senza alcuna preparazione preliminare. La cavalleria dei Parti era invece basata sulla collaborazione coordinata tra due componenti: i catafratti, provenienti dalla classe nobile e gli arcieri a cavallo provenienti dai vassalli dei nobili; i primi erano cavalieri il cui corpo era quasi interamente protetto da un'armatura metallica, nella maggior parte dei casi a squame o a maglia, montati su cavalli bardati con vari tipi di materiali; le loro armi erano il kontos, una pesante lancia dalla grossa punta, preferibilmente tenuta a due mani, e mazze, asce e spade per il combattimento ravvicinato. I secondi erano cavalieri leggeri armati di un arco composito, che sapevano usare con micidiale precisione ed efficacia, e poco altro, privi di armatura. La fanteria era quasi completamente assente; tra l'altro i Parti avevano notevoli deficenze nell'arte della poliorcetica, mentre dal punto di vista logistico riuscivano bene a far fronte al continuo fabbisogno di frecce della loro cavalleria leggera: esse infatti venivano trasportate su cammelli.

Tutte le tattiche che i Parti usavano contro i Romani erano fondate sulla combinazione tra i catafratti, la componente d'urto, e gli arcieri a cavallo, la componente di tiro, e tendevano a disorganizzare il nemico, a logorarlo fisicamente e moralmente, a minarne la coesione, fino a quando esso non crollava completamente; seguiva poi il massacro e/o la cattura dei prigionieri; ogni fuga, almeno per un esercito romano composto allora essenzialmente da fanteria, risultava inutile. Non veniva quindi combattuta un'unica battaglia decisiva, secondo i dettami dell'arte della guerra occidentale, ma una serie di piccole scaramucce in cui gli arcieri a cavallo impegnavano e logoravano il nemico da lontano col tiro, gli infliggevano perdite, anche se non in grande numero, e lo obbligavano a fermarsi, o comunque a rallentare la marcia; tutto questo, combinato con la tattica della "terra bruciata" con gli attacchi ai treni logistici, con il negare al nemico le risorse alimentari ed idriche presenti, con altri tipi di insidie, in un arco di tempo relativamente breve, e comunque misurabile non in ore, ma in giorni, poteva portare un esercito romano, allora basato quasi essenzialmente sulla fanteria pesante, al crollo psicologico ed alla disorganizzazione più totale: ricordiamo che l'esercito di Crasso si ammutinò, e fu quasi sul punto di farlo anche quello di M. Antonio.

I catafratti non erano quindi l'unica componente essenziale di un esercito partico, e sicuramente non erano la più numerosa: il loro compito era essenzialmente quello di proteggere la cavalleria leggera, che se attaccata, regolarmente evadeva velocemente tirando all'indietro per poi riorganizzarsi, conducendo gli inseguitori disorganizzati verso i catafratti, e di dare il colpo di grazia con la potenza del loro urto alle formazioni nemiche già disordinate dal tiro o dagli inseguimenti, e logorate psicologicamente dall'inattività e fisicamente dalla stanchezza, dalla fame e dalla sete; infatti gli stessi catafratti non avevano molte possibilità di successo contro formazioni di fanteria pesante coese e disciplinate.

In effetti mentre gli arcieri a cavallo non potevano sostenere un combattimento corpo a corpo, ma erano molto mobili e si riorganizzavano facilmente, i catafratti, che adottavano una formazione di combattimento chiusa, erano invece ottimizzati per la mischia, anche se molto meno mobili e facili ad affaticarsi.

Quindi, mentre i Romani cercavano il combattimento faccia a faccia a distanza ravvicinata, i Parti in genere lo evitavano preferendo logorare i Romani in una serie di piccole azioni; questo tipo di guerra riusciva particolarmente pericoloso ai Romani, come si vede dalla disfatta di Crasso e dalle notevoli difficoltà incontrate da M. Antonio.

D'altronde M. Antonio era generale migliore di Crasso, ed imparò presto a difendersi dalla cavalleria partica cercando di attirarla in terreni chiusi, più adatti alla fanteria, cercando di sfruttare al massimo la fanteria leggera, dotata di armi da tiro che, come le frombole, poteva tenere a distanza sia la cavalleria leggera che i catafratti, usando lo schieramento a testudo, e impedendo ai Romani, in caso di vittoria, di inseguire a lungo un nemico comunque più veloce: il destino dei corpi di truppa che rimanevano staccati dalla schiera principale era infatti segnato: venivano circondati e fatti a pezzi dalla superiore cavalleria partica. Nei momenti più neri fu comunque importante la leadership di M. Antonio, e la fiducia in lui riposta dai suoi ben addestrati soldati, situazione ben differente da quella di Crasso; M. Antonio, ad esempio, non cadde mai in quella inattività e passività che fu fatale a Carre, ma cercò sempre di togliere l'iniziativa al nemico, e si difese bene, tenendo conto che aveva sì un buon numero di fanteria leggera, ma gli mancava la cavalleria armena, simile a quella Partica, che sola gli avrebbe permesso di spezzare il coordinamento tra arcieri a cavallo e catafratti e di inseguire e sconfiggere definitivamente l'altrimenti inafferrabile cavalleria partica. La cavalleria celtica ed iberica non era infatti adatta allo scopo: troppo pesante per inseguire velocemente gli arcieri a cavallo, ma troppo leggera per opporsi ai catafratti.

Insomma, una efficiente combinazione di sapienza tattica e di leadership permise a M. Antonio, se non di vincere, almeno di non fare la fine di Crasso: se il Gindaro aveva messo la parola fine ai tentativi offensivi Partici, la spedizione di M. Antonio mostrò che essi potevano essere attaccati nel loro territorio, anche se il potere coercitivo alla battaglia rimase, per il momento, in mano ai Parti.

Alla fine della campagna la maggior parte dei morti romani ed alleati era perciò dovuta agli stenti ed alle malattie, e comunque l'esercito, ridotto ma ancora integro, riuscì ritirarsi sulle basi di partenza: M. Antonio aveva dimostrato che la tattica di Carre non era ripetibile all'infinito.

Gianfranco Cimino
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