Mi ha sempre colpito il fatto che nelle interviste e nei libri sulle due guerre mondiali, i nostri soldati vengano abbastanza spesso elogiati, mentre gli ufficiali sono descritti (quando va bene) come poco validi. Che ne pensate?
Il discorso è complesso. Per evitare luoghi comuni o giudizi affrettati, la cosa migliore sarebbe quella di effettuare un confronto qualitativo tra la classe ufficiali italiana alla vigilia della guerra e quella di altri
eserciti. Trovare i parametri sulla base dei quali effetturare il raffronto comparativo non è difficile: indipendentemente dal valore dei singoli, la capacità di una classe ufficiali si misura - complessivamente - dalla sua preparazione culturale, dalla sua capacità di aprirsi all'innovazione (e quindi dalla sua disponibilità a rimettere in discussione le nozioni apprese), dalla sua composizione sociale (più è ristretto l'ambiente di
provenienza, maggiori sono le chiusure e i preconcetti mentali) e infine dai suoi rapporti con l'ambiente politico (soprattutto nell'avanzamento delle carriere: meritocrazia, cooptazione, raccomandazioni ecc. ecc.). Nel complesso, misurata su tali parametri, la classe ufficiali italiana alla vigilia della guerra lamentava forti insufficienze. Sarebbe errato, come spesso si è fatto in passato e si fa ancora oggi, considerare tale inadeguatezza come un problema legato a una italica carenza di non meglio precisate "virtù militari": La verità, infatti, è che una buona classe ufficiali può essere soltanto il prodotto di una lunga e accurata politica diretta alla creazione di uno strumento militare efficiente e adeguato. E questo raramente è stato fatto dai governi nostrani, del Regno d'Italia, del periodo fascista e della Repubblica.
Una fase cruciale per valutare la preparazione della nostra classe ufficiali nella II Guerra Mondiale fu senz'altro la smobilitazione del primo dopoguerra. Il ridimensionamento degli effettivi agli organici del tempo di pace è sempre un momento decisivo nella vita di un esercito, perché solo un'accorta selezione favorisce la formazione di quadri sulle cui capacità pesa il mantenimento nell'efficienza dello sturmento militare in tempo di pace e, allo stesso tempo, la sua preparazione per gli eventuali impegni futuri. Le esperienze esemplari offerte dall'esercito tedesco alla fine della Grande Guerra e dall'esercito americano dopo la Guerra del Vietnam sono emblematiche in tal senso: il Trattato di Versailles si rivelò - paradossalmente - lo strumento con il quale la Germania poté formare una
nuova classe ufficiali estremamente motivata, aperta all'innovazione e, soprattutto, disposta a "sperimentare", cosa che dovrebbe essere pratica costante di ogni esercito in tempo di pace; analogamente, un'attenta selezione degli ufficiali da confermare permise all'esercito americano di creare una classe di quadri sul cui lavoro sarebbe poi stato ricostruito -
quasi dalle fondamenta - lo strumento militare americano.
Ebbene, come si diceva alla fine della I guerra mondiale l'Italia non seppe approfittare dell'opportunità offerta dalla smobilitazione. Nonostante i piani e le intenzioni annunciate dal governo Nitti e dagli esecutivi che gli succedettero, la classe ufficiali dell'esercito italiano venne "sfrondata" soltanto in minima parte: ancora nel '22-'23, gli ufficiali di carriera in servizio effettivo erano più di 19 mila, quando invece il decreto legge sulla smobilitazione prevedeva il mantenimento nei ruoli di non più di 15 mila ufficiali (dati da G. Rochat, L'esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini, Laterza) ai quali vanno aggiunti circa 25 mila ufficiali di complemento sui 15 mila previsti dall'rdinamento provvisorio. Ma soprattutto, oltre a essere in sovrannumero i quadri degli anni Venti erano
composti per i 3/4 a ufficiali entrati in servizio dopo il '15, in piena guerra, e quindi privi di un'adeguata preparazione accademica. Peggio ancora, gli ufficiali erano in sovrannumero, ma scaseggiavano ai reparti. Non si tratta di una contraddizione: la guerra aveva portato alla nascita di un enorme numero di uffici che la smobilitazione non cancellò e che vennero abbondantemente occupati da ufficiali in cerca di un posto sicuro e tranquillo dove ottenere avanzamenti di carriera legati agli scatti d'anzianità Il risultato è che venne perfino istituita un'indennità per il servizio ai reparti diretta ad attirare gli ufficiali fuori dagli uffici. Le conseguenze sono doppiamente negative: da un lato la classe ufficiali si burocratizza, perde le motivazioni che spingono alla sperimentazione e all'aggiornamento professionale, in una parola si sclerotizza; dall'altro, la burocratizzazione crea un circolo vizioso nel quale il sistema vive per autoalimentarsi; è impossibile congedare gli ufficiali in eccesso perché servono al funzionamento degli uffici ed è impossibile ridurre gli uffici perché servono al mantenimento degli ufficiali lì impiegati. E infine, come scrive Rochat, "I rapidi avanzamenti di guerra hanno portato ai gradi superiori ufficiali troppo giovani, non sufficientemente maturati".
Con il fascismo la situazione peggiorò ulteriormente. Il regime, nella necessità di garantirsi il consenso delle forze armate, alimentò in modo ancora più forte clientelismi e favoritismi nelle carriere allo scopo di
formare una classe ufficiali i cui vertici fossero legati al destino stesso dello Stato fascista. Non a caso, una volta al potere Mussolini mise rapidamente da parte il vecchio programma militare del Pnf (elaborato da De Vecchi) delegando interamente ai vertici militari la riorganizzazione e la gestione delle Forze armate. I risultati non tardarono a farsi vedere perché anche gli alti ufficiali che più a lungo manifestarono riserve nei confronti del Pnf non tardarono a dichiarare la loro fedeltà al nuovo regime. Un nome su tutti: Badoglio.
Dal punto di vista della preparazione e della qualità della classe ufficiali, invece, gli effetti furono disastrosi: la riforma Diaz, attuata nel '24, puntò esplicitamente ad allargare gli organici dei quadri per evitare eliminazioni e congedi da sovrannumero. Gli esiti furono devastanti, perché il bilancio preventivo del ministero della Guerra per il '24-'25 prevedeva che il 28 per cento della spesa per lòa difesa sarebbe andata soltanto al pagamento degli stipendi per gli ufficiali. Questo significa che la politica condotta dal partito fascista a proposito dell'esercito non solo stava forgiando una classe ufficiali nella quale la selezione non avveniva per merito ma per favoritismi o convenienze politiche, ma che le dimensioni stesse di questa classe ufficiali stavano ormai assorbendo una fetta talmente estesa dei bilanci da sottrarre risorse ad altre voci, a cominicare dal riequipaggiamento e dall'ammodernamento delle dotazioni. Il circolo vizioso era ormai innescato.
Per avere un'idea abbastanza netta della situazione nella quale versava la classe ufficiali italiana alla vigilia dell'ultimo conflitto, può essere utile tornare a proporre il paragone con quanto in quegli stessi anni stava accadendo in Germania. Come detto, le clausole del Trattato di Versailles offrirono alle forze armate tedesche l'occasione per ricostruire quasi da zero le forze armate tedesche. Von Seeckt, per esempio, approfittò dell'obbligo di congedare i tre quarti degli effettivi del corpo ufficiali per mantenere in servizio i quadri più intelligenti; allo stesso tempo, le prove selettive per i passaggi di grado vennero rese estremamente dure, aumentando soprattutto il peso dei requisiti culturali (l'apertura mentale è direttamente proporzionale alla capacità di innovazione e all'autocritica), da questa realtà scaturì una classe ufficiali ancora più preparata e competente di quella creata dalle riforme di Scharnhost nel primi del secolo scorso. E già questo suscita un effetto stridente rispetto alla realtà italiana.
L'avvento del regime nazista non mutò sostanzialmente la realtà delle cose. Esattamente come Mussolini, anche Hitler nei primi anni di governo cercò di guadagnarsi il consenso delle forze armate raggiungendo un modus vivendo con una classe ufficiali estremamente gelosa del suo ruolo sociale e della sua autonomia politica. Al contrario di quanto accadeva in Italia, tuttavia, in Germania la presenza di uno Stato maggiore generale che, di fatto, si comportava come un vero e proprio ministero delle forze armate permise ai vertici militari di evitare che clientelismi e favoritismi divenissero la pietra di scambio nei rapporti tra potere militare e potere politico. Questo fu possibile fino al '38, quando - con una manovra che molti ufficiali non avrebbero mai dimenticato - Hitler si disfece di due generali "scomodi" come Fritsch e Blomberg e sostituendoli con due "burattini" come Brauchitsch e von Halder.
Ma a quell'epoca, la nuova classe ufficiali tedesca era già stata forgiata.
Alessandro
Reply di Luc4 - 15/03/01
Questo significa che la politica condotta dal partito fascista a proposito dell'esercito non solo stava forgiando una classe ufficiali nella quale la selezione non avveniva per merito ma per favoritismi o convenienze politiche,
A questo proposito è illuminante quanto scrive Bottai* nel suo diario:
" L'eccesso di comandanti genera l'eccesso di comandi e la scarsezza dell'esecuzione, turbata da contraddizioni infinite.
Il militare di mestiere non sa che la vita dei mortali che lo circondano è uno sforzo continuo di organizzazione. Fatto il primo passo nella carriera, tutto è fatto per lui. Non deve che subire, via via, gli ordini, che gli vengono impartiti da quei gradi superiori della gerarchia da cui egli stesso, in un domani più o meno prossimi,
l'impartirà con le stesse parole. La disciplina dell'esercito è rituale, cerimoniale, non organizzativa. Non deve, il militare, organizzarsi per procedere. Nato per la guerra, non combatte per avanzare. Preso nel flusso dell'organizzazione già fatta, non à nulla da fare, se non navigare secondo corrente. Così, la sua mente si dispone a concepire una vita come una cosa già vissuta, nalla quale lasciarsi vivere."
da un lato la classe ufficiali si burocratizza, in una parola si sclerotizza; dall'altro, la burocratizzazione crea un circolo vizioso nel quale il sistema vive per autoalimentarsi;
Ancora Bottai*:
"Su quaranta scarpe mandate per sopperire una richiesta di cento o duecento, venti sono di numeri superiori o inferiori ai piedi per quali dovrebbero servire. Nessuno pensa che le scarpe servono pei piedi. Le scarpe servono per "scaricare" o "caricare" i magazzini. Si potrebbero ordinare richieste con indicazioni dei numeri che servono; tra i molti dati inutili che le furerie segnano nelle loro scartoffie si potrebbero notare le misure essenziali dei soldati. Nessuno ci pensa. E' troppo facile; dunque, è troppo difficile. Esempio minimo questo. Moltiplicabile all'infinito. Fino a che si
arriva a un groviglio di assurdi, che si ingrandiscono nel pantografo delle grandi unità. Spostamenti superflui, marcie inutili, guardie che, sovrapponendosi, si annullano, prescrizioni che, contraddicendosi, si distruggono (non caricate i muli più d'un dato peso; ma portate tutto il materiale, anche se, ripartendolo tra i muli disponibili, i pesi unitari risultino maggiori), viveri che non si distribuiscono, se non quando sono avariati, etc.. etc.."
[...]
" La diffidenza è di prammatica nelle cose militari. La gerarchia à le sue basi nella sfiducia. Ogni grado superiore sembra essere stato inventato per diffidare dell'inferiore. E' incredibile la quantità di sfiducia che c'è voluta per arrivare al grado di generale."
*(Bottai, Marzo - Aprile '36)
Ci sarebbero altri pezzi che non riporto per non appesantire troppo. Ricopiando questi brani vien da chiedersi, senza voler offendere nessuno, quanto di questa mentalità si sia conservato fino ad oggi.
Bye
Luc4
Reply di Alessandro Santoro ad un post di Alessandro Antola - 17/03/01
Tuttavia quando parli del corpo ufficiali tedesco, che nell'insieme viene rappresentato come una buona amalgama di cultura e competenza, mi è difficile comprendere quali siano stati i meccanismi che hanno portato l'intera categoria ad avvitarsi nell'avventura nazista.
Il discorso è molto complesso e una risposta sufficientemente argomentata deve necessariamente rimandare non solo alla storia militare, ma anche a quella politica e sociale della Prussia/Germania. Provo a riassumere rapidamente i punti essenziali, ma chiedo perdono fin d'ora per la sintesi che - so già - risulterà necessariamente sommaria.
1. I militari e l'esercito nella società tedesca.
Per comprendere la drammatica epopea della classe ufficiali tedesca durante il regime nazionalsocialista deve essere innanzitutto compreso il particolare ruolo sociale e politico che, nella Prussia prima e nella Germania dopo, recitavano le forze armate (termine che, in questa particolare fattispecie, va ovviamente a indicare l'insieme dei militari di
professione, a cominciare quindi dagli ufficiali).
Le origini dell'esercito prussiano risalgono all'epoca di Federico Guglielmo di Hohenzollern, detto "il Grande elettore": salito al trono del Brandeburgo nel 1640, Federico Guglielmo capì immediatamente che i destini dei suoi piccoli e sparsi possedimenti sarebbero stati tutelati soltanto da uno strumento militare potente ed efficiente. Per reclutare e armare soldati, tuttavia, occorreva prima superare le resistenze della nobiltà terriera locale, gli jukers, che attraverso le assemblee dei ceti lesinavano sulla concessione di nuove tasse per il mantenimento e l'approvvigionamento delle truppe. Per superare l'impasse, Federico Guglielmo concluse di fatto "un'alleanza" con la nobiltà del suo regno: in cambio della disponibilità a servire nel suo esercito come ufficiali, il Grande Elettore avrebbe concesso alle famiglie dell'aristocrazia la trasformazione dei feudi in terre allodiali, di proprietà assoluta. Di fatto, con questo patto, Federico Gugliemo si assicurò la fedeltà di un'intera classe sociale, fornendo anche alle sue forze armate un serbatoio inesauribile dove reclutare una classe ufficiali che faceva del servizio militare agli ordini del suo re il motivo stesso del suo prestigio sociale; ma soprattutto, trasformando i loro feudi in terre allodiali, fece degli junker un ceto militare e amministrativo allo stesso tempo, perché su tali possedimenti i loro proprietari godevano di diritti speciali concernenti l'amministrazione della piccola giustizia e la gestione degli affari locali.
Da Federico Guglielmo in avanti, questa sorta di alleanza tra potere centrale e junkers è sempre stata rinnovata implicitamente nella tacita consapevolezza dei vantaggi che essa arrecava a entrambi i contraenti. Per circa tre secoli la nobiltà prussiana ha continuato a considerare la fedeltà militare alla corona un patto con doveri e diritti per entrambi i soci: il predominio sociale che gli junkers vantarono fino a tutto il XIX secolo nella società prussiana era considerato dagli ufficiali prussiani il giusto riconoscimento per la scelta di vita che, di generazione in generazione, i figli della nobiltà prussiana facevano quando sceglievano di abbracciare la carriera delle armi. Ben presto, così, l'esercito prussiano cominciò a considerare sé stesso come un'istituzione non solo statale, ma anche sociale e politica. Tanto per fare un esempio, lo Stato maggiore generale - l'istituzione che più di ogni altra riassunse la specificità delle forze armate tedesche nella storia militare europea - divenne di fatto, all'epoca di von Moltke, un vero e proprio ministero-ombra: del tutto autonomo rispetto al dicastero della guerra, lo Stato maggiore generale arrivò in alcuni frangenti a influenzare con le proprie decisioni strategiche le scelte politiche dei governi prussiani, finendo addirittura per scatenare una crisi istituzionale durante la guerra franco-prussiana del 1870, crisi che rischiò per alcuni mesi di provocare la fine prematura della carriera di un uomo politico di nome... Bismarck.
Nel 1914 i rapporti tra corona, governo ed esercito rimanevano immutati: di fatto le forze armate non si consideravano ciò che erano negli altri paesi - un ramo dell'apparato di governo e di coazione dello Stato - ma si ritenevano un'istituzione politica, autonoma rispetto non solo al governo e al parlamento, ma anche all'imperatore. Quest'ultimo punto è essenziale per comprendere quello che poi succederà negli anni '20 e '30: nonostante lo sviluppo prima di un apparato statale sempre più avanzato (XVII-XVIII secolo) e poi di un regime parlamentare (spiccatamente
conservatore ma sempre parlamentare, XIX secolo), la dinastia degli Hohenzollern continuò a considerare l'esercito un affare di pertinenza esclusiva della corona, mentre l'esercito considerava il rapporto con la corona del tutto slegato dagli ambiti costituzionali e governativi. Guglielmo I, per esempio, considerava von Moltke alla stregua di un consigliere particolare per gli affari militari e gli accordava un corridoio preferenziale nei contattatti con la sua persona che permetteva al capo di Stato maggiore di scavalcare il ministro della guerra e il cancelliere, nonostante nella gerarchia dell'amministrazione dello Stato risultassero suoi superiori; Guglielmo II, invece, manteneva presso la sua corte un
piccolo staff di alti ufficiali che facevano da trait d'union con lo stato maggiore generale e che di fatto consentivano a quest'ultimo di rispondere direttamente davanti al re delle proprie scelte strategiche senza alcun passaggio intermedio presso il governo.
Gli effetti politici di questo rapporto "particolare" tra i vertici delle forze armate e la massima carica dello Stato tedesco furono particolarmente gravi proprio durante la grande guerra: nel 1914, in piena mobilitazione, l'esercito (per bocca di von Moltke il giovane) si oppose a che il governo esplorasse un'opzione diplomatica che avrebbe potuto escludere dalla guerra Francia e Inghilterra limitando il conflitto alla sola Russia (sto facendo riferimento al celebre episodio del trasferimento via treno delle divisioni tedesche da ovest a est). In altre parole, l'esercito si era intromesso in questioni non sue (la gestione della politica internazionale) adducendo ragioni di carattere tecnico-militare (l'impossibilità di cambiare improvvisamente i piani di mobilitazione): è come se il ministero del lavoro
dicesse al capo della Repubblica che la riforma delle pensioni è impossibile perché gli uffici non sono pronti ad affrontare la valanga di documenti che comporterà.
Ma ci fu di peggio: mentre negli altri paesi il principio secondo il quale è la politica che deve governare la guerra (e quindi tocca al governo sovraintendere alle scelte militari) si affermava lentamente ma inesorabilmente, in Germania invece si impose rapidamente il concetto opposto e lo Sttao maggiore generale divenne, con Hindenburg e Falkenhayn, una sorta di governo-ombra dalla cui volontà dipendevano le sorti degli esecutivi civili.
L'apogeo di questa lenta degenerazione del sistema prussiano portò alla fine della monarchia: dopo avere spinto, di fatto, la Germania in guerra con gli Stati Uniti (furono i militaria sostenere che la guerra sottomarina era troppo importante per rinunciarvi allo scopo di evitare il coinvolgimento nel conflitto degli Usa), dopo essersi opposti a trattative di pace importanti (Falkenhayn ne respinse una promettendo la vittoria in quella che sarebbe stata la sua ultima offensiva), quando nel '18 apparve chiaro che la sconfitta era inevitabile l'esercito, nella persona di Hindenburg, si recò da Gugliemo II consigliandogli l'abdicazione come extrema ratio per evitare il tracollo rivoluzionario del paese; di fatto, le forze armate con questo atto scaricarono ogni responsabilità della sconfitta sulle spalle della
corona.
E veniamo al periodo che più ci interessa: fino agli anni '30, le forze armate rimasero fedeli alla repubblica di Weimar per puro interesse politico: fintantoché il pericolo di una rivoluzione comunista restava forte e le forze armate deboli (a causa dei vincoli del tratttao di Versailles) il sostegno al regime repubblicano rappresentava una scelta obbligata per la nobiltà junkers; non a caso, fu proprio in questo clima che Hitler tentò, nel '22, il suo primo putsch, e in quella occasione l'esercito rimase dalla parte della repubblica, prendendo a fucilate i Nazionalsocialisti e il loro capo.
L'episodio, tuttavia, servì anche a Hitler per convincerlo che non sarebbe mai stato possibile conquistare il potere e tenerlo senza prima guadagnarsi il placet delle forze armate. Il programma politico del Nsdap era già fatto
per questo, perché la restaurazione della potenza della Germania passava necessariamente attraverso il suo riarmo e, conseguentemente, attraverso un'espansione delle forze armate. Oltre a questo, però, nei primi anni - i più critici - del regime, Hitler fece sempre bene attenzione a non inimicarsi i vertici militari: per esempio, l'eliminazione delle Sa (La notte dei lunghi coltelli) venne decisa anche per compiacere l'esercito.
E i militari? Il conservatorismo sociale di una classe ufficiali che, al contrario di altri paesi, era riuscita a limitare al massimo la penetrazione di altri ceti rendeva senza dubbio più familiare e ben accetto un regime reazionario piuttosto che uno repubblicano. Fatta eccezione comunque per singoli casi personali, nel complesso l'esercito venne contaminato solo in modo marginale dal nazionalsocialismo (almeno fino al '36-'38, quando la massiccia immissione di nuovi quadri, voluta proprio dal regime, provocò un massiccio ingresso di giovani ufficiali, più politicizzati e sensibili al richiamo dell'ideologia hitleriana). Tuttavia, l'intelligenza politica di Hitler si rivelò superiore a quella dei vertici dell'esercito e il Fuehrer, con mezzi leciti o più spesso illeciti (nella Notte dei lunghi coltelli vennero uccisi anche due generali, vicini a von Papen; Fritsch e Blomberg, che avevano osato protestare contro le razzie compiute dalle Ss ai danni della chiesa cattolica tedesca, vennero costretti alle dimissioni con false accuse), riuscì entro la fine del '38 a sistemare a capo dell'esercito e dello Stato maggiore generale due ufficiali deboli e facili da manovrare. L'esercito, purtroppo, commise il grave errore di ritenere che gli affronti perpetrati dal regime nazista al prestigio delle forze armate (come gli episodi che ho già citato o l'obbligo del giuramento personale a Hitler da parte di ogni ufficiale, introdotto nel '36) fossero il piccolo scotto da pagare in cambio di una politica che stava restituendo importanza e potere ai militari, esattamente come, tre secoli prima, gli junker avevano accettato di servire Federico Guglielmo in cambio di terre e potere sociale.
Tu mi chiedi come i militari poterono dare il loro assenso a operazioni militari tecnicamente errate. La verità - sconvolgente, se vogliamo - è che i militari diedero la loro anima a Hitler porprio quando videro in lui quel
condottiero supremo al quale ogni soldato concede cieca obbedienza. Quando - con l'istituzione dell'Okw e l'accentramento nelle sue mani del comando politico e militare - Hitler cancellò di fatto con un rapido colpo di spugna un'istituzione "sacra" agli junkers come lo Stato maggiore generale, l'asservimento delle forze armate ai destini del regime nazista era quasi completa. Mancava soltanto la prova dei fatti: ancora nel '39, i militari tedeschi consideravano Hitler un modesto caporale di fanteria, privo di ogni senso strategico. Poi, le brillanti e sorprendenti vittorie in Polonia e Francia - vittorie ottenute nonostante lo scetticismo degli stessi militari - convinsero i generali che Htler era il Signore della strategia, il condottiero - appunto - che avrebbe guidato la Germania e il suo esercito
a trionfare sui loro vecchi nemici. Questo idillio non durò a lungo: già alla fine del '41, con la campagna di Russia impantanatasi, l'immagine di un Hitler invincibile e onniscente aveva subito evidenti crepe. Ormai però era troppo tardi: i vertici militari non potevano più sganciarsi da un regime al quale avevano ormai donato corpo e anima, mentre l'ubbidienza continuava comunque a rappresentare un valore anche quando il comandante supremo imponeva strategie e scelte operative contrarie a ogni buon senso (in realtà, qui ci sarebbe parecchio da dire, ma andremmo OT). Alcuni ufficiali ritrovarono se stessi e il senso di un orgoglio che pareva morto da tempo nel '44, con il ben noto attentato. Ma ormai, indipendentemente dall'esito di quel gesto disperato, era troppo tardi. Hitler non era Guglielmo II e ai vertici dell'esercito non c'era un altro Hindenburg.
Alessandro
Reply di Alessandro Santoro ad un post di Junker - 23/03/01
"Junker" ha scritto nel messaggio:
1) La sensazione è che, nonostante i problemi oggettivi da te segnalati, fossero sfuggite, agli italiani ma più in generale a tutti gli eserciti, a esclusione di quello tedesco e di quello giapponese, le nuove possibilità belliche intrinseche nello sviluppo degli armamenti;
(snip)
Se si guarda le cose da questo punto di vista, le forze di terra di Italia, Russia, Inghilterra e soprattutto Francia, che era considerato l'esercito più potente del mondo, ed i loro alti comandi, pressapoco le si equivalgono.
Mi pare che tu stia confondendo questioni che non hanno relazione tra loro. Prendiamo per esempio lo sviluppo del mezzo corazzato e la dottrina tattica delle panzerdivisionen: non credere che siano stati solo i tedeschi a sperimentarne opportunità e impieghi operativi. Anzi, prima che Guderian elaborasse le sue teorie, ufficiali come i britannici John Fuller e Basil Liddell-Hart o i francesi Jean Baptiste Estienne e Charles De Gaulle avevano già abbozzato o definito modelli d'impiego dell'arma corazzata, che i vertici militari anglo-francesi non seppero portare avanti e ai quali, invece, i tedeschi si sarebbero ampiamente ispirati (cfr. A. Corvisier, Dictionnaire d'histoire e d'art militaire, Puf).
Il problema, quindi, non è quello di chiedersi perché i tedeschi colsero quello che gli altri non intuirono, ma al contrario perché approfondirono teorie tattiche che, negli altri paesi, rimasero soltanto brillanti
intuizioni di una ristretta cerchia di illuminati ufficiali. Certo, in Inghilterra e Francia Fuller e compagni dovettero arrendersi davanti al conservatorismo dei loro superiori, ma non si creda che in Germania Guderian trovasse sempre davanti a sé la strada spianata: che von Brauchitsch, Beck e Halder - tutti e tre ai massimi vertici delle forze armate - cercassero di ostacolare in tutti i modi i disegni di Guderian per la creazione di una vera e propria "Panzerwaffe" è cosa ormai ampiamente appurata dagli storici (cfr. C. Barnett - a cura di - I generali di Hitler, Rizzoli), così come è ampiamente noto il motivo per cui Guderian ebbe successo laddove Liddell-Hart e De Gaulle fallirono: fu Hitler stesso a difendere Guderian e a permettere che le sue idee venissero sviluppate nonostante le resistenze dei tradizionalisti, e lo fece perché le teorie di Guderian sull'impiego delle forze corazzate si sposavano perfettamente con la sua dottrina strategica (cfr. A. Hillgruber, La strategia militare di Hitler, Rizzoli).
Le stesse considerazioni - rovesciate - si potrebbero fare sulla guerra aerea: perché la Germania non sviluppò una reale forza aerea per il bombardamento strategico? Perché l'intera dottrina tedesca sull'impiego
dell'aviazione poneva ogni attenzione alla dimensione tattica, senza alcun cenno a quei principi che negli anni Venti erano stati elaborati da teorici come Douhet o Severski? Arretratezza culturale degli ufficiali della Luftwaffe? Ovviamente no: la verità è che la Germania nazista si disinteressò dell'aviazione strategica perché le teorie hitleriane della blitzkrieg non la prendevano neanche in considerazione.
Tirando quindi le somme: può risultare estremamente pericoloso considerare la strategia o la dottrina militare di un paese l'indizio più eloquente della mancanza di vitalità o di dinamismo dei suoi militari. Come sa bene
ogni storico militare, infatti, la strategia non è una variabile indipendente del fenomeno guerra ma è strettamente legata alla struttura sociale e politica del paese che la persegue. Ogni società, come scrisse
Raimondo Luraghi (La guerra civile americana, Rizzoli) combatte secondo modi che le sono propri e che dipendono dalla sua composizione sociale e dalle sue istituzioni.
In altre parole, la strategia appartiene alla dimensione storica: non si possono giudicare i fallimenti di De Gaulle o Liddell-Hart senza ricordare le difficoltà di bilancio con le quali le forze armate francesi e britanniche erano costrette a fare i conti in quegli anni (difficoltà che rendevano estremamente difficile ogni mutamento che implicasse un radicale rinnovamento negli armamenti e nell'organizzazione), né si possono slegare i successi di Guderian dalla particolare situazione nella quale versava l'esercito tedesco dopo la pace di Versailles: spesso, ricominciare da zero costa meno che rinnovare un intero parco mezzi.
Quindi non è nell'innovazione strategica, ma è altrove che vanno cercati i segnali in base ai quali giudicare qualità e preparazione di un'intera classe ufficiali. Dove? Beh, in fondo è un po' come esprimere un giudizio sugli insegnanti: al di là del valore o della disponibilità dei singoli, è dall'efficienza dell'edificio nel suo complesso (la scuola nel caso dei docenti, l'esercito nel caso degli ufficiali) che si giudica la qualità del personale sulle cui spalle si regge l'intera impalcatura: certo, le responsabilità vanno divise con altri attori (lo Stato, innanzitutto), ma non per questo ufficiali e insegnanti sono autorizzati a chiamarsi fuori. Analizzando la questione in questi termini, ecco che quei fattori ai quali facevo riferimento nel mio primo messaggio - preparazione culturale, selezione, formazione ecc. ecc. - diventano i parametri sui quali giudicare l'efficienza di un'intera categoria: se all'ufficiale si richiede autonomia di giudizio, intelligenza, prontezza mentale e capacità di comando, non è appellandosi alle "virtù militari" che si infondono nei cadetti tali qualità, bensì impartendo un'accurata formazione (accademia, scuola di guerra ecc. ecc.) e attuando una severa selezione.
D'altronde, non dimentichiamolo: nel 1870, quando la Prussia sorprese l'Europa sconfiggendo con un'armata di leva un esercito professionale ammirato e rispettato come quello francese, tutti dissero che a vincere erano stati i "maestri di scuola tedeschi" (e questo è ancora ciò che ripetono oggi gli storici) perché in quella guerra il soldato di leva prussiano aveva dimostrato intraprendenza, spirito di corpo e disciplina ma anche capacità di assumere decisioni autonome (in poche parole, aveva evidenziato un comportamento diametralmente opposto a quello da "soldatini di piombo" che pretendevano gli eserciti professionali dell'epoca). Tutti i paesi europei si resero conto che il merito principale di questa trasformazione era da addebitare al sistema scolastico prussiano, che prevedeva l'istruzione obbligatoria per tutti da parte dello stato fin dal 1806, e - chi prima chi dopo - si affrettarono a copiarlo. Come vedi, nessuno diede grande attenzione alle "virtù militari", e d'altronde non avrebbe potuto essere altrimenti perché per gli europei dell'epoca la Francia avrebbe dovuto gettare sul campo di battaglia un "surplus" di virtù militari (si pensi solo all'epopea napoleonica) tali da annientare la piccola Prussia (che a parte due piccoli conflitti nel 1864 e 1866, non combatteva più guerre dai tempi di Waterloo). Ed eccoci al punto: nessuno
nega il valore delle tradizioni, soprattutto quando servono a formare lo spirito di corpo, ma sulle tradizioni non si costruiscono eserciti efficienti. E d'altronde, non dimentichiamoci mai che quelle che noi chiamiamo "virtù militari" sono soltanto il prodotto della storia: a noi uomini del XX secolo (anzi, XXI ormai) pare che la Germania sia il paese che più di ogni altro possa vantare tradizioni militari eccellenti e di estremo prestigio. Eppure, non è sempre stato così: solo due secoli fa Clausewitz - che aveva sotto gli occhi il disastro militare di Jena e le difficoltà dei riformisti a ricostruire un esercito di popolo sul modello francese - definiva il costume dei tedeschi "flemmatico, ipersensibile, molle - il che dal punto di vista politico vuol dire deboli e privi di carattere". E a tale indole, il generale prussiano contrapponeva quella francese, che li rendeva "buoni strumenti del loro governo" (cfr. G. E. Rusconi, Clausewitz il prussiano, Einaudi). Incredibile, vero? Oggi, saremmo portati a pensare esattamente il contrario, e a vedere nei tedeschi cittadini disciplinati e obbedienti e nei francesi persone flemmatiche e ipersensibili. Ma la cosa non deve stupire: come ho detto, Clausewitz aveva sotto gli occhi i trionfi francesi dell'epoca napoleonica e le sconfitte prussiane, noi abbiamo sotto gli occhi il tracollo francese del '40 e le imprese dell'esercito tedesco
nella I e nella II guerra mondiale.
E allora? allora, la risposta è semplice: le virtù militari appartengono alla dimensione storica (vanno e vengono) e sono il frutto - non la causa - dell'efficienza dello strumento militare di un paese. L'efficienza, dipende
dal modo in cui vengono gestite le cose militari.
IMHO ritengo che sia stata soprattutto la mancanza di idee a penalizzare la classe degli ufficiali italiani, ed in misura almeno pari alla non eccelsa qualità degli uomini; per giunta non credo che le due cose siano direttamente correlate (i.e. non capiscono una mazza perche sono scemi), o per lo meno non così direttamente come può sembrare.
Al contrario invece, le due cose sono strettamente interdipendenti: la mancanza di idee è cronica in un ambiente nel quale latitano la competitività e lo stimolo alla riflessione teorica; e dove non c'è selezione non c'è competitività, mentre dove manca l'impulso a sperimentare e a innovare risulta assente ogni spinta allo studio e alla riflessione. Questo è ciò che era la classe ufficiali italiana nel primo dopoguerra.
La mia tesi è che le società del XIX e XX secolo sono prive di grandi
figure militari nella misura in cui sono sviluppate nel senso della
democrazia parlamentare
Non mi pare che ufficiali come Patton, Montgomery, Nimitz o McArthur possano essere considerati mediocri "figure militari". E cito questi quattro nomi solo per comodità, perché mi piacerebbe chiederti per quale motivo Napoleone non possa essere considerato "figlio" di un regime parlamentare...
il buon cittadino è necessariamente un mediocre militare, non per il valore personale, ma per l'essere il prodotto di un particolare tipo di società
Eppure, gli eserciti di leva della Rivoluzione francese ebbero ragione di armate altamente addestrate e rigorosamente professionali, così come i coloni statunitensi vinsero sulle truppe mercenarie inglesi. Non sarei così
sicuro dell'equazione che hai enunciato...
3) La situazione attuale rispecchia in modo analogo quella di allora: un paese dove la vita militare è così estranea alla vita del cittadino non può produrre una classe di ufficiali veramente efficace
Sicuro sicuro? Secondo te negli Stati Uniti, oggi, la vita militare è "estranea alla vita del cittadino" - come dici tu - o ne fa parte integrante? E la preparazione degli ufficiali dell'esercito Usa, come la giudicheresti?
Alessandro