Incoerenza dello Stato Maggiore Tedesco
by Paolo - 08/03/02
Ripensando alla storia tedesca del XX secolo mi sono venuti grossi dubbi sulla coerenza dello Stato maggiore tedesco. Dopo la sconfitta nella PGM formalmente fu abolito, ma continuò ad operare sotto la
guida di Von Seekt, che gettò le basi per un riarmo sistematico; in quegli anni si dichiarò apolitico (gli ufficiali nemmeno andavano a votare), non fece nessun colpo di Stato in proprio e grosso modo rimase fedele al Governo (repubblica di Weimar), ma il cuoricino batteva per l'estrema destra, soprattutto per giungere ad un riarmo della Germania. Alla fine si mise dalla parte di Hitler. Con Hitler al potere, ebbero molto di ciò che avevano sempre sognato, ma cominciarono a fare la fronda, perché temevano che se si giungeva a una guerra "Germania contro tutti" la Germania avrebbe perso, e questa era una previsione tecnicamente esatta. Dal 1938 alcuni ufficiali giunsero a fornire informazioni segrete a Belgi, Inglesi e altri con la speranza di evitare una guerra. Non mi dilungo su quanto accadde
in seguito, 20 Luglio 1944 compreso. Quello che mi chiedo è: ma cosa voleva l'establishment militare tedesco? Un esercito (e marina ed aviazione) fortissimi, ma da non usare perché la coalizione dei possibili nemici sarebbe stata comunque troppo forte? Insomma tantissime divisioni, ma da usare solo per delle parate militari? O i militari
avevano in mente un piano, magari diverso da quello di Hitler, forse da eseguire in modi e tempi diversi da come avvenne, che avrebbe portato la Germania al successo in campo militare? Di fatto la Germania entrò in guerra con il solo esercito abbastanza forte (ma ad esempio anche lì con munizioni solo per poche settimane), la Luftwaffe si sarebbe dimostrata inferiore alla RAF (e l'industria aeronautica tedesca produceva meno aerei di quella inglese), il piano
per il potenziamento della marina era appena agli inizi, per non parlare di V1, V2, e bombe atomiche. Se Hitler fosse stato disposto ad aspettare e entrare in guerra a 60 anni, avrebbero avuto qualche chance in più?
Ciao
Paolo
Reply di Alessandro Santoro - 11/03/02
La tua analisi è esatta solo parzialmente. Per comprendere appieno il comportamento dello Stato maggiore tedesco (ma
sarebbe più giusto dire: della classe ufficiali tedesca) di fronte alla dittatura nazista, occorre ritornare indietro di qualche secolo, fino al regno di Federico Guglielmo, il Grande Elettore. Nel 1640, quando l'Hohenzollern salì al trono, i suoi possedimenti erano in preda a un'anarchia pressoché totale, causati da tre decenni circa di guerra quasi ininterrotta. Per restituire ordine alle proprie terre Federico Gugliemo doveva per forza ricorrere all'esercito, ma il mantenimento di truppe regolari richiedeva denaro e quindi tasse, la cui raccolta era osteggiata dai ceti. Per ovviare al problema, il Grande Elettore ricorse da un lato alla forza (in sostanza, fece raccogliere i tributi dalle truppe stesse, rendendo di fatto l'esercito strumento integrante della burocrazia statale), dall'altro alla diplomazia sociale. Non appena finita la guerra (quella dei Trent'anni, per la precisione), Federico Guglielmo concluse una vera e propria alleanza con la nobiltà del Brandeburgo: le proprietà degli junkers sarebbero state mutate da feudi detenuti in cambio di servitù fiscali e militari in terre allodiali, sulle quali la nobiltà prussiana avrebbe esercitato un diritto di giurisdizione pressoché assoluto (che, di fatto, trasformava le popolazioni contadine in servi della gleba); come contropartita, i ceti avrebbero votato un sussidio di 530 mila talleri in sei anni, destinato a raccogliere e armare nuove truppe.
Il sistema messo in piedi da Federico Gugliemo si dimostrò perfetto: le truppe arruolate con il sussidio servirono a imporre alle comunità locali nuove imposte (che, a loro volta, venoivano impiegate per arruolare nuovi soldati); al contempo, il ruolo sociale assegnato agli junkers trasformò la nobiltà in uno strumento di continuità e controllo: come scrive G.A. Craig ("Il potere delle armi: storia e politica dell'esercito prussiano 1640-1945", Il Mulino), l'aristocrazia era considerata "come classe di governo in tutte le questioni inerenti lo stato nel suo complesso".
A quell'epoca, il serbatoio naturale della nobiltà era l'esercito, e il sistema ideato da Federico Gugliemo rese la carriera delle armi una scelta ancora più giustificata: in quanto signore assoluto, il nobile era allo stesso tempo comandante del reggimento cantonale reclutato sulle sue terre, governatore (una sorta di intendente civile e militare) e amministratore della piccola giustizia locale.
Due secoli dopo, all'epoca di Bismarck, la Prussia si era ingrandita fino a inglobare tutta la Germania, gli Hohenzollern erano diventati imperatori, ma il rapporto tra la classe ufficiali tedesca e il loro signore era rimasto immutato: gli eredi degli junker del Grande Elelttore si consideravano ancora il vertice politico e sociale del regno, la classe le cui tradizioni e il cui ruolo (militare e sociale) all'interno della stato rappresentavano la pietra angolare della dinastia Hohenzollern; peggio ancora, l'aristocrazia di origini prussiane continuava a considerare il proprio re un "primus inter pares" nei confronti del quale esisteva sì un legame di fedeltà e di obbedienza, basato però su una reciproca convenienza assai simile a quella che fu all'origine, dopo il 1648, dell'alleanza tra Federico Gugliemo e gli junkers del Brandeburgo. In virtù di quanto detto, la classe ufficiali tedesca si considerava una casta a sé, non vincolata alle leggi dello stato quanto a quelle del sangue. Gli Hohenzollern, non troppo intelligentemente, coltivarono attentamente questi sentimenti di casta, nella convinzione che questa fedeltà esclusiva al trono anziché allo Stato rappresentasse un elemento di sicurezza contro qualsiasi eventualità politica. Ovviamente, uno strumento militare minato da tali distorsioni sociali creò spesso problemi di ordine politico non indifferente: nel 1870, per esempio, tra il cancelliere Bismarck e il capo di stato maggiore dell'esercito, il celebre Helmut Von Moltke, scoppiò un dissidio gravissimo sul proseguimento della guerra con la Francia, dissidio
che rischiò di provocare le dimissioni dello stesso Bismarck e che era essenzialmente legato al rifiuto di Von Moltke di obbedire agli ordini del capo del Governo.
Queste tensioni si ripeterono spesso nella storia della Germania di fine ottocento, soprattutto quando lo sviluppo del regime parlamentare introdusse un ulteriore elemento di disturbo nel rapporto esclusivo tra trono ed esercito; in tal senso, è indicativo il fatto che, a partire dal 1870, il ministero della Guerra conobbe un lento ma inesorabile declino, a tutto vantaggio dello Stato maggiore generale (che, di fatto, divenne competente per tutti gli affari della difesa nei confronti dell'imperatore, con il ministero della Guerra a fare da debole contraltare di fronte al governo);
eloquenti, poi, sono anche le leggi sui bilanci militari o la famosa legge di Tirpiz sulla flotta da battaglia, pensate come un meccanismo automatico sottratto alla competenza parlamentare.
Il secondo momento di svolta nella storia dell'esercito tedesco fu il 1918. Una volta che la sconfitta divenne evidente, dopo il fallimento dell'ultima offensiva di Ludendorff, l'esercito (nella persona di Hindenburg) si recò dall'imperatore per comunicargli la necessità di addivenire a un armistizio. Come scrive Craig "Una delle caratteristiche non meno notevoli dell'esercito prussiano come organizzazione politica, fu la sua abilità di farla franca nei momenti di renconto". Sul collasso del 1918, così come sulla condotta politica della guerra, l'esercito aveva le sue pesanti responsabilità: dalla caduta del ministero Bethmann-Hollweg nel 1917, per esempio, il duo
Hindenburg-Falkenhayn divenne un vero e proprio governo-ombra, le cui manovre impedirono a più riprese l'avvio di trattative di pace con i paesi dell'Intesa.
In teoria, l'esercito avrebbe dovuto condividere con il trono le responsabilità della sconfitta di fronte al paese, ma questo non avvenne. Hindenburg consigliò all'imperatore l'abdicazione in nome della salvezza del paese (sull'orlo della guerra civile e della rivoluzione comunista) per poi presentare l'esercito alla neonata repubblica come l'unico strumento di sicurezza di fronte all'anarchia. Il 1918, in altre parole, fu un momento di svolta perché l'esercito ruppe in modo definitivo l'alleanza stipulata con il trono circa due secoli e mezzo prima: per salvare sé stessi e l'esercito (e quindi il loro ruolo sociale nel paese), gli junker sacrificarono la monarchia e abbracciarono la causa repubblicana. Certo, quella con la repubblica di Weimar fu soltanto un'alleanza tattica (obtorto collo, sotto certi aspetti) resa necessaria dalla contingenza: meglio un regime parlamentare di una dittatura comunista.
L'alleanza con la democrazia parlamentare durò soltanto una quindicina d'anni. L'ascesa del partito nazionalsocialista fu inizialmente accolto con indifferenza dall'esercito (che nel fallito pustch del '23 sparò su Hitler e sui suoi accoliti), ma nel '33 la classe ufficiali aveva ormai sposato la causa nazionalsocialista. Questa convergenza va ascritta soprattutto all'intelligenza politica di Hitler. Il fallimento del '23 aveva convinto il
futuro Fuhrer che un'ascesa al potere senza il sostegno dell'esercito sarebbe stato impossibile. Per questo, Hitler trascorse gli anni successivi a corteggiare e lusingare i vertici militari tedeschi, la cui collocazione rispetto al paese, allo stato e alla società rimaneva sempre quella di tre secoli prima: gli junker continuavano a sentirsi un ceto a sé stante, un corpo separato rispetto alla società e allo Stato, per di più ormai svincolato da ogni legame di fedeltà verso un trono che non c'era più. Di conseguenza, l'esercito era ormai libero di muoversi sulla scena politica in base alle porprie convenienze, e così fece - o meglio, credette di fare - con Hitler: attraverso la sua politica di riarmo e di potenza, Hitler prospettò all'esercito un ritorno al passato dopo le ristrettezze introdotte dalla Pace di Versailles, il recupero di quella supremazia politica e sociale che, per ragioni essenzialmente tattiche, l'esercito aveva cessato di rivendicare sotto la repubblica di Weimar, accontendandosi di evitare
ogni collocazione politica.
Purtroppo, i militari non si rendevano conto che Hitler - quasi si trattasse di un nuovo Federico Guglielmo - non mirava a stipulare una nuova alleanza con gli junker, ma a legarli a filo doppio al carro dello stato totale nazionalsocialista. La tattica hitleriana raccolse tutti i suoi obiettivi: nella Notte dei lunghi coltelli, le Ss poterono scorrazzare in lungo e in largo per tutto il paese senza che l'esercito alzasse un dito; l'eliminazione delle Sa - è vero - compiacque così i vertici dell'esercito (cui non piaceva l'esistenza di un corpo paramilitare che minava il monopolio dell'esercizio delle armi tradizionalmente riconosciuto all'esercito), ma in quel bagno di sangue furono eliminati anche alcuni importanti ufficiali invisi al regime, tra i quali von Schleicher e Bredow. L'esercito, in altre parole, si lasciò "colpire" nell'illusione che il regime gli avrebbe restituito il suo antico splendore. Falso, ovviamente. Già nel '34 Hitler aveva cercato di attentare all'autonomia dell'esercito presentando per la carica di capo di stato
maggiore un suo fedele, il generale Reichenau. Hindenburg in persona intervenne per impedire quella nomina (tanto è ero che alla fine l'incarico andò a von Fritsch) ma quel primo segnale stava a indicare che Hitler non aveva alcuna ntenzione di lasciare che all'interno dello stato nazionalsocialista potesse continuare a operare un corpo autonomo come l'esercito. Alla morte di Hindenburg, la fusione della carica di presidente della repubblica e di cancelliere sotto il titolo di Fuhrer, permise a Hitler di imporre ai capi delle forze armate, agli ufficiali e ai soldati della Reichswehr un giuramento di obbedienza incondizionata al loro comandante supremo, ossia Hitler stesso. "i capi dell'esercito" scrive Craig "evidentemente non si resero conto di avere già perso nei confronti del tiranno molto terreno, che non sarebbe più sttao possibile recuperare; e che l'inviolabilità della Wehrmacht era già stata infranta dall'omicidio impunito dei generali von Schleicher e Bredow, e che la loro vecchia preteza che l'esercito fosse al di sopra dei partiti e rappresentasse soltanto lo stato, era stata fatalmente compromessa dal nuovo giuramento che essi
avevano prestato con tanta leggerezza". Quello fu l'inizio della fine: nel '38 la polizia nazista diffuse un dossier dal quale trapelava che la moglie di Blomberg era schedata; si pose il problema della successione ma quando l'esercito pose la candidatura di von Fritsch Himmler tirò fuori un dossier che dimostrava come il capo di stato maggiore delle forze armate fosse un omosessuale. Ovviamente l'accusa era falsa ma bastò a Hitler per chiedere le dimissioni anche di von Fritsch; il quale, avendo sottoscritto un giuramento ed avendo un'alta concezione del proprio onore, non poté che obbedire. Hitler ripropose la candidatura di Reichenau e i militari, perdendo clamorosamente i contorni della vicenda, rinunciarono a difendere l'onore del loro capo di sttao maggiore pur di salvare quella che credevano essere ancora la loro autonomia; in difesa, accettarono così il ripiego sulla candidatura di von Brauchitsch senza rendersi conto che era lui fin dall'inizio il vero obiettivo di Hitler, E lo era perché von Brauchitsch, al contrario di von Fritsch, apparteneva a quel genere di militari che sono pronti a svilire il significato del loro incarico pur di mantenerlo.
L'epilogo della vergogna si ebbe alla fine del '41, quando Hitler, rimossi prima von Brauchitsch e poi Halder, decise di mantenere nelle prorprie mani il comando supremo: "questa bazzecola del comando operativo" disse nell'occasione "è qualcosa che chiunque può sbrigare".
Concluderei con le parole di un altro militare, Friedrich Hossbach: "La fede che il popolo tedesco ha sempre mostrato fin dai suoi albori e dalla sconfitta del 1918 nell'istituzione militare, comportava per Blomberg l'obbligo morale di essere l'alfiere della giustizia e di formare una barriera contro le pretese totalitarie da parte dello stato. La tragedia della storia della Germania moderna sta nel fatto che Blomberg non fosse né come soldato né come statista una forte personalità, decisa e creativa, uno spirito guida e un condottiero. La sua intelligenza mancava del fondamento di un carattere fermo". Per quanto concerne Brauchitsch e Halder, Hossbach li accusa di "avere posto la reputazione del comando supremo in balia di una dirigenza politica immorale e di non averne difeso l'autonomia... Rispetto alla sicurezza della nazione, essi hanno mancato di esercitare la loro responsabilità politica, militare e morale".
Alessandro
Bibliografia:
G.A. Craig, Il potere delle armi: storia e politica dell'esercito prussiano 1640-1945, Il Mulino
G. Ritter, I militari e la politica nella Germania moderna, Einaudi
F.L. Carsten, Le origini della Prussia, Il Mulino